Fanfic su artisti musicali > Sex Pistols
Segui la storia  |       
Autore: Passero della Neve    21/12/2014    1 recensioni
“Quando avrò la maggiore età non potrai impedirmi di andare via da qui, e finalmente la smetterai col tormentarmi!”
E se l'uscita di scena trionfante venisse anticipata?
Nelle mani screpolate dal freddo stringevo caramelle alla menta, un filo di inquietudine e qualche moneta: tutto ciò che al momento mi apparteneva. Io ed il mio grammo di ottimismo continuammo a camminare verso il binario quattro con la convinzione che ce l'avrei fatta, che in un modo o nell'altro sarei riuscita a cavarmela. In caso contrario, mi restava la soddisfazione di aver varcato la soglia della casa degli orrori prima che sarebbe stato troppo tardi anche solo per respirare.

1976, i Sex Pistols e i Clash regnano sovrani sulla scena punk rock della signora Londra.
In prima fila c'è un insolito, dolce amaro triangolo che racconta la storia nella storia.
Diffuso ovunque e da secoli, il triangolo è da sempre presente nei libri, nei film, nelle canzoni, nelle poesie e persino nei fumetti fino alla nausea.
Il triangolo di "Che razza di storia è questa!" sarà forse noioso, ma mai banale.
Resta a voi giudicare.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Johnny Rotten, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo primo

RUN AWAY


Alex's pov:
 
(Bristol, 1976) Riuscivo a sentire le sue urla stridule ancor prima che potessi imboccare il vialetto di casa.
Sara, la mia tutrice, se ne stava comodamente in pantofole con addosso una vestaglia da malata terminale color rosa antico, lanciando le sue maledizioni contro l'uomo che da qualche tempo era diventato il suo compagno. Quota quattro in pochi mesi. Ci avrei scommesso un organo che in un'altra sola settimana sarebbe scappato via anche quest'altro debosciato. Da quando aveva messo piede in quella casa, quel tale, non aveva fatto altro che portare guai, polizia e malumore, svegliandomi nel cuore della notte con la tachicardia alle stelle. Come se fosse necessario anche il suo contributo! Quello che invece per la legge doveva essere ancora il coniuge di Sara, non avevo la minima idea di dove potesse essere, e detto con franchezza, la cosa non stuzzicava minimamente la mia curiosità. 
– Io e te dobbiamo parlare signorinella! – ringhiò Sara a denti stretti, facendomi indietreggiare. Ci risiamo: l'ossessione fantasma colpisce ancora, parte 100. Ecco il titolo del libro autobiografico che avrei dovuto scrivere. Non sarebbe bastato un intero pacco di fogli a completarlo, ma almeno sarei diventata milionaria!
– Lasciami stare – sibilai, proseguendo in fretta verso le scale. Prima che quella pazza potesse seguirmi al piano di sopra, la porta d'ingresso si aprì, e un uomo ubriaco vi entrò: ecco il venditore ambulante! La donna gli si parò davanti con un'espressione teatrale in viso e recitò una parte da oscar:
– Tesoro.. Alex ha cercato di aggredirmi, è gelosa! –
– Ancora con questa storia? Andiamo Sara, è solo una ragazzina – rispose il fidanzato con la voce impastata dall'alcol. A stento riusciva a reggersi in piedi, ed eravamo ancora in pieno giorno! Che spettacolo patetico.
– E’ una ragazzina, ecco perché ti piace! Cazzo, dì che non è vero! MA COSA DIAVOLO CI TROVATE IN LEI? – 
Sara mi rivolse uno sguardo arguto, pieno d’odio, poi continuò isterica: – Credi che io sia pazza?! 
Rimasi in silenzio, pensando che in effetti tanto sana di mente non fosse. Continuavo a starmene lì impalata, bloccata dalla paura che se mi avesse seguito al piano di sopra, Jade avrebbe assistito all'ennesima sfuriata.
Avrei voluto urlarle in faccia una serie di insulti fino a provocarmi un danno alle corde vocali. Decidendo di inghiottire quell'amara caramella che mi opprimeva la gola, mi chinai a raccattare le costruzioni sparse sulla moquette, sperando che le lacrime si fermassero in tempo ai bordi degli occhi. 
– Sara, tesoro, lascia perdere – si lagnò il fidanzato della pazza, cercando di calmarla bloccandole i polsi e la vita, impedendole così di scagliarsi contro di me. Ma con scarsi risultati, perché l'anguilla continuava a dimenarsi contrariata. Quella donna stava iniziando seriamente a perdere la ragione. Anche se impegnato in quella difficile impresa, l'uomo non perse occasione: posò il suo viscido sguardo sul mio corpo e con esso si concesse una veloce panoramica. Mi chiedevo cosa mai ci si poteva aspettare da un buono a nulla che cambiava nome ogni due giorni, brutto, fetido e pervertito, conosciuto nel Club più osceno di Bristol. I suoi soldi facili, probabilmente.
– Ho visto come lo guardi! – urlò Sara ignorando la cruda verità. La verità era che a farmi l’occhio languido senza un briciolo di scrupolo ogni volta che ne aveva l'occasione era proprio il suo adorato compagno. Ma cosa le aveva raccontato quel maniaco?
– Piantala di fare la furbetta o ti ammazzo con le mie mani, hai capito bene?! E quel collant sono miei, li rivoglio! Puttana! – Le calze che indossavo non le avevo rubate dal suo cassetto mentre giocavo a fare la prostituta, me le aveva regalate lei stessa pochi giorni prima, quando era in grado di ragionare. Mi disse che sulle mie gambe magre non sarebbero risultate volgari, ma in quel momento la mente di Sara fu parecchio annebbiata dalla schizofrenia per ricordarsene.
Solo un oggetto lei riuscì a lanciarmi addosso. Lo schivai in tempo, rischiando quasi di inciampare nel piede della lampada alle mie spalle. A quel gesto furioso, sua figlia Jade di soli cinque anni, nata da una delle sue relazioni precedenti, sobbalzò sul primo gradino delle scale proprio mentre era intenta a scendere. In preda allo spavento strinse i pastelli colorati a sé, precipitandosi di nuovo nella sua camera in fondo al corridoio.
Ormai la pazza esibiva quel tipo di scenate sempre più spesso. L'anno passato sembrava si fosse finalmente decisa a farsi aiutare da uno psichiatra, ma poi, come per magia, qualcosa le faceva cambiare idea. Saltava fuori la solita storia e tornava a puntarmi il dito contro. Contro una ragazzina che seppur avuta in affidamento avrebbe dovuto accudire con affetto, insegnarle cos'è il bene, invece di accusarla ingiustamente di essere una sgualdrina sfascia famiglie e la causa dei suoi fallimenti in amore.
Non avevo più la voglia, né la forza, di sprecare un solo altro suono per difendermi dall'ingiusta accusa di quella disagiata mentale. Ne avevo fin sopra i capelli di lei, di raccattare i mozziconi delle sigarette che lasciava in giro, di quella sua voce aspra e graffiante, dei suoi occhi isterici pieni di sangue, della sua orrida ricrescita spuntare sui capelli biondo platino.
Le costruzioni che stringevo tra le mani caddero a terra con un sonoro tonfo. Mi diressi svelta nella mia camera di tre metri per tre e lasciai che la porta dietro di me si chiudesse con un colpo secco e deciso, come a voler sbattere in faccia a quei due inutili individui il mio sincero invito di andare a farsi benedire da un esorcista. Feci scattare una mandata nella serratura e posai le spalle alla parete. Chiusi gli occhi, pregando che quella voce la smettesse di tormentarmi.
– Li ho visti i vostri sguardi, Kevin! Non mentirmi! Quella troietta ha preso tutto da sua madre! – Riuscivo persino a sentirla dal piano di sopra.
Quella non fu la prima volta che Sara osava nominare la mia vera madre. La tirava in ballo ogni volta che voleva darmi della sgualdrina accalappia uomini. 
Nessuno mai mi raccontò chi fosse la mia madre biologica, se fosse viva o meno. Da quello che potei origliare nel corso degli anni ero al corrente del fatto che quando mi dette alla luce, mia madre era una giovane sprovveduta senza arte e né parte, felice di liberarsi di una gravidanza indesiderata. Magari non era di certo il tipo di donna che un uomo per bene in cerca di una moglie fedele sposerebbe, questo però non era una buona scusa per giustificare gli insulti osceni di Sara e le sue accuse.
Nella mente malata della mia tutrice vigeva un mondo sporco e falso, un mondo che non esisteva, frutto della sua immaginazione, forse costruito sulla paura di restare sola. Per sfuggire dalla sua fobia, cercava di affibbiare la colpa del suo disagio al sangue che scorreva nelle mie vene. Evidentemente l'idea di prendermi in affidamento solo per un interesse economico, e forse anche per timore che nessuno dei suoi amanti durasse per sempre, non si rivelò una buona idea come lei aveva immaginato. Altrimenti non si spiegherebbe com'è che, poco dopo il mio arrivo, quando nacque Jade, quel falso interesse nei miei confronti svanì rapidamente come fosse niente. Ed io avrei anche potuto finire nel burrone più profondo del pianeta: nessuno se ne sarebbe accorto. Sapevo di non aver mai fatto nulla che potesse farla dispiacere o addirittura farla soffrire, e allora mi chiedevo il perché di tanto odio nei miei riguardi. "E' andata fuori di testa, non c'è nulla da capire" mi suggerì una vocina dentro di me. E forse non aveva tutti i torti.
Malgrado le mie scarse amicizie e l'atmosfera che vigeva in quella famiglia, avevo capito da sola cosa fosse la vita, quella vera. L'avevo imparato dalle persone che fino all'affidamento si erano interessate a me nell'orfanotrofio in Italia. L'avevo imparato da Suor Clarissa, dai libri, dalla danza che m'inventavo da sola dopo aver guardato le ballerine alla tv. L'avevo imparato dalla gentilezza degli sconosciuti, dalle giornate intere passate a vagabondare tra le stradine di Bristol quando non avevo nessuna voglia di tornare a casa. Tutto quello che conoscevo lo avevo imparato da sola. Solo di una cosa non ne conoscevo il sapore: quello della libertà. La libertà psichica, interiore, quella fisica. Perché non imparare a conoscerla da adesso?
“Quando avrò la maggiore età non potrai impedirmi di andare da qui, e finalmente la smetterai col tormentarmi!” 
E se l'uscita di scena trionfante venisse anticipata?


The after day...


– Un biglietto per Londra, per favore. –
Sei lunghi e pessimi anni trascorsi nel Regno Unito non furono abbastanza da cancellare il mio accento italiano. L’anziano signore della biglietteria però, dietro le sue grandi lenti da vista sembrava non averlo notato.
L’unica traccia, l’ultimo residuo che restava di me nella noiosa cittadina di Bristol era la mia inseparabile bicicletta blu elettrico, legata al palo di una stradina che ben presto avrei dimenticato. Nel suo lucchetto arrugginito dall'acqua e dal tempo incatenai quelli che erano i ricordi di una vita malsana.
Ma i ricordi non si lasciano incatenare, s’attaccheranno alla mia ombra per seguirmi in ogni dove.

Si trattava solo di una questione di puro coraggio e poi sapevo che avrei finalmente tirato un sospiro di sollievo, una volta fuori dalle fiamme di quell'inferno. 
Finalmente libera. Libera, ma sola. Sola, ma felice di essere libera. Libera da urla, percosse, schiamazzi nel cuore della notte. Libera dall'oppressione, dall'angustia, dal disagio di vivere. Libera di scegliere, di conoscere e scoprirmi. Forse ero così libera che non avevo nemmeno idea di quale direzione prendere. 
Nelle mani screpolate dal freddo stringevo caramelle alla menta, un filo di inquietudine e qualche moneta: tutto ciò che al momento mi apparteneva. Io ed il mio grammo di ottimismo continuammo a camminare verso il binario 4 con la convinzione che ce l'avrei fatta, che in un modo o nell'altro sarei riuscita a cavarmela. In caso contrario, mi bastava anche solo la soddisfazione di aver varcato la soglia della casa degli orrori prima che sarebbe stato troppo tardi anche solo per respirare.
Una bambina dai lunghi capelli raccolti in un fiocco rosa teneva nella mano quella della madre. Nell'altra stringeva una borsetta giallo canarino fatta ai ferri. Il suo sorriso timido mi ricordò una creatura a me cara e un flashback recente mi riempii la mente: la piccola Jade, inconsapevole del fatto che sua madre Sara fosse affetta da psicosi-maniaco ossessive e disturbi della personalità, mi fissava dal vetro di una finestra troppo alta per mostrare la sua bocca rosea e quel naso da bambolina. I suoi occhietti espressivi mi seguirono ad ogni pedalata mentre mi lasciavo il passato alle spalle e il magone nella gola era l’unica cosa che mi accompagnava verso il nulla. Perché nei programmi di quella sera ciò che mi attendeva era solo il nulla, nient’altro.
E poi mi ritrovai a girovagare senza meta per le ampie strade di una città a me sconosciuta e un ronzio di rumori mi accarezzava i timpani.
Non avevo idea da quanto tempo stessi camminando, e non m’importava alquanto, se non fosse che la tracolla della borsa piena di vestiti da quattro soldi iniziava ad essere un peso morto, ma niente in confronto al peso che mi trascinavo dentro da tutta un’adolescenza. Era stato lì a spingere e a soffocarmi l’esistenza per così tanto tempo che, per la prima volta nella mia vita, ebbi la piacevole sensazione che stesse diminuendo passo dopo passo. Da quel giorno in poi ciò che mi restava da sopportare forse era solo un fastidio, quel fastidio che di solito si avverte dopo un senso di liberazione da una morsa dolorosa, un laccio emostatico troppo stretto, una spina tolta da un dito. Quella vita insana e scomoda dalla quale stavo scappando era la mia morsa dolorosa, il mio laccio emostatico legato al cuore, la mia spina piantata nell'anima.
Le caviglie pesanti implorarono pietà e mi sedetti sul bordo cementato di un'aiuola per riposarmi dalla lunga camminata.
Il tempo di un sospiro. Quello fu un momento di pace troppo breve per le mie povere gambe, perché il cielo grigio iniziò a mandar giù una valanga d'acqua al primo colpo. Subito mi coprii il capo col cappuccio della felpa, ma servii a poco. Non ebbi nemmeno il tempo di correre a ripararmi sotto l'ingresso di un'abitazione che le punte dei capelli divennero bagnate fradice. Quale giorno migliore per decidere di andare via di casa? 
Oramai si stava facendo buio, i negozi calavano le serrande scolorite, nelle case s’accendevano le luci, ed io avrei passato la notte su una di quelle squallide panchine in una squallida stazione dei treni. Però chissà se avrei trovato il coraggio di chiudere gli occhi sapendo di essere circondata da cartacce, puzze nauseanti e delinquenti in agguato. 
Armata di speranza superai una sfilza di palazzi sfrecciando come una scheggia sotto l'acquazzone alla ricerca di un riparo. Un luogo asciutto nel quale avrei potuto starmene almeno fino a quando la pioggia non avrebbe cessato. Anche le nuvole decisero di non schierarsi dalla mia parte, perché ad ogni mio passo sembrava che lo facessero apposta ad aumentare il getto dell'acqua.
D'un tratto una tabella in lontananza richiamò la mia attenzione: "Crunchy Frog pub". Decisa a rintanarmi in quel locale dal nome buffo, ripresi la corsa stando ben attenta a non sbucciarmi le ginocchia in qualche pozzanghera e una volta superata la soglia della porta, una piccola campana sopra la mia testa emise un suono grazioso quando vi entrai:
Pile di tavoli riempivano una sala spaziosa dall'ambiente rustico e accogliente. Luci basse, una musica soft rock in sottofondo accompagnava qualche innocuo ubriacone attaccato alla sua birra. Ciò che mi piacque a tal punto da ipnotizzarmi per un momento fu una bellissima batteria posta in fondo al palco, di fronte all'entrata. Non ne avevo mai vista una dal vivo!
Con quei pochi penny che mi restavano ordinai un panino al formaggio e mi sedetti a mangiarlo su uno degli sgabelli alti posti in fila. Dovetti darmi una spinta con le mani per salirci.
– Mi stavo chiedendo se.. avete bisogno di una cameriera –  mi rivolsi titubante al cameriere che aveva appena servito la mia ordinazione. I suoi capelli corti, l’abbigliamento poco curato e il modo con cui si muoveva intento a lucidare i boccali di birra mi tradirono, perché quando avvicinandosi mi parlò, potei notare che quel ragazzo dai lineamenti delicati era in realtà una donna.
– Mi dispiace carina, il titolare non cerca personale. –
Annuii con un cenno del capo mentre il mio sguardo di rinuncia cadde sul ripiano del bancone. Incredibile come in pochi secondi le mie speranze erano andate magicamente a farsi benedire! Prese dall'istinto suicida, si legarono intorno ad un sasso grande quanto una montagna e si lasciarono precipitare nel burrone più profondo del pianeta. Io però non ero certo il tipo di ragazza che sarebbe scoppiata in lacrime perché scappata di casa e non sa come mantenersi. Chiunque mi avrebbe detto “sapevi a cosa andavi incontro, adesso cavatela da sola”.
Qualche minuto più tardi, intenta a rimuginare su come e soprattutto dove avrei passato le prossime ore della notte, potei sentire le palpebre diventare due massi pesanti e i nervi rilassarsi nel momento in cui, spinta dalla stanchezza, posai la fronte sul braccio steso al ripiano del bancone.
Non vedo l'ora di dormire su qualcosa di morbido.


– Hey signorina! –
Scuotendomi delicatamente, qualcuno interruppe il mio piacevole stato di trans. Quando trovai la forza di sollevare il capo, sentii il corpo come in cancrena e il collo che minacciava di non volersi muovere nemmeno di un centimetro. Dovetti massaggiarlo per riuscire a voltarmi nella direzione di quella voce:
– Mi dispiace svegliarti, volevo solo avvisarti che tra poco qui ci sarà un gran baccano – mi informò la stessa cameriera di poco prima. Con i suoi occhi verde bottiglia mi guardava accigliata, con un sorriso curioso sulla faccia sbarazzina. Lanciò un'occhiata curiosa alla mia borsa mentre riponeva qualcosa in un cassetto. Evitai quello sguardo osservatore e, passandomi una mano sul viso come a voler scacciare via il sonno, ebbi l’impressione che quella ragazza mi stesse leggendo in faccia.
Volendo spezzare quel silenzio che stavo mantenendo da troppo tempo, stavo per scusarmi per essermi appisolata come una pera cotta ma un improvviso starnuto interruppe le mie buone intenzioni. Ridemmo quasi in contemporanea e da lì fu facile dar vita ad una conversazione.
Stephanie Rooke, era questo il nome della cameriera. Mentre la osservavo pulire i tavoli e le panche color ciliegio, qualcosa di familiare nei suoi modi mascolini mi fece illudere di conoscerla da sempre. Divideva un bilocale assieme a sua cugina, un’aspirante criminologa, e ad una ragazza americana con qualche grillo per la testa conosciuta durante un concerto.
Fu più semplice di quanto pensassi confidarmi e raccontare la mia attuale situazione, senza però sfociare nei particolari più intimi. Stephanie non si meravigliò affatto quando le confessai che prendere in considerazione l’idea di ritornare a casa non era minimamente nei miei piani. Ma era anche vero che, piuttosto che in mezzo ad una strada avrei preferito dormire ovunque, anche in un pub notturno o in un garage malmesso.
Dall'alto della sua generosità, Stephanie mi propose di appropriarmi del divano di casa sua, definendolo comodo per ogni evenienza...
– Ne conosco parecchi di ragazzi nella tua situazione – disse quando notò la mia esitazione nell'accettare la sua proposta. – Io e le ragazze siamo ormai abituate a ritrovarci estranei in giro per casa! – E sembrava addirittura che la cosa le piacesse.
Forse ho trovato la mia ancora di salvezza?  
Accettare un invito così su due piedi sarebbe stato azzardato, infondo conoscevo quella cameriera da nemmeno un’ora. Ma una piccola parte di me confidava nel suo sorriso, e a dirla tutta: quando mi sarebbe capitata di nuovo un’occasione simile? Nessuno tra il diffidente popolo Londinese mi avrebbe mai aperto così facilmente la porta di casa propria in piena notte, se non in cambio di favori o qualcos'altro, ed io ero così stanca anche solo per avere ripensamenti.
– Se per te non è un problema, allora sarebbe fantastico – acconsentii, mentre il peso delle mie pene diventava sempre meno carico. Non potei fare altro che accettare, sorriderle e ringraziare Stephanie per la sua disponibilità. 


Stephanie, la mia ancora di salvezza, lasciò perdere la spugna con la quale puliva il ripiano del bancone e si allontanò rapidamente verso una piccola scala posta oltre i tavoli. – Solo un consiglio: non parlare con i punk, sono dei gran stronzi! – urlò in lontananza prima di sparire oltre l'ultimo gradino. 
Divertita dalla sua affermazione annotai il mio taccuino immaginario: 1. Come riconoscere un punk
In un batti baleno il pub divenne colmo di persone di ogni tipo: ad esempio ragazzi strambi con la faccia da duro, che pensai fossero i punk stronzi di cui aveva accennato la mia nuova conoscente. Ragazzi dall'abbigliamento improponibile, ragazze composte e non. Più non che composte, a dire il vero, e per mio stupore ogni tanto m’imbattevo anche in qualche faccia decente. 
Un gruppo formato da quattro ragazzi prese posto sul palco a suonare. "Generation X": così si erano presentati. Molte persone sedute alle panche, spinte dalla musica s’alzarono in piedi così da godersi meglio la performance. I rumori assordanti degli strumenti però, a lungo andare, risultavano davvero fastidiosi per il mio atroce mal di testa. Ecco cosa intendeva Stephanie quando aveva detto “tra poco qui ci sarà un gran baccano” .
L' orologio appeso sopra la lunga striscia di bicchieri segnava ormai le 11:00 pm e le mie gambe iniziavano ad andare in coma farmacologico. Abbandonai lo sgabello e camminando sul fastidioso formicolio dei muscoli addormentati mi diressi all'uscita del locale, non curandomi delle occhiate malvagie di un gruppetto di ragazze forse troppo stronze anche solo per guardare oltre il loro naso incipriato.  Varcata la soglia mi accorsi che la pioggia era sparita, portando con sé il mio senso di smarrimento e donandomi un pizzico di sicurezza.
Un’altra sola nota di quella musica e sarei impazzita!
Durante la fuga dalla pioggia fino al pub non avevo notato quanto potessero risultare di compagnia le luci dei negozi riflesse sulla strada bagnata, quanto potesse essere frizzante ed eccitante l'aria notturna che si respira quando si è consapevoli di essere finalmente liberi. Era come se un mondo tutto nuovo, che aspetta solo di essere scoperto, ti si presentasse magicamente sotto il naso. 
Se proprio dovevo aspettare in completa solitudine che Stephanie terminasse il suo turno al pub, volevo farlo fuori, all'aria aperta. Non avevo voglia di camminare ancora ed esclusi l'idea di allontanarmi troppo. Preferivo restare nei paraggi, perché se disgraziatamente avessi perso l'orientamento sarei di sicuro scoppiata in un pianto isterico.
Accanto all'entrata del Crunchy Frog vi era parcheggiata una motocicletta che solo a guardarla faceva venire la pelle d’oca: nera, lucida, bellissima, una di quelle motociclette enormi che fanno più rumore di un trattore. L'idea di fare un giro su quel mezzo dall'aria spericolata mi incitò a sedermi sulla sella posteriore di esso, come una bambina curiosa di provare un giocattolo pericoloso. Solo quando fui certa che il veicolo fosse bel piantato in terra mi sentii sicura di poterci restare. Un mezzo simile non l’avevo mai visto da così vicino, forse solo su qualche giornale sportivo o in tv.
Scroccai senza troppi problemi una sigaretta ad un passante, un uomo distinto in giacca e cravatta che prima di porgermi la stecca mi guardò come fossi una prostituta a basso costo con l'Aids. Cosa c’era che non andava nella mia minigonna di jeans? Lo ringraziai strizzando un occhio, con fare naturale. Ero divertita dal suo sguardo impacciato, e allo stesso tempo sorpresa che non m’avesse mandato a quel paese data la mia giovane età.
Nicotina che invade i polmoni: proprio quello che ci vuole per rilassarsi e non pensare a nulla.







Note finali


Salve a tutti!
Questa è la mia prima storia introspettiva, fatta eccezione per le mille bozze sparse tra i documenti del mio pc che ahimé, sono così pessime che non vedranno mai la luce. Inizialmente ero un po' restia a pubblicarla, forse per timore di deludere le aspettative dei fan dei Sex Pistols, Clash e company, o di descrivere i personaggi realmente esistiti o in generale l'ambiente punk in modo diverso da come se lo immagina il lettore. Mi auguro che tra qualche tempo, rileggendo, non mi chiederò come io abbia potuto sbandierare ai quattro venti un simile scempio... 
Per ora, vi dirò che sono discretamente soddisfatta nonostante i mille dubbi (l'insicurezza regna sovrana, olé!).  
I miei ringraziamenti vanno alla prima recensione in assoluto, lasciata da "Akatsuki Cloud" prima ancora che io potessi scrivere le note finali. Mi ha regalato la carica per continuare a scrivere il prossimo capitolo che ha preso già una piega mooolto più interessante. Quindi, grazie per l'incoraggiamento! 

Che dire, spero di aver stuzzicato la vostra curiosità di sapere cosa accadrà alla nostra sfortunata ma coraggiosa Alex.
A prestissimo!
Ninfea in mare

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Sex Pistols / Vai alla pagina dell'autore: Passero della Neve