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Autore: Leoithne    20/12/2014    1 recensioni
Ci sono storie antiche come il mondo, storie che vengono narrate di generazione in generazione, modificate nel corso dei secoli per adattarsi a questa o a quella cultura, a questa o a quella tradizione. Ma ci sono storie che nessuno osa raccontare perché esse parlano di quello che è reale ed irreale e di come, spesso, l'irreale c'inganna e il reale ci tradisce.
Gli occhi di Mycroft si spalancarono per lo stupore.
“Come?”, chiese titubante “Forma? Ma è-”
“Pericoloso. Stupido. Impossibile.”, sibilò e ripeté: “Impossibile.”
Genere: Fantasy, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Atto Quarto: Fruma

 
Scena Prima

 

 

People think dreams aren't real just because they aren't made of matter, of particles.
Dreams are real. But they are made of viewpoints, of images, of memories and puns and lost hopes.

 

John si svegliò piangendo. Se avesse potuto, avrebbe urlato tutta la sua disperazione, ma il grido gli rimase soffocato in gola. Le lacrime inzupparono ben presto il cuscino e i singhiozzi riempirono la stanza echeggiando tra le quattro mura. Era finita. D'ora in avanti non ci sarebbe più stato uno Sherlock con cui trascorrere le notti, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da cui rifugiarsi per sfuggire all'inutile vita quotidiana, non ci sarebbe più stato uno Sherlock da...amare.

Il peso della scomparsa si riversò con violenza inaudita addosso a John. Voleva tornare indietro e salvarlo, ma sapeva che era impossibile e questa sua incapacità lo uccideva dentro.

Quel “aspettami” pronunciato a fil di voce da Sherlock, tuttavia, lo teneva aggrappato ad una speranza inesistente. Nelle notti seguenti sperò che il viso tanto familiare riapparisse e che Sherlock avesse sbagliato a calcolare quello che gli sarebbe successo. Ovviamente non fu così e l'aspettami rimase soltanto un desiderio inesaudito.

I sogni ripresero ad essere pieni di elicotteri e deserti, senza più traccia di draghi e foreste e le sue notti tornarono ad essere vuote. Giorno dopo giorno tentò di convincersi che Sherlock sarebbe tornato, che un giorno avrebbe appoggiato la testa sul cuscino e si sarebbe trovato di fronte a degli occhi azzurri che lo scrutavano sotto una massa di riccioli neri. Eppure nel suo cuore sentiva che Sherlock – non lo Sherlock del sogno, ma quello reale – non esisteva più. Non si era mai reso conto, prima d'allora, quanto il loro legame fosse profondo. Ora che non c'era più, ne avvertiva la mancanza non solo all'interno della sua anima, ma anche all'interno dell'intero universo. Come se Sherlock fosse stato un elemento fondamentale per la conformazione del cosmo che fosse improvvisamente venuto a mancare. E si chiedeva come gli altri non riuscissero a percepirlo e a continuare tranquillamente le loro vite.

È impossibile, si diceva, che non sentano che qualcosa di così importante è scomparso.

L'unica cosa che gli rimaneva, ormai, era la vivida immagine dei loro incontri e ci s'immergeva quanto più spesso poteva, perché non voleva perdere anche quella, l'unico ricordo che aveva dell'unica persona che avrebbe mai potuto amare. Sì, perché John, nel profondo del suo cuore, era anche perfettamente conscio che non ci sarebbe mai potuto essere nessuno in grado di sostituire Sherlock. E come avrebbe potuto esistere? Sherlock era tutto, il resto era niente.

In certi momenti il senso di colpa lo consumava fino a lasciarlo, tremante, senza fiato. Era colpa sua se era successo qualcosa al fratello di Sherlock, era colpa sua e del non aver insistito ad interrompere quegli incontri, era colpa sua se Sherlock era...morto. Per quanto lo Swefnesferiend gli avesse ripetuto di non incolpare se stesso, non riusciva a farsene una ragione.

Se glielo avessi detto, se mi fossi imposto, lui ora sarebbe...vivo.

Ma dall'altra parte non riusciva a provare un completo rimorso, perché il tempo che avevano trascorso insieme era di quanto più felice ci fosse stato nella sua vita. E come poteva provare rimorso perché erano stati – sì, anche Sherlock, lo aveva definitivamente sentito in quel solo bacio – felici? Anche in quei momenti di sconforto non poteva negare che avrebbe ripetuto quello stesso errore dieci, cento, mille volte.

Però il tempo scorreva e, con esso, la ferita che John aveva creduto incurabile, cominciò a rimarginarsi.

Proprio come un sogno, i contorni della foresta e del drago, prima tanto nitidi, cominciarono a perdersi nel nulla, tanto che doveva sforzarsi sempre più per ricordarli. Con essi se ne andarono lentamente anche i dettagli dell'aspetto fisico di Sherlock. All'inizio fu un'incapacità di ricordarsi in che modo camminava, poi quanto lunghe fossero le dita delle mani, poi sbiadirono i contorni del volto, dei capelli, degli occhi. E più tentava di trattenerli, più sembravano sfuggirgli.

Passarono così due mesi, finché anche l'ultimo dettaglio di Sherlock scomparve nelle nebbie del tempo e della sua testa. Gli rimase soltanto un velo di malinconia e l'idea di aver sognato qualcosa d'irripetibile, ma, se tentava di ricordare qualcosa, non gli sovveniva nulla di familiare. Anche la gamba, infine, cedette e tornò ad essere dolorante.

E John tornò alla sua quotidianità fatta di sedute di psicoterapia, di ricerca di un appartamento in cui vivere, di un posto di lavoro che lo soddisfacesse e, magari, di una persona con cui vivere felicemente la sua vita. Ormai anche il vuoto che continuava a sentire era diventato anonimo. Non sapeva più che quel vuoto esisteva perché poco tempo prima vi era stato qualcuno con un volto a colmarlo. Ormai chiamava quel vuoto solitudine e non più Sherlock, perché quel nome non esisteva più.

Quattro mesi dopo il suo ritorno dall'Afghanistan, John era appena uscito dall'ennesima sessione con la dottoressa Thompson, la quale si era lamentata nuovamente di come il suo umore fosse tornato nero nell'ultimo periodo.

Eppure sembrava aver ritrovato un po' di serenità un paio di mesi fa, John, gli aveva detto, invece adesso pare essere ritornato alla settimana immediatamente successiva al suo rientro dall'ospedale. È come se avesse trovato e poi perso qualcosa di nuovo. È successo qualcosa? Fa ancora quei sogni con il drago?

John le aveva risposto che aveva solo un vaghissimo ricordo di quei sogni e che, ora, non li faceva più, ma che non capiva come questo avesse potuto influire sul suo umore.

“Un sogno è un sogno, come può influenzarmi, dottoressa?”

“Ne sembrava in qualche modo legato, ma sembra che li abbia completamente superati. Me ne compiaccio. Rifugiarsi in fantasie infantili non è completamente salutare per il nostro lavoro di riabilitazione.”

“Capisco.”

Ora stava camminando attraverso i Russel Square Gardens. Per essere l'inizio del mese di ottobre, il clima era ancora clemente sulla città di Londra. Un pallido sole faceva capolino tra le nuvole e un vento che si poteva definire primaverile spirava tra i rami – già un po' spogli – degli alberi. Aveva anche appena dato un'occhiata ad un appartamento di cui aveva visto un annuncio sul giornale di un paio di giorni prima. Sfortunatamente la posizione era ottima, il prezzo, invece, era pessimo. Senza un lavoro – e come poteva lavorare quando non riusciva ancora a fare i conti con se stesso e con i suoi incubi? – era impossibile potersi permettere un appartamento a Londra.

Mentre zoppicava con molta difficoltà, facendosi largo tra i passanti, gli parve di sentire qualcuno chiamare il suo nome. Non si fermò. John era un nome talmente comune che la voce avrebbe potuto  riferirsi letteralmente a chiunque.

“John Watson?”, la voce continuò.

E se di John potevano essercene a bizzeffe, le probabilità che due John Watson stessero camminando nello stesso momento nello stesso parco erano pari allo zero. Si girò. Di fronte a lui c'era un uomo grassoccio, stempiato e con gli occhiali. Un campanello nella sua testa scattò: Mike Stamford. I suoi ricordi potevano essere annebbiati e l'uomo decisamente cambiato, ma certamente era il suo vecchio compagno di università e formazione al St. Bart's Mike Stamford.

“Stamford. Mike Stamford. Abbiamo frequentato il Bart's insieme.”, disse l'uomo porgendogli la mano.

“Sì, scusa, sì, Mike.”

“Eh, lo so. Sono ingrassato!”

“Ma no!”, John cercò di suonare convincente.

“Ho saputo che sei stato all'estero da qualche parte, che ti hanno sparato. Che è successo?”

John lo osservò perplesso, tentando di capire se l'uomo lo stesse prendendo in giro o dicesse sul serio. Nonostante il sorriso decisamente ebete che gli illuminava il volto, Mike sembrava animato dalle più buone intenzioni, ma John non era proprio in vena di dilungarsi in conversazioni e tentò di tagliare corto.

“Mi hanno sparato.”

Tuttavia, dietro insistenza di Mike e per non sembrare un completo ingrato, John finì per sedersi con l'uomo a bere un caffè.

“Sei sempre al Bart's, allora?”, chiese John mentre beveva.

“Adesso insegno. Giovani intelligenti, come lo eravamo noi. Dio, li odio!”

John  non riuscì a trattenere una risata.

“E tu, John, rimani in città finché non ti sistemi?”

“Non posso di certo permettermi di vivere a Londra con la sola pensione militare.”

“Ah, e tuttavia non potresti sopportare di trovarti in nessun altro posto. Non è il John Watson che conosco.”

“Già.”, rispose John, un po' a disagio “Non sono il John Watson...”

Guardando la sua stessa mano, John notò che stava tremando. Non era un bene che gli accadesse così, mentre conversava casualmente con un amico. Fu tentato di alzarsi e andarsene: probabilmente  la compagnia di Mike non gli era gradita. Ma una voce interiore sussurrò: rimani. E John rimase, pur non sapendo il perché.

“Harry non potrebbe aiutarti?”, continuò Mike.

“Come se fosse possibile che accadesse!”, rispose sarcasticamente John.

“E, non so, trovare qualcuno con cui condividere un appartamento?”, propose l'altro.

“Dai, chi mi vorrebbe come coinquilino?”

Mike ridacchiò e John non poté fare a meno di guardarlo perplesso.

“Che c'è?”

“Beh, sei la seconda persona a dirmelo oggi.”

“E chi sarebbe il primo?”

“Se vieni al St. Bart's te lo presento, se siamo fortunati, dovrebbe ancora essere lì. È sempre lì.”

“Un giovane medico?”

“Giovane lo è di certo...medico proprio no.”, Mike ridacchiò nuovamente.

“Mi hai proprio incuriosito, sai? E poi, magari, ci guadagno pure qualcosa a incontrarlo!”

“Non ne sarei così sicuro.”

“Perché?”, John aggrottò le sopracciglia, ma non nascose un sorriso.

“Lo vedrai.”

Insieme s'incamminarono sulla strada per il Bart's e dieci minuti dopo lo raggiunsero. I corridoi asettici erano sempre gli stessi del periodo della sua formazione medica, sebbene l'edificio fosse stato sottoposto ad alcuni rinnovamenti.

“Dovrebbe essere in laboratorio, ma se non è lì, sarà certamente all'obitorio.”

John ancora una volta lanciò un'occhiata perplessa al suo amico.

“All'obitorio? Scusa, ma se non è un medico, cosa fa all'obitorio?”

“Credo che sia una specie di investigatore, ma in realtà nessuno sa di preciso cosa faccia.”

Alla parola investigatore una strana sensazione lo attraversò. Quando varcarono la porta, John si guardò velocemente intorno.

“È davvero un po' diverso dai miei giorni.”, disse prima di notare un uomo seduto di fronte a un microscopio dall'altro lato della stanza.

L'uomo aveva un aspetto familiare, un profumo familiare. Ad esso si associò una sensazione nostalgica e di appartenenza. Non riusciva a spiegarselo, ma era sicuro di averlo già incontrato da qualche parte e, a quel pensiero repentino, il suo cuore fece un balzo nel petto, un nome riaffiorò nella sua mente.

 

 

 

 

 

Atto Quarto: Fruma

 
Scena Seconda

 

 

We are such stuff
As dreams are made on; and our little life
Is rounded with a sleep.

 

Quella mattina Sherlock si era svegliato con un mal di testa tremendo e la strana sensazione di aver fatto nuovamente il solito sogno che, però, non riusciva mai a ricordare. La cosa lo rendeva estremamente irascibile, perché aveva l'impressione che quel sogno fosse importante da ricordare, eppure gli sfuggiva. E lui detestava tralasciare qualcosa d'importante, sogno o non sogno.

La sua vita, fino a quel momento, era stata un lungo altalenare di strane sensazioni e ricordi.

Ogni qualvolta camminasse per le strade di Londra o facesse qualsiasi altra attività, la sua testa si riempiva d'immagini più o meno dettagliate di altri luoghi, di altri tempi. Non sapeva come spiegarselo perché era stato così fin da bambino. Però quelle visioni influenzavano la sua vita: quando si facevano particolarmente insistenti, si ritrovava nella situazione di far fatica a distinguere tra la realtà e la fantasia e, a volte, il rumore e la confusione nella sua testa diventavano talmente assordanti che tutto gli pareva perdere significato.

Aveva provato di tutto per farli cessare. Spinto dalla propria famiglia e da suo fratello, ancora bambino, aveva tentato di andare da uno psicologo. L'uomo li aveva classificati come fantasie di poco conto e Sherlock, che sapeva benissimo di non essere matto quando diceva che quelle cose sembravano reali, aveva finito per insultare il dottore e non tornarci mai più.

Crescendo aveva trovato rifugio nella droga. Non ne andava fiero, ma era davvero stata l'unica cosa che gli aveva permesso di liberare la sua mente e di fargli condurre una vita apparentemente normale. Ovviamente quella scelta aveva avuto delle conseguenze estremamente spiacevoli, seguite da un lungo e difficile periodo di riabilitazione.

Dimenticata anche la droga, però, il caos nella sua testa si era rifatto prepotentemente insistente. Ora l'unica cosa che era in grado di mantenere la sua mente libera era il lavoro. Fortunatamente, infatti, le sue capacità cerebrali, nonostante le visioni – anzi, forse proprio grazie a quelle visioni, erano intatte e più acute che mai. Sherlock Holmes osservava e, dalle semplici osservazioni, deduceva. Non c'era criminale in tutta Londra, in tutto il Regno Unito e, persino, in tutto il mondo che potesse sfuggirgli, se gli si metteva alle calcagna.

Consulente Investigativo, l'unico al mondo.

Era stata una decisione spontanea, come se, dal momento in cui era venuto al mondo, avesse voluto fare soltanto quel mestiere, come se fosse stato inciso nel suo DNA. Era stato quasi un richiamo proveniente da lontano. Se ci ragionava, era una cosa estremamente stupida, ma aveva imparato ad accettare che, nonostante la sua logica ferrea, esistevano delle cose che non riusciva in nessun modo a spiegarsi. Tipo quelle immagini continue. Tipo quei sogni.

Ce n'era uno che era certo di ripetere con frequenza assidua ed era sicuro di averlo fatto anche quella notte, ma era anche l'unico di cui non ricordava assolutamente nulla, se non una vaga, ma precisa sensazione di calore familiare. E l'impressione che ci fosse qualcuno in quel sogno, qualcuno che non doveva scordare e che, invece, continuava a dimenticare. Quell'uomo – in un qualche modo era certo che fosse un uomo – senza volto e senza nome era importante.

E mi irrita non riuscire a ricordare nulla, per quanto mi sforzi.

Fortunatamente non aveva molto tempo per rimuginarci sopra e farsi, così, aumentare il mal di testa. Lestrade lo aveva chiamato un giorno prima per chiedergli aiuto con un caso irrisolto. Certo, quello dei tre suicidi seriali appariva immensamente più interessante rispetto a quello che l'ispettore gli aveva sottoposto, ma era stato egualmente chiaro: non posso farti indagare su queste morti, Sherlock. Ma aveva anche aggiunto, quando l'agente Donovan si era allontanata: almeno, non per ora, non finché non troviamo qualcosa che colleghi queste persone.

Aveva disperatamente tentato di far capire che, probabilmente, non c'era nulla che legava una vittima all'altra e che, altrettanto probabilmente, non si trattava di suicidi, ma di omicidi.

Avrei solo bisogno di accedere ad UNA scena del delitto e ne sarei certo.

Lestrade, per calmarlo, aveva acconsentito ad assegnargli due casi irrisolti. Perciò ora aveva bisogno di andare al St. Bart's e non aveva tempo di indugiare sui sogni e sul mal di testa perenne che lo perseguitavano. Prese un'aspirina e chiamò un taxi.

Devo innanzitutto andare all'obitorio, sperando che ci sia un cadavere fresco.

Mentre il taxi correva per le vie di Londra, Sherlock era turbato da un altro pensiero: l'alloggio. Alcuni giorni prima si era, infatti, trasferito in un appartamento al 221B di Baker Street – un'area centrale ed estremamente comoda per la sua vicinanza a Scotland Yard – per cui aveva ricevuto un prezzo di favore da una sua vecchia conoscenza, Mrs. Hudson. Il problema era che il costo, sebbene abbassato, rimaneva comunque troppo elevato. Certo, avrebbe potuto tranquillamente contare sull'appoggio finanziario di suo fratello, se avesse voluto. Ma, dato che i rapporti tra loro due erano tutt'altro che idilliaci, preferiva evidentemente trovare un'altra soluzione. Quella più semplice, ma anche quella meno praticabile, era trovarsi un coinquilino.

Appena sceso dal taxi e entrato al St. Bart's, Sherlock s'imbatté in Mike Stamford, uno dei medici di laboratorio, nonché docente.

“Ciao, Sherlock.”, disse l'uomo.

“Mike.”, salutò brusco Sherlock.

“Ancora nessuna fortuna nella ricerca?”

“Tre nei giorni scorsi. Uno più irritante dell'altro. Mi sa che dovrò rinunciarci, del resto sono una persona molto difficile con la quale convivere.”

Mike scrollò le spalle.

“Qualcuno ci sarà.”

“Che riesca a sopportarmi abbastanza e che io riesca a sopportare abbastanza? È più probabile che tutti i criminali più incalliti di questa città su consegnino in blocco a Scotland Yard entro la mezzanotte di oggi implorando pietà.”, disse Sherlock, sconsolato.

“Se trovassi qualcuno, te lo farò sapere, Sherlock.”

“Sempre che non scappi a gambe levate, apprezzo comunque il gesto.”

Si separarono così, Sherlock verso l'obitorio, Mike verso il suo stanzino di laboratorio.

Le preoccupazioni di Sherlock svanirono non appena Molly gli comunicò che aveva un cadavere appena arrivato. Ora era giunto il tempo di concentrarsi sul caso, non c'era più spazio per i suoi pensieri.

Dopo aver eseguito il suo esperimento sul corpo dell'uomo morto e aver dato le ultime indicazioni alla patologa, si diresse in laboratorio a controllare il campione di sangue che gli era stato fornito da Scotland Yard per l'indagine che stava svolgendo. Attraversato il corridoio e giunto nel laboratorio, notò che Mike era assente. Guardò rapidamente l'orologio – mezzogiorno passato, constatò, sono stato giù più tempo del previsto, Mike è a pranzo – e si sedette al suo solito posto di fronte al microscopio. Mentre si stava sistemando lo sprazzo di un'immagine gli apparve davanti agli occhi. Un volto. Ma scomparve, come sempre, ancor prima che Sherlock potesse fissarne i dettagli nella sua mente. A differenza delle altre volte, però, gli parve di avvertire una strana sensazione di vicinanza e il suo cuore sobbalzò nel petto. Scartò la sensazione come inutile ai fini del suo lavoro e proseguì con quello che stava facendo.

Girò lentamente la manopola del microscopio e si mise ad osservare il sangue sul vetrino ingrandirsi fino a diventare una serie di cerchi, ovali e filamenti simili ad un quadro astratto. Con sapienza fece cadere una goccia di soluzione acida sul suo campione.

Se la reazione corrisponde a quella che ritengo plausibile, il colpevole è innegabilmente il fratello.

Perso nel suo ragionamento, si accorse con un secondo di ritardo che la porta del laboratorio si era aperta e con ben tre secondi di ritardo che Mike non era solo. Con lui vi era un uomo vestito in modo che qualcuno avrebbe potuto definire banale e quasi trasandato, ma che denotava una certa precisione e meticolosità. Nonostante la giacca un po' vecchiotta, la camicia decisamente fuori moda e quei jeans lisi, il portamento, il taglio di capelli, l'incedere indicavano palesemente una carriera nelle forze armate: un militare.

Il dialogo tra l'uomo e Mike gli giunse ovattato.

"...un po' diverso dai miei giorni."

Un medico. Militare e medico. Interessante.

Ma c'era qualcosa, qualcosa che non riusciva a spiegarsi in nessun modo: l'idea assurda che quell'uomo dai capelli paglierini l'avesse già incontrato.

Impossibile. Non dimentico mai un volto. Non uno così particolare. Eppure...John.

L'uomo si chiamava John. Il battito del cuore nel petto si fece sempre più insistente.

Perché conosco il suo nome?

"Mike posso prendere in prestito il tuo cellulare?"

"Mi spiace, l'ho lasciato nella giacca."

"Tenga, prenda il mio."

L'uomo allungò la mano per porgerglielo.

Le mani mostravano i segni di un'abbronzatura che s'interrompeva brutalmente nel punto in cui incontravano i polsini della camicia.

Missione all'estero. Deserto.

"Afghanistan o Iraq?"

Che stupido. Era ovvio che fosse Afghanistan.

Come faccio a saperlo? Perché è ovvio?

"Come scusi?"

"Ovviamente Afghanistan. E non era l'Apache che la inseguiva, era un gruppo di talebani. Ma lei ha erroneamente confuso le due entità e perciò nei suoi sogni viene spesso inseguito da un Apache."

Sherlock rimase a bocca aperta. Per alcuni secondi tentò di ricostruire quello che gli era appena sfuggito dalle labbra. Non era normale che conoscesse i sogni di quell'uomo, non era normale nemmeno per uno come lui che era abituato ad azzeccare persino il colore e il tessuto dell'intimo delle persone. Ma i sogni. I sogni non potevano essere indovinati.

Gli occhi azzurri dell'uomo incontrarono i suoi in quel preciso istante John - si chiamava davvero così? - sembrava confuso quanto lui e lo osservava tra il perplesso e l'inquieto.

"Il drago...la foresta...la palude...", disse il dottore "...tu..."

In un istante un lampo attraversò i pensieri del detective, il quale si trovò in mezzo ad una radura, un solo uomo di fronte a lui che correva a perdifiato e urlava a squarciagola: John.

Glielo aveva promesso a quell'uomo che sarebbe tornato. In una realtà remota, gli aveva detto di aspettarlo, che si sarebbero rincontrati. Era lui la cosa importante dei suoi sogni, la persona che non voleva perdere e che gli era sfuggita finora. Ed ora era di fronte a lui in carne e ossa.

"...John...", la voce fu più simile a un rantolo.

"...Sherlock?", John chiese, dubbioso.

Un passo avanti dell'uno e dell'altro, per scrutarsi, conoscersi di nuovo, ritrovarsi.

"Tu sei reale...", balbettò John.

"Tu sei John..."

"Già.", ridacchiò "E tu sei Sherlock. Come...?"

"Era deciso così.", fu tutto ciò che Sherlock riuscì a rispondere, prima che il suo corpo rispondesse in automatico a quel richiamo tanto antico.

Si baciarono dopo quelli che erano stati letteralmente secoli di attesa. Fu un bacio che non significava soltanto ti amo, era la realizzazione di un desiderio durato più di un millennio, il compimento di una promessa che sarebbe durata in eterno.

La confusione regnava ancora nella testa di Sherlock, ma non era importante. John - il suo John, quello per cui era tornato - era lì tra le sue braccia. E solo quello importava.

Il cellulare cadde per terra in un tonfo.

Lo schermo s'illuminò un secondo prima di incontrare il pavimento.

Benvenuto, John – M.

Allo stesso modo, il cellulare nella tasca del giubbotto di Sherlock vibrò.

Bentornato, Sherlock – M.

 

N.d.A.

 

Fruma: sempre dall’antico inglese, significa “inizio”.

“People think dreams…puns and lost hopes.”: “Le persone pensano che i sogni non siano reali perché non sono fatti di particelle. I sogni sono reali. Ma sono fatti di punti di vista, di memorie e giochi di parole e speranze perse.”. Citazione da uno degli scrittori contemporanei che ammiro di più, Neil Gaiman.

“We are such stuff…with a sleep.”: ancora Shakespeare (si intuisce, per caso, che sono un pochettino fissata con il Bardo?). Significa (che Shakespeare non si rivolti nella tomba!): “Siamo della stessa sostanza con cui sono fatti i sogni; e la nostra breve vita è circondata dal sonno.” Frase, spesso, erroneamente attribuita a “Romeo and Juliet” è, in realtà tratta da “The Tempest” ed è pronunciata da Prospero, principe di Napoli, nell’atto IV, scena prima. Il tema trattato da Shakespeare in questa breve battuta di dialogo è quello del fatto che, secondo Prospero, tutta l’esistenza umana non sia nient’altro che il breve sogno di una mente divina che è circondato o “completato” dal sonno. Prospero, allora, sembra implicare che soltanto quando moriamo, ci svegliamo dal sogno ed entriamo nella vera realtà – o, perlomeno, in un sogno più vero.

  
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