Atto Quarto: Fruma
Scena Prima
People
think dreams
aren't real just because they aren't made of matter, of particles.
Dreams are real. But
they are made of viewpoints, of images, of memories and puns and lost
hopes.
John si svegliò
piangendo. Se avesse potuto, avrebbe urlato tutta la sua disperazione,
ma il
grido gli rimase soffocato in gola. Le lacrime inzupparono ben presto
il
cuscino e i singhiozzi riempirono la stanza echeggiando tra le quattro
mura.
Era finita. D'ora in avanti non ci sarebbe più stato uno Sherlock con
cui
trascorrere le notti, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da cui
rifugiarsi
per sfuggire all'inutile vita quotidiana, non ci sarebbe più stato uno
Sherlock
da...amare.
Il peso della scomparsa
si riversò con violenza inaudita addosso a John. Voleva tornare
indietro e
salvarlo, ma sapeva che era impossibile e questa sua incapacità lo
uccideva
dentro.
Quel “aspettami”
pronunciato a fil di voce da Sherlock, tuttavia, lo teneva aggrappato
ad una
speranza inesistente. Nelle notti seguenti sperò che il viso tanto
familiare
riapparisse e che Sherlock avesse sbagliato a calcolare quello che gli
sarebbe
successo. Ovviamente non fu così e l'aspettami rimase
soltanto un
desiderio inesaudito.
I sogni ripresero ad
essere pieni di elicotteri e deserti, senza più traccia di draghi e
foreste e
le sue notti tornarono ad essere vuote. Giorno dopo giorno tentò di
convincersi
che Sherlock sarebbe tornato, che un giorno avrebbe appoggiato la testa
sul
cuscino e si sarebbe trovato di fronte a degli occhi azzurri che lo
scrutavano
sotto una massa di riccioli neri. Eppure nel suo cuore sentiva che
Sherlock –
non lo Sherlock del sogno, ma quello reale – non esisteva più. Non si
era mai
reso conto, prima d'allora, quanto il loro legame fosse profondo. Ora
che non
c'era più, ne avvertiva la mancanza non solo all'interno della sua
anima, ma anche
all'interno dell'intero universo. Come se Sherlock fosse stato un
elemento
fondamentale per la conformazione del cosmo che fosse improvvisamente
venuto a
mancare. E si chiedeva come gli altri non riuscissero a percepirlo e a
continuare tranquillamente le loro vite.
È impossibile, si diceva, che
non sentano che qualcosa di così importante
è scomparso.
L'unica cosa che gli
rimaneva, ormai, era la vivida immagine dei loro incontri e ci
s'immergeva
quanto più spesso poteva, perché non voleva perdere anche quella,
l'unico
ricordo che aveva dell'unica persona che avrebbe mai potuto amare. Sì,
perché
John, nel profondo del suo cuore, era anche perfettamente conscio che
non ci
sarebbe mai potuto essere nessuno in grado di sostituire Sherlock. E
come
avrebbe potuto esistere? Sherlock era tutto, il
resto era niente.
In certi momenti il
senso di colpa lo consumava fino a lasciarlo, tremante, senza fiato.
Era colpa
sua se era successo qualcosa al fratello di Sherlock, era colpa sua e
del non
aver insistito ad interrompere quegli incontri, era colpa sua se
Sherlock
era...morto. Per quanto lo Swefnesferiend gli avesse ripetuto di non
incolpare
se stesso, non riusciva a farsene una ragione.
Se glielo avessi detto,
se mi fossi imposto, lui ora sarebbe...vivo.
Ma dall'altra parte non
riusciva a provare un completo rimorso, perché il tempo che avevano
trascorso
insieme era di quanto più felice ci fosse stato nella sua vita. E come
poteva
provare rimorso perché erano stati – sì, anche Sherlock, lo aveva
definitivamente sentito in quel solo bacio – felici? Anche in quei
momenti di
sconforto non poteva negare che avrebbe ripetuto quello stesso errore
dieci,
cento, mille volte.
Però il tempo scorreva
e, con esso, la ferita che John aveva creduto incurabile, cominciò a
rimarginarsi.
Proprio come un sogno, i
contorni della foresta e del drago, prima tanto nitidi, cominciarono a
perdersi
nel nulla, tanto che doveva sforzarsi sempre più per ricordarli. Con
essi se ne
andarono lentamente anche i dettagli dell'aspetto fisico di Sherlock.
All'inizio fu un'incapacità di ricordarsi in che modo camminava, poi
quanto
lunghe fossero le dita delle mani, poi sbiadirono i contorni del volto,
dei
capelli, degli occhi. E più tentava di trattenerli, più sembravano
sfuggirgli.
Passarono così due mesi,
finché anche l'ultimo dettaglio di Sherlock scomparve nelle nebbie del
tempo e
della sua testa. Gli rimase soltanto un velo di malinconia e l'idea di
aver
sognato qualcosa d'irripetibile, ma, se tentava di ricordare qualcosa,
non gli
sovveniva nulla di familiare. Anche la gamba, infine, cedette e tornò
ad essere
dolorante.
E John tornò alla sua
quotidianità fatta di sedute di psicoterapia, di ricerca di un
appartamento in
cui vivere, di un posto di lavoro che lo soddisfacesse e, magari, di
una
persona con cui vivere felicemente la sua vita. Ormai anche il vuoto
che
continuava a sentire era diventato anonimo. Non
sapeva più che quel
vuoto esisteva perché poco tempo prima vi era stato qualcuno con un
volto a
colmarlo. Ormai chiamava quel vuoto solitudine e
non più Sherlock,
perché quel nome non esisteva più.
Quattro mesi dopo il suo
ritorno dall'Afghanistan, John era appena uscito dall'ennesima sessione
con la
dottoressa Thompson, la quale si era lamentata nuovamente di come il
suo umore
fosse tornato nero nell'ultimo periodo.
Eppure sembrava aver
ritrovato un po' di serenità un paio di mesi fa, John, gli aveva detto, invece
adesso pare essere ritornato alla
settimana immediatamente successiva al suo rientro dall'ospedale. È
come se
avesse trovato e poi perso qualcosa di nuovo. È successo qualcosa? Fa
ancora
quei sogni con il drago?
John le aveva risposto
che aveva solo un vaghissimo ricordo di quei sogni e che, ora, non li
faceva
più, ma che non capiva come questo avesse potuto influire sul suo umore.
“Un sogno è un sogno,
come può influenzarmi, dottoressa?”
“Ne sembrava in qualche
modo legato, ma sembra che li abbia completamente superati. Me ne
compiaccio.
Rifugiarsi in fantasie infantili non è completamente salutare per il
nostro
lavoro di riabilitazione.”
“Capisco.”
Ora stava camminando
attraverso i Russel Square Gardens. Per essere l'inizio del mese di
ottobre, il
clima era ancora clemente sulla città di Londra. Un pallido sole faceva
capolino tra le nuvole e un vento che si poteva definire primaverile
spirava
tra i rami – già un po' spogli – degli alberi. Aveva anche appena dato
un'occhiata ad un appartamento di cui aveva visto un annuncio sul
giornale di
un paio di giorni prima. Sfortunatamente la posizione era ottima, il
prezzo,
invece, era pessimo. Senza un lavoro – e come poteva lavorare quando
non
riusciva ancora a fare i conti con se stesso e con i suoi incubi? – era
impossibile potersi permettere un appartamento a Londra.
Mentre zoppicava con
molta difficoltà, facendosi largo tra i passanti, gli parve di sentire
qualcuno
chiamare il suo nome. Non si fermò. John era un nome talmente comune
che la
voce avrebbe potuto riferirsi
letteralmente a chiunque.
“John Watson?”, la voce
continuò.
E se di John potevano
essercene a bizzeffe, le probabilità che due John Watson stessero
camminando
nello stesso momento nello stesso parco erano pari allo zero. Si girò.
Di
fronte a lui c'era un uomo grassoccio, stempiato e con gli occhiali. Un
campanello nella sua testa scattò: Mike Stamford. I
suoi ricordi
potevano essere annebbiati e l'uomo decisamente cambiato, ma certamente
era il
suo vecchio compagno di università e formazione al St. Bart's Mike
Stamford.
“Stamford.
Mike Stamford. Abbiamo
frequentato il Bart's insieme.”, disse l'uomo porgendogli la mano.
“Sì,
scusa, sì, Mike.”
“Eh,
lo so. Sono ingrassato!”
“Ma
no!”, John cercò di suonare
convincente.
“Ho
saputo che sei stato all'estero da
qualche parte, che ti hanno sparato. Che è successo?”
John
lo osservò perplesso, tentando di
capire se l'uomo lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio.
Nonostante il
sorriso decisamente ebete che gli illuminava il volto, Mike sembrava
animato
dalle più buone intenzioni, ma John non era proprio in vena di
dilungarsi in
conversazioni e tentò di tagliare corto.
“Mi
hanno sparato.”
Tuttavia,
dietro insistenza di Mike e
per non sembrare un completo ingrato, John finì per sedersi con l'uomo
a bere
un caffè.
“Sei
sempre al Bart's, allora?”,
chiese John mentre beveva.
“Adesso
insegno. Giovani intelligenti,
come lo eravamo noi. Dio, li odio!”
John
non riuscì a trattenere una risata.
“E
tu, John, rimani in città finché
non ti sistemi?”
“Non
posso di certo permettermi di
vivere a Londra con la sola pensione militare.”
“Ah,
e tuttavia non potresti
sopportare di trovarti in nessun altro posto. Non è il John Watson che
conosco.”
“Già.”,
rispose John, un po' a disagio
“Non sono il John Watson...”
Guardando
la sua stessa mano, John
notò che stava tremando. Non era un bene che gli accadesse così, mentre
conversava casualmente con un amico. Fu tentato di alzarsi e andarsene:
probabilmente la
compagnia di Mike non
gli era gradita. Ma una voce interiore sussurrò: rimani.
E John rimase,
pur non sapendo il perché.
“Harry
non potrebbe aiutarti?”,
continuò Mike.
“Come
se fosse possibile che
accadesse!”, rispose sarcasticamente John.
“E,
non so, trovare qualcuno con cui
condividere un appartamento?”, propose l'altro.
“Dai,
chi mi vorrebbe come
coinquilino?”
Mike
ridacchiò e John non poté fare a
meno di guardarlo perplesso.
“Che
c'è?”
“Beh,
sei la seconda persona a dirmelo
oggi.”
“E
chi sarebbe il primo?”
“Se
vieni al St. Bart's te lo
presento, se siamo fortunati, dovrebbe ancora essere lì. È sempre lì.”
“Un
giovane medico?”
“Giovane
lo è di certo...medico
proprio no.”, Mike ridacchiò nuovamente.
“Mi
hai proprio incuriosito, sai? E
poi, magari, ci guadagno pure qualcosa a incontrarlo!”
“Non
ne sarei così sicuro.”
“Perché?”,
John aggrottò le
sopracciglia, ma non nascose un sorriso.
“Lo
vedrai.”
Insieme
s'incamminarono sulla strada
per il Bart's e dieci minuti dopo lo raggiunsero. I corridoi asettici
erano
sempre gli stessi del periodo della sua formazione medica, sebbene
l'edificio
fosse stato sottoposto ad alcuni rinnovamenti.
“Dovrebbe
essere in laboratorio, ma se
non è lì, sarà certamente all'obitorio.”
John
ancora una volta lanciò
un'occhiata perplessa al suo amico.
“All'obitorio?
Scusa, ma se non è un
medico, cosa fa all'obitorio?”
“Credo
che sia una specie di
investigatore, ma in realtà nessuno sa di preciso cosa faccia.”
Alla
parola investigatore una
strana sensazione lo attraversò. Quando varcarono la porta, John si
guardò
velocemente intorno.
“È
davvero un po' diverso dai miei giorni.”, disse prima di notare un uomo
seduto
di fronte a un microscopio dall'altro lato della stanza.
L'uomo
aveva un aspetto
familiare, un profumo familiare. Ad esso si associò
una sensazione
nostalgica e di appartenenza. Non riusciva a
spiegarselo, ma era sicuro
di averlo già incontrato da qualche parte e, a quel pensiero repentino,
il suo
cuore fece un balzo nel petto, un nome riaffiorò nella sua mente.
Atto
Quarto:
Fruma
Scena
Seconda
We
are such stuff
As dreams are made
on; and our little life
Is rounded with a
sleep.
Quella
mattina Sherlock si era svegliato con un mal di testa tremendo e la
strana
sensazione di aver fatto nuovamente il solito sogno che, però, non
riusciva mai
a ricordare. La cosa lo rendeva estremamente irascibile, perché aveva
l'impressione che quel sogno fosse importante da ricordare, eppure gli
sfuggiva. E lui detestava tralasciare qualcosa d'importante, sogno o
non sogno.
La
sua vita, fino a quel momento, era stata un lungo altalenare di strane
sensazioni e ricordi.
Ogni
qualvolta camminasse per le strade di Londra o facesse qualsiasi altra
attività, la sua testa si riempiva d'immagini più o meno dettagliate di
altri
luoghi, di altri tempi. Non sapeva come spiegarselo perché era stato
così fin
da bambino. Però quelle visioni influenzavano la sua
vita: quando si facevano particolarmente insistenti, si ritrovava nella
situazione di far fatica a distinguere tra la realtà e la fantasia e, a
volte,
il rumore e la confusione nella sua testa diventavano talmente
assordanti che
tutto gli pareva perdere significato.
Aveva provato di tutto
per farli cessare. Spinto dalla propria famiglia e da suo fratello,
ancora
bambino, aveva tentato di andare da uno psicologo. L'uomo li aveva
classificati
come fantasie di poco conto e Sherlock, che sapeva benissimo di non
essere
matto quando diceva che quelle cose sembravano reali,
aveva finito per
insultare il dottore e non tornarci mai più.
Crescendo aveva trovato
rifugio nella droga. Non ne andava fiero, ma era davvero stata l'unica
cosa che
gli aveva permesso di liberare la sua mente e di fargli condurre una
vita
apparentemente normale. Ovviamente quella scelta aveva avuto delle
conseguenze
estremamente spiacevoli, seguite da un lungo e difficile periodo di
riabilitazione.
Dimenticata anche la
droga, però, il caos nella sua testa si era rifatto prepotentemente
insistente.
Ora l'unica cosa che era in grado di mantenere la sua mente libera era
il lavoro.
Fortunatamente, infatti, le sue capacità cerebrali, nonostante le
visioni –
anzi, forse proprio grazie a quelle visioni, erano intatte e più acute
che mai.
Sherlock Holmes osservava e, dalle semplici
osservazioni, deduceva.
Non c'era criminale in tutta Londra, in tutto il Regno Unito e,
persino, in
tutto il mondo che potesse sfuggirgli, se gli si metteva alle calcagna.
Consulente
Investigativo, l'unico al mondo.
Era stata una decisione
spontanea, come se, dal momento in cui era venuto al mondo, avesse
voluto fare
soltanto quel mestiere, come se fosse stato inciso nel suo DNA. Era
stato quasi
un richiamo proveniente da lontano. Se ci ragionava, era una cosa
estremamente
stupida, ma aveva imparato ad accettare che, nonostante la sua logica
ferrea,
esistevano delle cose che non riusciva in nessun modo a spiegarsi. Tipo
quelle
immagini continue. Tipo quei sogni.
Ce n'era uno che era
certo di ripetere con frequenza assidua ed era sicuro di averlo fatto
anche
quella notte, ma era anche l'unico di cui non ricordava assolutamente
nulla, se
non una vaga, ma precisa sensazione di calore familiare. E
l'impressione che ci
fosse qualcuno in quel sogno, qualcuno che non doveva scordare e che,
invece,
continuava a dimenticare. Quell'uomo – in un qualche modo era certo che
fosse
un uomo – senza volto e senza nome era importante.
E mi irrita non riuscire
a ricordare nulla, per quanto mi sforzi.
Fortunatamente non aveva
molto tempo per rimuginarci sopra e farsi, così, aumentare il mal di
testa.
Lestrade lo aveva chiamato un giorno prima per chiedergli aiuto con un
caso
irrisolto. Certo, quello dei tre suicidi seriali appariva immensamente
più
interessante rispetto a quello che l'ispettore gli aveva sottoposto, ma
era
stato egualmente chiaro: non posso farti indagare su queste
morti, Sherlock.
Ma aveva anche aggiunto, quando l'agente Donovan si era allontanata: almeno,
non per ora, non finché non troviamo qualcosa che colleghi queste
persone.
Aveva disperatamente
tentato di far capire che, probabilmente, non c'era nulla che legava
una
vittima all'altra e che, altrettanto probabilmente, non si trattava di
suicidi,
ma di omicidi.
Avrei solo bisogno di
accedere ad UNA scena del delitto e ne sarei certo.
Lestrade, per calmarlo,
aveva acconsentito ad assegnargli due casi irrisolti. Perciò ora aveva
bisogno
di andare al St. Bart's e non aveva tempo di indugiare sui sogni e sul
mal di
testa perenne che lo perseguitavano. Prese un'aspirina e chiamò un taxi.
Devo innanzitutto andare
all'obitorio, sperando che ci sia un cadavere fresco.
Mentre il taxi correva
per le vie di Londra, Sherlock era turbato da un altro pensiero:
l'alloggio.
Alcuni giorni prima si era, infatti, trasferito in un appartamento al
221B di
Baker Street – un'area centrale ed estremamente comoda per la sua
vicinanza a
Scotland Yard – per cui aveva ricevuto un prezzo di favore da una sua
vecchia
conoscenza, Mrs. Hudson. Il problema era che il costo, sebbene
abbassato,
rimaneva comunque troppo elevato. Certo, avrebbe potuto tranquillamente
contare
sull'appoggio finanziario di suo fratello, se avesse voluto. Ma, dato
che i
rapporti tra loro due erano tutt'altro che idilliaci, preferiva
evidentemente
trovare un'altra soluzione. Quella più semplice, ma anche quella meno
praticabile, era trovarsi un coinquilino.
Appena sceso dal taxi e
entrato al St. Bart's, Sherlock s'imbatté in Mike Stamford, uno dei
medici di
laboratorio, nonché docente.
“Ciao, Sherlock.”, disse
l'uomo.
“Mike.”, salutò brusco
Sherlock.
“Ancora nessuna fortuna
nella ricerca?”
“Tre nei giorni scorsi.
Uno più irritante dell'altro. Mi sa che dovrò rinunciarci, del resto
sono una
persona molto difficile con la quale convivere.”
Mike scrollò le spalle.
“Qualcuno ci sarà.”
“Che riesca a
sopportarmi abbastanza e che io riesca a sopportare abbastanza? È più
probabile
che tutti i criminali più incalliti di questa città su consegnino in
blocco a
Scotland Yard entro la mezzanotte di oggi implorando pietà.”, disse
Sherlock,
sconsolato.
“Se trovassi qualcuno,
te lo farò sapere, Sherlock.”
“Sempre che non scappi a
gambe levate, apprezzo comunque il gesto.”
Si separarono così,
Sherlock verso l'obitorio, Mike verso il suo stanzino di laboratorio.
Le preoccupazioni di
Sherlock svanirono non appena Molly gli comunicò che aveva un cadavere
appena arrivato.
Ora era giunto il tempo di concentrarsi sul caso, non c'era più spazio
per i
suoi pensieri.
Dopo aver eseguito il
suo esperimento sul corpo dell'uomo morto e aver dato le ultime
indicazioni
alla patologa, si diresse in laboratorio a controllare il campione di
sangue
che gli era stato fornito da Scotland Yard per l'indagine che stava
svolgendo.
Attraversato il corridoio e giunto nel laboratorio, notò che Mike era
assente.
Guardò rapidamente l'orologio – mezzogiorno passato,
constatò, sono
stato giù più tempo del previsto, Mike è a pranzo – e si
sedette al suo
solito posto di fronte al microscopio. Mentre si stava sistemando lo
sprazzo di
un'immagine gli apparve davanti agli occhi. Un volto. Ma scomparve,
come
sempre, ancor prima che Sherlock potesse fissarne i dettagli nella sua
mente. A
differenza delle altre volte, però, gli parve di avvertire una strana
sensazione di vicinanza e il suo cuore sobbalzò nel petto. Scartò la
sensazione
come inutile ai fini del suo lavoro e proseguì con quello che stava
facendo.
Girò
lentamente la manopola del microscopio e si mise ad osservare il sangue
sul
vetrino ingrandirsi fino a diventare una serie di cerchi, ovali e
filamenti
simili ad un quadro astratto. Con sapienza fece cadere una goccia di
soluzione
acida sul suo campione.
Se
la reazione corrisponde a quella che ritengo plausibile,
il colpevole è innegabilmente il fratello.
Perso
nel suo ragionamento, si accorse con un secondo di ritardo che la porta
del
laboratorio si era aperta e con ben tre secondi di ritardo che Mike non
era
solo. Con lui vi era un uomo vestito in modo che qualcuno avrebbe
potuto
definire banale e quasi trasandato, ma che denotava una certa
precisione e
meticolosità. Nonostante la giacca un po' vecchiotta, la camicia
decisamente
fuori moda e quei jeans lisi, il portamento, il taglio di capelli,
l'incedere
indicavano palesemente una carriera nelle forze armate: un militare.
Il
dialogo tra l'uomo e Mike gli giunse ovattato.
"...un
po' diverso dai miei giorni."
Un
medico. Militare e medico. Interessante.
Ma
c'era qualcosa, qualcosa che non riusciva a spiegarsi in nessun modo:
l'idea
assurda che quell'uomo dai capelli paglierini l'avesse già incontrato.
Impossibile.
Non dimentico mai un volto. Non uno così particolare. Eppure...John.
L'uomo
si chiamava John. Il battito del cuore nel petto si fece sempre più
insistente.
Perché
conosco il suo nome?
"Mike
posso prendere in prestito il tuo cellulare?"
"Mi
spiace, l'ho lasciato nella giacca."
"Tenga,
prenda il mio."
L'uomo
allungò la mano per porgerglielo.
Le
mani mostravano i segni di un'abbronzatura che s'interrompeva
brutalmente nel
punto in cui incontravano i polsini della camicia.
Missione
all'estero. Deserto.
"Afghanistan
o Iraq?"
Che
stupido. Era ovvio che fosse Afghanistan.
Come
faccio a saperlo? Perché è ovvio?
"Come
scusi?"
"Ovviamente
Afghanistan. E non era l'Apache che la inseguiva, era un gruppo di
talebani. Ma
lei ha erroneamente confuso le due entità e perciò nei suoi sogni viene
spesso
inseguito da un Apache."
Sherlock
rimase a bocca aperta. Per alcuni secondi tentò di ricostruire quello
che gli
era appena sfuggito dalle labbra. Non era normale che conoscesse i
sogni di
quell'uomo, non era normale nemmeno per uno come lui che era abituato
ad
azzeccare persino il colore e il tessuto dell'intimo delle persone. Ma
i sogni.
I sogni non potevano essere indovinati.
Gli
occhi azzurri dell'uomo incontrarono i suoi in quel preciso istante
John - si
chiamava davvero così? - sembrava confuso quanto lui e lo osservava tra
il
perplesso e l'inquieto.
"Il
drago...la foresta...la palude...", disse il dottore "...tu..."
In
un istante un lampo attraversò i pensieri del detective, il quale si
trovò in
mezzo ad una radura, un solo uomo di fronte a lui che correva a
perdifiato e
urlava a squarciagola: John.
Glielo
aveva promesso a quell'uomo che sarebbe tornato. In una realtà remota,
gli
aveva detto di aspettarlo, che si sarebbero rincontrati. Era lui la
cosa
importante dei suoi sogni, la persona che non voleva perdere e che gli
era
sfuggita finora. Ed ora era di fronte a lui in carne e ossa.
"...John...",
la voce fu più simile a un rantolo.
"...Sherlock?",
John chiese, dubbioso.
Un
passo avanti dell'uno e dell'altro, per scrutarsi, conoscersi di nuovo,
ritrovarsi.
"Tu
sei reale...", balbettò John.
"Tu
sei John..."
"Già.",
ridacchiò "E tu sei Sherlock. Come...?"
"Era
deciso così.", fu tutto ciò che Sherlock riuscì a rispondere, prima che
il
suo corpo rispondesse in automatico a quel richiamo tanto antico.
Si
baciarono dopo quelli che erano stati letteralmente secoli di attesa.
Fu un
bacio che non significava soltanto ti amo, era la
realizzazione di un
desiderio durato più di un millennio, il compimento di una promessa che
sarebbe
durata in eterno.
La
confusione regnava ancora nella testa di Sherlock, ma non era
importante. John
- il suo John, quello per cui era tornato - era lì tra le sue braccia.
E solo
quello importava.
Il
cellulare cadde per terra in un tonfo.
Lo
schermo s'illuminò un secondo prima di incontrare il pavimento.
Benvenuto,
John – M.
Allo
stesso modo, il cellulare nella tasca del giubbotto di Sherlock vibrò.
Bentornato,
Sherlock – M.
N.d.A.
Fruma:
sempre
dall’antico
inglese, significa “inizio”.