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Autore: Julietds    23/12/2014    0 recensioni
E se Taylor non si fosse risvegliato da quel letto di ospedale in cui era stato ricoverato dopo essere finito in overdose nel 2001? Cosa sarebbe successo se Dave avesse disperatamente tentato di cambiare le sorti dell'amico? Delirio nato ascoltando una delle loro canzoni che per me ha significato di più, "Best of You".

Corsi, corsi a perdifiato finché non mi sembrò che i polmoni mi stessero scoppiando e che la milza si stesse lacerando. Dopo un certo punto non ero più io a correre, le mie gambe tiravano avanti da sole. La mia mente era lontana anni luce da casa, quelle strade, quelle corsie d'ospedale. A malapena riuscivo a sentire la mia voce chiedere inconsciamente a tutte le infermiere in che stanza fosse Taylor Hawkins, scuotendole impazientemente se mi sembrava sapessero qualcosa che non volevano rivelarmi o passando oltre ancora prima di ricevere una risposta se non mi sembrava fossero abbastanza convincenti.
Genere: Drammatico, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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THE BEST OF YOU
 





 
“I've got another confession my friend: I'm your fool
Everyone's got their chains to break, holdin' you”







Corsi, corsi a perdifiato finché non mi sembrò che i polmoni mi stessero scoppiando e che la milza si stesse lacerando. Dopo un certo punto non ero più io a correre, le mie gambe tiravano avanti da sole. La mia mente era lontana anni luce da casa mia, quelle strade, quelle corsie d'ospedale.
La mia mente era immersa in un campo di papaveri illuminato dal sole; uscivo giusto da una foresta e mi ritrovavo in quella radura paradisiaca dal cielo limpido e l'erba verde e alta mi solleticava le dita. Sorridevo.

A malapena riuscivo a sentire la mia voce chiedere inconsciamente a tutte le infermiere in che stanza fosse Taylor Hawkins, scuotendole impazientemente se mi sembrava sapessero qualcosa che non volevano rivelarmi o passando oltre ancora prima di ricevere una risposta se non mi sembrava fossero abbastanza convincenti. Avevo solo bisogno di una cosa in quel momento: sicurezza. Il mio migliore amico. Vivo, possibilmente.
'Sei tu quella che sto cercando?' domandavano invano i miei occhi perdendosi in quelli di signorine e signore in camice bianco.

Ero da solo, nella radura. Non c'era nessun suono, ogni tanto sentivo appena le rondini cinguettare mentre si rincorrevano fra le nuvole. Mi piaceva quel posto. Presi a camminare a occhi chiusi aspirando dalle narici il profumo della libertà e d'un tratto mi lasciai cadere in mezzo agli steli più giovani. Siete così giovani, non sapete nulla della vita…ma io si – mi compiacevo tra me e me. Allargai le braccia più che potevo, con i palmi rivolti verso il cielo in modo da poter afferrare più natura possibile. Ero felice, finalmente felice…eppure un pensiero iniziò a farsi largo in mezzo a tutti i suoi fratelli sorridenti: ero solo. Mi alzai sedendomi e mi guardai intorno. Ero fottutamente solo. Aveva senso tutta quella bellezza senza avere qualcuno con cui condividerla? Mi grattai la nuca aggrottando le sopracciglia. Non era giusto.

Sei tu quella che sto cercando?  Un paio di occhi azzurri e giovani appartenenti a un viso gentile circondato da riccioli biondi mi confortò finalmente e mi indicò la stanza 387. Ormai non avevo più ossigeno rimasto, andavo per inerzia, ero già morto, più andato di un Taylor in bilico tra la vita e la morte.
Scivolai sul pavimento ancora imbrattato di cera fino ad arrivare a quella maledetta cella, davanti alla quale porta a vetri esitai un secondo. Sembravi dormire. Tenni gli occhi fissi per qualche minuto sulla maniglia, poi finalmente mi decisi e afferrai quella sporgenza fredda di metallo. Non volevo entrare. Ero terrorizzato.
Nonostante tutti i miei muscoli irrigiditi e la voglia di riprendere a correre nella direzione opposta, il mio istinto mi fece entrare.

Mi sedetti sulla poltroncina rossa vicino al tuo letto, quella dove c'erano appoggiati i tuoi vestiti. Oh si, erano ancora lì belli caldi. Quegli osceni pantaloncini rossi, quella maglietta bianca. Era ancora tutto lì, come lo avevi lasciato. Come lo avevamo lasciato.

Ti guardai il viso: sembravi teso, come se stessi combattendo una guerra interiore. Provai ad avvicinare la poltrona trascinandola ma non voleva scollarsi dal pavimento così mi alzai in piedi e mossi qualche passo. Visto da vicino eri strano…una statua di cera. Era come se sentissi che il mio amico era lì dentro da qualche parte, non propriamente in quella stanza d'ospedale. Ti sfiorai le mani gelate e ne strinsi una nella mia. E desiderai scappare più forte che potevo senza poterlo realmente fare, così chiusi semplicemente gli occhi. Magari sarei riuscito a raggiungerti, ovunque tu fossi.




 
“Where you born to resist or be abused?”




 
Avevo voglia di distruggerla, quella dannata radura. La perfezione mi suscitava rabbia ora che avevo la consapevolezza di essere così solo. Le rondini di tutti i cieli né le maestose farfalle dei più disparati colori esistenti in natura sarebbero riuscite ad alleviare quel dolore. Ero arrabbiato. Ero arrabbiato e iniziai a strappare fiori e lanciarli a destra e a manca. Fanculo papaveri. Fanculo erba. Fanculo alberi. Urlai dopo una serie di calci contro un albero, sulla soglia della foresta, che non provocarono il benché minimo graffio a quella corteccia così dura. Sicuramente più dura della mia. Appoggiato con un braccio contro quel sostegno legnoso gettai un'occhiata disperata verso le profondità oscure della foresta; forse avrei dovuto semplicemente tornarci. In fondo era lì che mi avevi raccolto, no? Nel dolore, nell'oscurità. E che senso avrebbe avuto ora restare nella luce senza l'unica persona con cui sarei mai vissuto nel sole?

Strizzai gli occhi e strinsi più forte la tua mano.
Ti prego Taylor, sussurrai. Ho così paura.




 
“You gave me something that I didn't have
I was too weak to give in, too strong to lose…”






Mi ricordò di quando avevo sette anni e vivevo nel terrore dei temporali.
A sole 1794 miglia da casa mia ci sarebbe stato un bambino, biondo e in pantaloncini rossi, pronto a consolarmi e prendermi in giro con il suo solito sorriso dai denti più che bianchi. Ci saremmo ritrovati sempre, persino fossi cresciuto in Himalaya, lo so. Lo sento. Magari tu saresti stato un eschimese e non ti saresti chiamato Taylor, però alla fine ci saremmo trovati comunque. Ovunque.

Avevo chiuso gli occhi e stretto i denti già da una manciata di minuti, appoggiato al tronco tanto odiato e massacrato, quando una mano calda si poggiò sulla mia spalla. Era un tocco comprensivo, sussurrava “Hey amore, sono qui”. Mi voltai con le guance sporche di lacrime e fango per essermi rotolato in giro fino a quel momento e tu eri davanti a me, sorridente, forse leggermente preoccupato. Rimasi sbigottito, tu ti mettesti a ridere.
“Vieni qui Dave” dicesti sorridendo e scuotendo la testa. Io mossi qualche passo incredulo, dapprima lentamente per poi fiondarmi in quelle braccia che strinsi con tutta la forza che avevo in corpo.
“Hey, non vorrai mica sbriciolarmi tutte le ossa!” dicesti, al che mi allontanai appena ridendo ma senza mai lasciarti la mano per paura che il temporale tornasse e tu scomparissi nuovamente.
D'un tratto mi salì una sensazione…positiva? Forse era speranza, più che altro era fretta.
“Tay, tu devi svegliarti. I dottori mi hanno chiamato dicendomi che-”
Tu non mi ascoltasti minimamente, anzi mi interrompesti anche. “Amico…perché non sei venuto a trovarmi negli ultimi due giorni?” dicesti con lo sguardo da cane bastonato che mi lanciavi ogni volta che ti lasciavo suonare la batteria al posto mio, specialmente se si trattava di occasioni speciali. Scusa se non te l'ho lasciata a Wembley, a proposito. Sai che era il sogno di una vita suonare con gli Zeppelin alla batteria. Tu, come sempre, te la sei cavato benissimo al microfono e per una volta ti ho guardato io il fondoschiena, non mi sembrava un brutto compromesso.
Ridesti. “Wembley non c'entra niente. Avevo insistito io perché suonassi la batteria, era giusto così.”
“E allora?”
“E allora mi hai lasciato da solo…e avevi promesso che non l'avresti fatto.” Era incredibilmente serio.
Presi a torturarmi i palmi volgendo lo sguardo a terra. “Tay… mi dispiace. Ho passato trentadue giorni a fare avanti e indietro dall'albergo all'ospedale. Ogni singola notte. Avanti e indietro per le strade di Londra pregando ad alta voce come un pazzo. E io nemmeno ci credo in quelle cose” precisai. Tu ti misi a ridere. “Una sera ho persino avuto un incidente con un taxista che mi era venuto addosso!”
“Lo so, me lo avevi raccontato.”
“Ah, giusto… mi ascoltavi?”
“Come avrei potuto non ascoltarti? Ho passato gli ultimi quattro anni ad ascoltarti e poi mica potevo tapparmi le orecchie, idiota.”
Feci roteare gli occhi fingendomi infastidito da quella battuta ma gli angoli della bocca curvarono verso l'alto.
“Insomma… sono successe un po' di cose. Poi oggi mi hanno chiamato i dottori…” decisi di fare un altro tentativo. “Le tue condizioni si sono aggravate. Ora… quando uscirò da quella stanza” dissi indicando un punto imprecisato del cielo, “vado a dirne altre quattro ai dottori che ti davano le prescrizioni per quella robaccia e sappi che d'ora in poi il libero arbitrio te lo puoi ficcare in culo dal momento che sei il mio migliore amico. Niente più mix strani tra medicinali e alcolici, capito?”
Annuisti vigorosamente lasciandomi la mano sudata ma non importava, eri di nuovo con me e questa volta non ti avrei lasciato tempo per interrompermi. Era la mia ultima possibilità.
“Adesso dobbiamo solo fare un ultimo sforzo… Dobbiamo andarcene da qui, devi svegliarti, devi riprendere a camminare, a suonare, a correre, a urlare, a rompermi le palle come prima, come sempre. Te la senti?” Tu annuisti sempre meno convinto mentre ti portavi una mano all'altezza dello stomaco cercando di non farmi notare troppo che il tuo sorriso si stava tramutando in un espressione di dolore mentre ti piegavi sempre più verso terra.
“Tay? T-Taylor?” chiesi preoccupato.
“Non mi sento tanto bene…” dicesti appena con voce roca toccando il suolo.
“Taylor! Tay!”

In un secondo eri sdraiato con il fiato corto e le tue ultime parole sulla punta della lingua. Io ero preoccupatissimo ma tu ancora sorridevi, mai ti saresti tolto quel tuo ghigno del cazzo, nemmeno nel momento della tua morte. Probabilmente avrei fatto lo stesso per te.




 
“My heart is under arrest again but I break loose
I swear I'll never give in, I refuse…

I'm getting tired of starting again, somewhere new”





“Dave, amico… ora ti occuperai tu di Shane, Annabelle e... Alison? So che è una donna forte, ma se dovesse avere bisogno…”
“Ma no…cosa stai dicendo Tay, adesso vedrai che starai meglio… ti riprenderai!”
“Promettimelo. E promettimi che darai il meglio di te.”
“Te lo prometto ma ora vieni, ti aiuto ad alzarti.”

Non feci nemmeno in tempo a passarti un braccio sotto le ascelle che eri svanito nel nulla e come nell'immaginazione anche nella realtà, già distrutto dal sogno, mi spintonarono via dal tuo letto medici e infermieri. Non capivo, non riuscivo a connettere. “Ha le convulsioni” diceva un infermiere. “Battito?” chiedeva un medico. C'era un casino infernale, qualcuno mi cacciò fuori e vidi solo la tua barella venire portata via dieci minuti dopo coperta da un lenzuolo bianco.
Bianco come la neve.
Bianco come le pareti spoglie di casa che soltanto quando sono solo ricordo siano così vuote, fredde, insignificanti.
Bianco come le tue magliette, tutte bianche le tue magliette.
Bianco come le bacchette che avevi comprato una settimana prima di finire in ospedale.
Bianco come i fogli di pentagramma non scritti.
Bianco come i miei plettri, bianco come le tue scarpe.
Bianco come il nostro primo tourbus e bianco come le lenzuola ancora calde, ora vuote, della tua branda.
Ora a chi darò il meglio di me? Ora a chi darai il tuo meglio tu?
 



 
  “Are you gone and onto someone new?
Is someone getting the best, the best, the best, the best of you?”





 
   
 
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