N/A Buon Natale, gente ^_^
Siete sommersi da panettoni lucine fiocchi canzoncine? Sì?
Ad allora eccovi pure una tartastoria di Natale!
Soli due
capitoli, universo 2k12 alcuni anni dopo, con spunti del film 2k7. Humor
risate ed allegria… seee, ed io sono Belen. Angst, drama e fluff. A bidonate!
Come mia
“letterina di auguri”, dedico questa storiella a tutti voi, autori e lettori di
EFP. La dedico a quella ragazza fantastica di Cartoonpeeker, cara duellante di
penna, ed a tutti gli amici vecchi e nuovi di questo piccolo grande fandom.
Tanti
auguri, di cuore, da LaraPink <3
La sfera di
metallo infranse una buona porzione del muro di cemento in un’esplosione di
minuscole particelle. Il ragazzo si fermò di colpo, indietreggiò rapido,
rischiando di scivolare sul marciapiede ghiacciato, colpito in pieno viso dai
detriti del muro; alcuni gli erano sicuramente entrati negli occhi. La sfera lo
aveva mancato di quanto, una decina di pollici? Il ragazzo poté sentire
chiaramente la paura adesso strisciare sotto il suo giubbotto, sotto la sua
camicia, sotto la sua stessa pelle.
Voltò
freneticamente gli occhi, per cercare di scorgere nell’ombra del vicolo la
forma che per un istante si era materializzata, nel bagliore di luce, riflesso
metallico del lampione, da cui era partita la catena. Il rumore martellante del
battito del suo cuore nelle orecchie era quasi assordante, il suo respiro si
condensava in ansimanti sbuffi; niente, nel buio del vicolo non vedeva niente,
non c’era nulla… eppure no, eccolo, un movimento veloce, troppo veloce: un
altro bagliore.
La catena
questa volta venne direttamente contro di lui. Contro le sue gambe. Però, adesso
l’angolazione era diversa, la letale sfera ferrea seguì un movimento a parabola
in modo che solo la catena arrivasse a colpire le gambe, abbastanza forte da
fargli un po’ male, certo, da farlo sbilanciare e cadere a terra; ma mentre il
ragazzo cercava di porre le mani in avanti per frenare il suo impatto col
suolo, il suo cervello, pur nell’asfissia del panico, fece in tempo a valutare
che se anche questo colpo fosse stato ben centrato come quello che aveva appena
sbriciolato il muro, delle sue amate gambe che lo avevano portato in giro per
quasi tredici anni adesso non sarebbe rimasta che una poltiglia.
Da terra,
alzò gli occhi e lo vide.
L’ombra uscì
dalle tenebre; la catena tintinnava nelle sue mani.
Il terrore
adesso avvinghiò completamente il ragazzo.
La figura
fece alcuni passi verso di lui, portandosi sotto la luce del lampione. Una
specie di armatura grigio-nera rivestiva la forma massiccia; protezioni di metallo
avvolgevano stinchi, avambracci ed articolazioni, cinghie corvine si
incrociavano in vita e sul petto, sopra una piccola cotta di maglia di ferro,
come a sorreggere una sorta di grande zaino di metallo sulla schiena. Una sottile
visiera a specchio, dalla vaga forma ad ala di gabbiano, brillava su di un
casco che come un elmo nascondeva completamente il volto della figura.
Le mani,
guantate di nero, avvolsero lentamente la catena; la sfera di metallo strisciò
sull’asfalto. Il ragazzo chiuse gli occhi, aspettando ormai l’inevitabile: il
prossimo lancio l’avrebbe centrato. Il cuore batteva talmente forte che forse, pensò,
sarebbe morto per questo, prima del colpo. Curioso che l’ultima cosa che
avrebbe visto sarebbero state quelle mani. Avevano i guanti solo tre dita?
“Lascia
stare mio fratello!”
Il ragazzo
aprì un occhio. Pensava che morire proprio questa notte, proprio la notte di
Natale, solo per aver rubato in un negozio, fosse già abbastanza brutto. Ma
quando vide suo fratello in piedi davanti a lui, che piazzato tra sé e la
figura in armatura brandiva il suo inutile coltellino, capì di essersi
sbagliato. C’era di peggio.
Con la forza
della disperazione, scattò in piedi, avvolgendo suo fratello di undici anni col
proprio corpo. Avrebbe voluto rimproverarlo, prenderlo a calci, perché doveva
solo scappare quando lui glielo aveva ordinato, doveva solo mettersi in salvo
quando quella specie di mostro si era materializzato davanti a loro, nel vicolo
sull’uscita posteriore del negozio di generi alimentari che avevano scassinato.
Invece fece in tempo solo a buttarlo a terra, coprendolo, con l’estremo ed
istintivo e probabilmente inutile tentativo di proteggerlo. Chinò la propria
testa su quella del fratello.
Un secondo
passò, poi due, poi cinque.
Il ragazzo
alzò la testa.
Il colpo non
arrivò mai. L’individuo in armatura li stava fissando. Poi, si voltò a guardare
il sacco con la refurtiva che giaceva abbandonato a pochi passi. Aperto,
riversava il suo contenuto sull’asfalto del vicolo: una lattina di conserve stava
ancora rotolando.
La figura
chinò leggermente la testa di lato, le sue spalle sembrarono abbassarsi, la sua
postura farsi più incerta; si passò una mano sull’elmo, lentamente, e fece un
passo indietro. Quindi, si voltò e scomparve nuovamente tra le ombre, rapido,
silenzioso come la notte stessa.
Il ragazzo
sentì il cuore nel petto rallentare un po’ la sua folle corsa. Incontrò lo
sguardo del fratellino sotto di sé. I primi fiocchi di neve toccarono il suolo.
Sul tetto,
in alto, le mani a tre dita sfilarono il casco.
L’aria
gelida della notte arrivò a ghiacciare il lieve velo di sudore che copriva la
pelle verde. Raffaello gettò il casco ai suoi piedi e si sedette, con il guscio
contro una torretta della compagnia telefonica. Alzò il viso al cielo, incurante
della neve, che si scioglieva subito al contatto con la sua faccia accaldata; anche
se il cielo non fosse stato coperto, inutile desiderare le stelle. Non che
gliene fregasse niente, delle stelle. Le lasciava a quel sognatore di Mikey ed
a quella testa fina di Donnie.
Si premette i palmi delle mani sugli occhi, ripensando ai due fratelli nel vicolo. Sentì
un senso di feroce impotenza stringergli lo stomaco. Due ragazzini, maledizione. Improvvisamente, ebbe voglia di tornare
a casa. Così, subito, con la ronda appena iniziata. Ebbe voglia di tornare,
solo per controllare Mikey e Donnie, per entrare di nascosto nelle loro camere
e guardarli dormire.
Accertarsi
che fossero ancora lì, almeno loro.
…
(Un anno
prima)
“È l’albero più bello che abbiamo mai fatto!”
Michelangelo fissò compiaciuto, con le mani sui
fianchi ed un sorriso soddisfatto, il grande abete addobbato.
“Lo dici ogni anno.” Donatello sorseggiava una
tazza di caffè, seduto sul divano. Accanto a lui, Raffaello con una mano cambiava
annoiato i canali della televisione, mentre con l’altra faceva esercizi con un
manubrio.
“Ma questa volta è davvero il più bello!”
Saltellando come un ragazzino, la tartaruga mutante più giovane tirò fuori
dalla sua cintura il T-phone ed iniziò a scattare alcune foto all’abete.
“Gli fai addirittura le foto?” Il viola corrugò la
fronte, divertito dall’infantile esuberanza del fratello. Diciotto anni
suonati, ma ancora bastava un albero di Natale a farlo eccitare come un
bambino. Donatello a volte invidiava questo suo aspetto, questa sua capacità di
sapersi sempre emozionare, nonostante tutto.
“Certo! Così le faremo vedere a Leo quando torna.”
Il mutante in arancio si bloccò, impensierito da ciò che aveva appena detto, abbassò
il viso, poi si voltò verso il divano e guardò un attimo i fratelli.
Tornò a fissare le foto nel telefono tra le sue mani,
allontanandosi dall’albero.
“È il primo Natale che non passiamo tutti insieme”
mormorò, con l’euforia di pochi secondi prima subito raffreddata. “Chissà che
cosa sta facendo…”
Donatello sentì l’alone di tristezza del fratello
minore colpirlo come la corrente di aria fredda di una porta che si apre; cercò
a sua volta gli occhi verdi di Raffaello, che alla menzione del fratello
lontano aveva perso ogni interesse alle sguaiate urla dello show in tv.
Il mutante in rosso cercò gli occhi nocciola e poi
quelli azzurri. Adesso, tra di loro, come tra tutti i fratelli, vi erano sempre
state due forme di comunicazione, diverse e complementari. Una era più
evidente, fatta di parole, dove si poteva dire o non dire, dove tutto era
sempre giocato sul filo della presa in giro, dell’ironia, che smorzava ogni
tono più grave, che frenava ogni forma di retorica. Vi era poi la comunicazione
meno appariscente, fatta di velocissimi scambi d’occhiate, di piccole
espressioni del viso, di semplice postura del corpo: questa non aveva limiti,
né filtri, non celava niente, era immediata e dolorosamente sincera.
Quando Michelangelo sbatté un paio di volte le
palpebre, Raffaello si alzò in piedi.
“Che cosa sta facendo? Tiene il suo guscio al caldo
mentre noi stiamo qui a congelare, ecco che cosa sta facendo. Altro che addestramento,
Sensei l’ha mandato a svernare come vacanza premio, questa è la verità! Maledizione,
Donnie, ma funziona bene l’impianto?” disse strofinandosi le mani per
enfatizzare le sue parole. In verità, non sentiva affatto freddo.
Gli occhi di Michelangelo si riaccesero del loro
consueto sorriso.
“Giusto! Da lui non fa freddo, vero Donnie?”
“No Mikey, in una delle ultime lettere ci ha detto
che la temperatura è mite, ricordi? Quella in cui ci ha raccontato dell’incidente
col serpente.”
Il mutante in arancione annuì rasserenato e tornò a
fotografare l’albero, canticchiando a bocca chiusa una melodia natalizia.
Raffaello si avvicinò di qualche passo. L’abete che
gli aveva portato April era alto e ben proporzionato, così lontano dagli
alberelli storti e rachitici che riuscivano a procurarsi da bambini. Le
decorazioni con cui lo avevano addobbato, o meglio, con cui lo aveva addobbato
praticamente solo Michelangelo, formavano una creativa ed originale accozzaglia
di forme, stili e colori che davano nel complesso un risultato allegro e
piacevole seppur nella sua dissonante confusione.
Il mutante con le lentiggini ripose un attimo il T-phone
per sistemare una pallina blu, spostandola da un ramo all’altro, e poi fece
nuovamente un passo indietro per verificare l’effetto finale, continuando a
mormorare la canzone natalizia.
I'll be home for Christmas.
Quando Michelangelo collegò la spina alla presa,
una miriade di luci fiorirono tra i rami. Raffaello incrociò le braccia,
fissando l’ipnotica alternanza luminosa.
Il primo Natale che non li vedeva tutti insieme.
La tartaruga mascherata di rosso sospirò piano
senza accorgersene. Leonardo era via da appena un paio di mesi, e già sembrava
una vita. La rabbia furiosa dei primi giorni, contro il fratello che era
partito di nascosto, senza salutare, e soprattutto contro Splinter che lo aveva
mandato in quell’assurda prova di allenamento, si era nelle settimane
condensata in una sorta di amaro malumore, che si nutriva della mancanza e del
senso sottile di tradimento.
In primavera, quando sarebbe tornato, per prima
cosa l’avrebbe preso a pugni. E poi gli avrebbe fatto promettere di non
lasciarli mai più.
…
Ma Leonardo non tornò né quella primavera, né nei
mesi successivi. Le lettere improvvisamente cessarono di arrivare.
Adesso, era il secondo Natale che suo fratello
mancava.
Aprendo la porta di casa, Raffaello si aspettava
caldo, silenzio e buio. Effettivamente, di caldo era caldo, grazie
all’efficiente impianto costruito da Donnie: il più ben climatizzato dei rifugi
che avevano avuto fino a quel momento, e sicuramente molto più caldo di quello
nella vecchia stazione della metropolitana che li aveva visti crescere.
Ma non era né silenzioso né del tutto buio, questa
notte. Nella sua postazione, in un'estremità dell’ambiente centrale, tra monitor e
strumentazione varia, Donatello era ancora a lavoro. Gli schermi accesi ed una
lampada da tavolo irradiavano la zona di una luce fredda e traballante,
lasciando in penombra il resto della sala. L’angolo dove l’anno scorso Michelangelo
aveva addobbato l’albero, quest’anno era buio e vuoto.
“Signore, ha controllato che la porta sia quella
corretta e corrisponda all'IP… Allora, provi a fare un ping all'indirizzo di
rete della stampante e veda se la raggiunge… Sì, signore, mi trova qui tutta la
notte, richiami quando vuole. Chieda di Donatello. Grazie signore, buona notte
e buon Natale.”
La tartaruga mascherata in viola si tolse le cuffie
e girò la sedia da ufficio per guardare il fratello che aveva sentito
rientrare.
“Sei già a casa? Non è neanche mezzanotte!” lo
apostrofò ironico aggrottando la fronte. Raffaello grugnì una risposta
incomprensibile senza neanche guardarlo, ed andò in cucina. Donatello si
strofinò stanco gli occhi arrossati ed allungò la mano verso la tazza
di caffè: sospirò, trascinò la tazza vuota e si alzò dalla sedia, recandosi
anche lui in cucina.
Raffaello gli voltava la schiena, rovistando nel
frigo. Donatello lo scansò e si avvicinò alla macchinetta per l’ennesimo caffè.
Versò l’acqua nel serbatoio, inserì il filtro di carta, vi mise dentro due
cucchiai di caffè macinato, richiuse il cassetto ed azionò la macchinetta, nei
soliti gesti che le grossa dita verdi ripetevano giorno dopo giorno da anni. Mentre
aspettava che il caldo liquido sgorgasse nel bricco, si voltò verso Raffaello,
che adesso seduto al tavolo addentava voracemente gli avanzi della cena e
beveva la birra direttamente dalla bottiglia. Raffaello continuava a non
guardarlo, e Donatello ormai, dopo tanti mesi, non aveva voglia di iniziare le
solite inutili discussioni.
Suo fratello non l’ascoltava, non l’aveva mai
ascoltato. Ma la colpa, lo sapeva, era anche propria: lui, che ancora si
chiedeva perché fosse stato nominato leader dal padre pur essendo sempre stato
considerato più giovane di Raph, in questo ruolo non era neanche lontanamente
paragonabile e Leonardo, e senza il fratello in blu la loro famiglia era solo
la pallida ombra dell’affiatato team che era stato negli anni passati. A che
valeva ripetere per la centesima volta il suo disappunto per il fatto che Raph uscisse da solo quasi tutte le notti, che
non apportasse il minimo contributo per far andare avanti la casa, che stesse
diventando sempre più scostante ed insopportabile, che bevesse troppe birre,
che non rispettasse gli ordini di Splinter?
Ormai, tutto era cambiato. La loro squadra non
esisteva più. Bisognava iniziare ad accettare che niente sarebbe stato più come
una volta. I tempi dei loro gloriosi scontri contro il Piede, i Dragoni
Purpurei ed i Kraang erano ormai finiti. Le loro pattuglie come difensori della
città erano ormai solo un ricordo.
Leonardo
se n’era andato. Ed a questo punto,
Donatello l’aveva razionalmente e dolorosamente capito, era molto
probabile che se ne fosse andato per sempre. Poiché non aveva
più fatto avere sue notizie le
spiegazioni più logiche alla fine si erano ridotte ad un paio.
Certo, vi erano
sempre una molteplicità di variabili che avrebbe potuto non
conoscere, ma analizzando
tutto sul piano delle probabilità statistiche, le motivazioni
più plausibili
erano sempre e soltanto due. La prima ipotesi, la meno verosimile,
poiché
avrebbe presupposto una mancanza di empatia nei confronti dei fratelli
poco
consona con il carattere di Leonardo, era che egli non avesse
più intenzione di
tornare: aveva trovato la sua strada, la sua libertà, aveva
iniziato una nuova
vita che non coinvolgeva più i suoi fratelli. Alla fine non
sarebbe stato del
tutto inconcepibile. Erano adulti, ormai. Va bene, l’avrebbe pure
potuto
perdonare, forse, un giorno… Ma era la seconda ipotesi, la
più attendibile, che
faceva male, soprattutto la notte.
Quella che suggeriva che Leonardo non potesse
tornare perché prigioniero, o morto.
Leo altrimenti non li avrebbe abbandonati, non li
avrebbe fatti stare in pensiero così. Leo sarebbe stato a casa con loro, per
Natale.
Versò il caffè nella sua tazza, e si sedette al
tavolo. Aveva bisogno di cinque minuti di pausa, prima di tornare a lavoro. Soffiò
contro il liquido aromatico, e ne bevve un piccolo sorso bollente.
Fu Raffaello a rompere l’imbarazzante silenzio.
“Lavori pure la notte di Natale?”
“Uh?” Donatello alzò gli occhi dal caffè, ed annuì
prima di prenderne un altro sorso, poi fece un sorriso stanco, svelando la
caratteristica fessura tra i denti. “Questa notte il servizio è pagato doppio.”
Il rosso annuì di rimando, bevendo la
birra. La sua espressione s’incupì. Come se la sua rabbia non avesse abbastanza
con cui saziarsi negli ultimi mesi, si era unito anche il senso di colpa quando
ricordava che i suoi fratelli minori avevano entrambi trovato un lavoro per
portare avanti la baracca, e comprare le medicine per Splinter.
“Sensei come sta?”
“Un po’ meglio. L’ho controllato poco fa. Ormai il
peggio è passato.”
Raffaello continuava a tenere gli occhi sul piatto,
mangiando. La voce burbera non riusciva a celare del tutto la preoccupazione. “Ha
ancora la febbre?”
Donatello sospirò, e si stiracchiò sullo sgabello.“Non
so. Dice di no.”
“Dice di no? E tu non hai controllato di persona?”ringhiò,
alzando gli occhi dal piatto.
“Raph, Splinter non è un bambino. Pretendi che
metta in discussione quello che mi dice?”
“No, ma pretendo che controlli se sta veramente
meglio! Ci ha tenuto nascosta la sua malattia per settimane!”
“Lo so! Non c’è bisogno che tu mi dica cosa fare.”Sbatté
la tazza sul tavolo un po’ troppo forte, ed alcune gocce scure saltarono sulla
superficie.
“Certo, sei tu quello che deve dirci cosa fare”
bofonchiò il rosso con lo sguardo perso nella bottiglia che teneva in mano, stringendola
troppo forte.
“Ancora con questa storia, Raph? Finiscila.”
Raffaello si alzò strisciando la sedia.
“Guarda, meglio se me ne vado a letto. Buonanotte.”
Donatello si passò una mano sul viso. “Sì, Raph.
Buonanotte” mormorò piano quando il fratello era già uscito dalla cucina.
Non riusciva a ricordare quando era stata l’ultima
volta che aveva parlato con lui senza essersi scontrato. Scosse la testa, avvolse
la tazza calda con entrambe le mani e bevve un altro sorso. Ancora un minuto, e
poi sarebbe tornato a lavoro. Anche se aveva una gran voglia di buttare tutto
in aria, di mandare tutto al diavolo. Ogni cosa nella sua vita sembrava andare per
il verso storto, negli ultimi tempi. Il lavoro frustrante. April lontana. Raph
che gli stava sui nervi. Mikey che col suo lavoro da pagliaccio gli portava più
preoccupazione che altro, con quel suo andarsene tra gli umani in pieno giorno.
E per finire, ultimamente, lui stesso non riusciva a trovare a volte il tempo e
la concentrazione per allenarsi: non toccava il suo bo da quanto, stavolta, tre
giorni? Sì, tutto stava andando a rotoli da parecchi mesi. Anzi da più di un
anno.
Da quando se n’era andato Leo.
Di malavoglia, si alzò lentamente e tornò a lavoro.
Poggiò nuovamente la tazza sul piano, tra decine di cerchi marroni sui fogli di
carta, si rimise le cuffie, riallacciò la linea. Rispose ad un’altra
telefonata, sforzandosi di mantenere la voce allegra e cordiale. Intanto,
sentiva Raffaello uscire dal bagno, aprire delle porte della zona notte e
richiuderle, passare nuovamente nell’ambiente centrale, poi ancora nelle
stanze. I suoi passi concitati lo distrassero e dovette scusarsi col cliente e
farsi ripetere il problema. Alla fine, la tartaruga mascherata in rosso si
piazzò accanto a lui, e Donatello, continuando a parlare, alzò un dito
facendogli segno di non essere disturbato.
Per tutta risposta Raffaello allungò una mano e gli
chiuse la telefonata.
Il mutante in viola si voltò verso di lui,
inviperito.
“Ma che cavolo fai?” gli urlò in faccia. Vedeva
rosso. Va bene essere strafottenti, ma arrivare ad interferire col suo lavoro!
Avrebbe dovuto richiamare lui il cliente, e scusarsi e…
“Dov’è Mikey?”
Donatello sbatté le palpebre. “Cosa?”
“Mikey. Non è a casa. Dov’è?”
Il viola si alzò in piedi, guardò inebetito verso le
camere da letto e poi gli occhi verdi che lo fissavano fiammeggianti.
“Ma… non è a letto?”
“Mi senti? Ho detto che non è a casa! Dove diavolo
è?”
“Non lo so, Raph, non so!” Fece due passi verso le
camere, poi si fermò e tornò alla postazione di lavoro, prese il T-phone
poggiato sul piano tra la confusione di libri e fogli. “Adesso lo chiamo.
Credevo fosse in camera sua…”mormorò iniziando a selezionare il nome sullo
schermo. Perché era uscito senza avvisarlo? Doveva essere sgattaiolato fuori
mentre lui parlava al telefono. Ma perché? Dov’era andato?
Mentre aspettava la risposta, non era preoccupato,
no, ancora no. Stava solo telefonando a suo fratello per sapere dove fosse e
raccomandargli di non rientrare troppo tardi. A voler analizzare bene, avrebbe
potuto avvertire al massimo solo un leggero senso di, diciamo, preallarme. Al
segnale di mancanza di linea, un piccolo campanello iniziò a risuonare nella
testa. Certo, Mikey era un adulto, un forte mutante ed un ninja esperto. Ma
perché il telefono non prendeva?
Quando impostò sullo schermo la funzione per
rintracciare la sua posizione, mentre Raph in piedi accanto a lui lo incalzava in
silenzio, e scoprì che il T-phone del fratello minore non solo non prendeva ma
era come se fosse scomparso dalla faccia della terra, adesso sì che si sarebbe
potuto definire allarmato.
Dov’era Mikey?
…
I fiocchi di neve scendevano ondeggiando piano. Se
sulla pelle non avessero dato l’impressione di essere piccole spine di
ghiaccio, sarebbero anche stati belli. Così come le luci di quella luminaria lontana
laggiù, che si accendevano e spegnevano, accendevano e spegnevano.
Dai,
tentiamo ancora.
Poggiò le mano tremanti per terra, accanto alle sue
gambe. I palmi scivolavano sul terreno ghiacciato, ricoperto di liquido caldo.
Prese un profondo respiro. L’aria gelata graffiava
il palato. Strinse gli occhi, ed i denti.
Fece forza sulle mani, e sulla gamba sinistra.
Il bacino si alzò da terra appena un paio di
pollici. La carne lacerata stridette contro il ferro.
Urlò di dolore; pregò che nessuno l’avesse sentito.
Ma non vi era nessuno, nella fredda notte intorno a lui. Era solo.
Gettò la testa all’indietro, ansimando e sibilando
tra i denti, con la mascella stretta fino a scricchiolare, in attesa che lo
strazio si placasse almeno un po’ adesso che era tornato immobile, sdraiato sul
gelo. Due lacrime sfuggirono dagli occhi stretti, scivolando sul tessuto
ghiacciato della maschera, e scorsero calde sulla pelle lentigginosa del viso
congestionato.
La neve cadeva letale e meravigliosa, nella notte
di Natale.