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Autore: Lily MeG Gageta    23/12/2014    3 recensioni
Cosa c’è di peggio del perdere la vista? Mantenerla. Avere degli occhi perfettamente sani solo per veder soffrire l’unica persona per la quale avresti dato la vita.
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note dell’autrice:

Ladies and Gentlemen ho il piacere di annunciarvi che la ff è stata scritta da Lily per il contest di Natale organizzato sul gruppo Sherlockians di Facebook! *applausi(pochi)*

Spero con tutto il cuore che sia di vostro gradimento, buona lettura e un grazie particolare alla bravissima e magnificentissima scrittrice Gageta (aggiungerei anche eccelsa... xD ndGageta) che sta postando al posto mio perché sono impedita :D

Buona lettura e buon Natale a tutti!

 

***

 

Nero. Non quello rassicurante della notte, non l’oceano scuro cosparso di stelle. Un’oscurità totale. Solo quella, solo assenza di luce. Ma quella condanna non è stata assegnata a lui. Il destino lo ha sì voluto punire, ma non così. Cosa c’è di peggio del perdere la vista? Mantenerla. Avere degli occhi perfettamente sani solo per veder soffrire l’unica persona per la quale avresti dato la vita.

 

Si svegliò. La luce ormai si era fatta strada tra le sagome familiari del loro appartamento. O meglio, per questi giorni sarebbe stato solo il suo. Si passò una mano sul volto, stanco. Sfinito, distrutto. Come poteva non essersi mai accorto della sua stupidità? O comunque averlo realizzato troppo tardi? Del resto un forno a microonde era solo un forno a microonde. Le persone quando devono far scaldare un piatto lo aprono. E una volta aperto non esplode. Altrimenti lo avrebbero chiamato bomba, molto probabilmente.

Sarebbe bastato un foglietto, un avviso di qualche genere: ‘’Attenzione, il tuo coinquilino ha lasciato qui dentro un composto che non reputa così instabile ma che potrebbe rivelarsi tale’’.

Ma ormai era troppo tardi, la sua stupidità aveva già causato il danno irrimediabile. Inutile cercare di consolarsi pensando che dopotutto sarebbe potuto accadere di peggio.

Sarebbe bastata una dose maggiore per danneggiare il cervello oltre che i soli occhi. O magari anche l’apparato respiratorio. Così però non faceva altro che sentirsi peggio.

Comunque, stare a torturarsi in quel modo non avrebbe aiutato John, anzi, era quasi l’orario delle visite. Inutile restrizione ospedaliera: avrebbe voluto poter rimanere al suo fianco, o meglio, avrebbe desiderato poter prendere il suo posto.

 

Era passato del tempo da allora. Per John due settimane, per lui due settimane, tre ore, dodici minuti e quattro secondi. Cinque. Sei. Sette.

«Dovresti seguire qualche caso.».

Dieci. Undici. Come poteva essere così sereno? Come se nulla fosse successo? Quattordici. Quindici. Non riusciva ancora a guardarlo. Lui che poteva vedere non osava farlo. Diciotto.

«Sherlock.»

Si voltò verso di lui, finalmente. Il suo volto più che triste ed abbattuto era severo.

Si vergognò. L’unico autorizzato a deprimersi in quel modo era John. Invece di consolare la sua vittima indesiderata, rifiutava le sue attenzioni. Gli rivolse così la parola, di impulso: «Non voglio dovermi allontanare da te.» Doveva esser suonata come una frase infantile, tanto da far ridacchiare l’altro.

«Non me la cavo male con il bastone, sai, posso uscire di casa.»

La cosa peggiore erano gli occhi. Da poco aveva tolto le bende, e mentre gli parlava non guardavano lui. Erano fissi in un punto, nella sua direzione, certo, sentiva meglio il suono della sua voce, ma avevano perso tutto. Sfregiati, incurabili. Non potevano più trasmettere quella gioia che animava John di fronte a qualche deduzione di Sherlock. Quella felicità della quale quest’ultimo si era nutrito, quella che insieme alla pura e semplice presenza del coinquilino lo spingeva ad andare avanti.

Avrebbe voluto fare tante cose in quel momento, ma non cercare un caso interessante. Niente sarebbe stato più interessante dell’abbracciare John, senza pensarci, solo per sentire il calore del suo corpo che almeno non aveva perso. O di baciarlo.

Non voleva nessun caso. Lui voleva che John fosse felice. E non quel felice che quest’ultimo continuava a ripetere di essere, solo per illudere Sherlock. Voleva dargli una felicità reale.

«Pensavo volessi trascorrere un Natale tranquillo.»

Senza quasi rendersene conto si era alzato dal divano ed inginocchiato davanti alla poltrona da dove il suo amico - il suo migliore amico - lo guardava senza poterlo vedere.

Poteva comunque avvertire la sua presenza, però. Il medico che non poteva curarsi da solo allungò una mano verso di lui, facendolo sussultare. Era la prima volta che provava a toccarlo così, ma Sherlock non protestò, anzi rimasero entrambi in un silenzio quasi rispettoso.

Sherlock gli fece posare la mano sul proprio viso.

John voleva vederlo, e sorrideva. Sherlock, invece, non riuscì più a trattenersi e presto la mano dell’altro fu bagnata dalle sue lacrime. Era un pianto di rabbia, di tristezza, ma allo stesso tempo liberatorio. Non si capacitava della fortuna che aveva ricevuto uno come lui per poter avere un uomo così incredibile davanti.

Niente che potesse esprimere a parole. C’era un unico modo per far capire all’altro cosa provava Sherlock, cosa aveva sempre provato.

Gli prese la mano dolcemente e lo baciò.

Sarebbe stato più tranquillo a gettarsi da un edificio, molto probabilmente, ma desiderava confermare la natura del loro rapporto da ormai troppo tempo.

John l’avrebbe rifiutato? Era possibile, ormai tutto lo era. Ma quell’incidente gli aveva fatto capire che il tempo a loro disposizione poteva accorciarsi drasticamente da un momento all’altro.

Perdendosi nei suoi ragionamenti rimase stupito dalle inaspettate e tranquille parole dell’altro.

«E’ un po’ in anticipo per essere un regalo di Natale.»

  
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