Se•sto
sen•so [Il
sesto senso è ciò che ci permette di percepire e
anticipare che qualcosa sta per accadere, e di conseguenza essere
pronti per
reagire in modo adeguato.]
Marco’s
POV
Michael.
Quella mattina mi svegliai,
in un posto che non era casa mia, in un letto che non era il mio e con
un nome
che mi risuonava in testa, un nome al quale fingevo di non pensare da
tempo ma
che, in realtà, mi accompagnava costantemente giorno e notte.
Negli ultimi tempi avevo
sempre cercato di arginare il pensiero, ma quella volta si
presentò di
prepotenza dentro il mio cervello e non ci fu verso di mandarlo via.
Perché
doveva tornare a tormentarmi? La mia vita stava andando avanti alla
perfezione
senza di lui.
Stavo lavorando al mio nuovo
album, vivevo tra casa e studio, scrivevo canzoni su canzoni e
finalmente avevo
recuperato il mio rapporto con Marta. Infatti la casa in cui mi ero
svegliato
era proprio la sua, e il letto era una brandina che lei aveva messo
nella sua
stanza per le volte in cui, come la sera precedente, lavoravamo fino a
tarda
notte e io non avevo le forze per tornare a casa mia. Birra, sigarette
e risate
erano le nostre più fidate compagne di lavoro oltre,
chiaramente, alla mia
ispirazione.
Quindi tutto andava alla
perfezione, no?
Già. Alla perfezione.
Oh, ma a chi volevo darla a
bere? Pensavo a lui tutti i giorni, ogni volta che avevo voglia di
raccontargli
qualcosa, o che mi veniva in mente un particolare della nostra storia
che mi
andava di ricordare con una risata, o quando semplicemente avevo voglia
di
baciarlo. Normale che tutti i miei testi, non ancora pronti e a mio
parere non
particolarmente riusciti, fossero ancora intrisi di quella melanconica
nostalgia che mi portavo dietro da mesi ormai.
Perché, per quanto ci
provassi, non riuscivo a dimenticarlo.
Non pronunciavo mai il suo
nome, né ad alta voce né tra i miei pensieri,
eppure era sempre, costantemente
lì, mi perseguitava. Nelle mie canzoni, a volte fingevo che
avesse scelto di
amarmi, a volte mi abbandonavo alla cruda realtà, altre
volte immaginavo cosa
sarebbe potuto accadere se… Se.
Avevo scoperto che era
tornato in Italia, per ben due volte, era stato perfino ospite in un
programma
televisivo. Ovviamente tutto questo lo avevo scoperto soltanto quando
lui se
n’era già andato. Marta era molto attenta al tipo
di informazioni da far
trapelare, nel vano tentativo di non turbarmi durante la mia fase
“creativa”.
Ma non era colpa di Marta,
assolutamente. Era colpa sua.
Torna
per amarmi o non
tornare affatto,
gli avevo detto. Come prevedibile, era tornato, ma senza amarmi. Senza
neanche avvisarmi che sarebbe venuto. Per fortuna ero completamente
immerso nel
lavoro, altrimenti chissà, magari mi sarebbe saltato il
grillo di andarlo a
trovare, cosa del tutto sbagliata e impensabile. Se avesse voluto
vedermi,
sarebbe venuto da me, no?
Ma
perché proprio oggi mi ero messo a rimuginare sulla nostra
storia? Non ce n’era
motivo.
Scrollai
le spalle, mi alzai dal letto e mi recai nella cucina di casa
Donà, dove sapevo
che Marta mi avrebbe preparato non una sana e nutriente colazione,
bensì
quantità industriali di caffè.
Era
seduta sul divano e, quando mi vide arrivare, si voltò e mi
fece un sorriso.
Neanche a dirlo, aveva un thermos di caffè in mano.
«A
qualcuno piace dormire» mi prese in giro, indicando
l’orologio. Erano le nove e
mezza passate, quindi era tardissimo per i suoi standard.
«A
qualcuno piace iniettarsi la caffeina per endovena» le
risposi a tono,
facendola ridacchiare.
«Forza
pigrone, bevi e mettiamoci al lavoro» disse, riempiendomi la
tazzina del
thermos e porgendomela. «Ancora non mi convince del tutto la
canzone che mi hai
fatto ascoltare ieri.»
La
raggiunsi e mi sedetti accanto a lei. «Non ti
piace?»
Ci
pensò su. «Non è che non mi piaccia,
anzi è molto bella, solo che dobbiamo fare
degli aggiustamenti. Quel “lotto per amore” non mi
convince, troppo sdolcinato:
dici che sei un guerriero, dovresti lottare per…»
«Onore?»
completai io, proponendo quella nuova parola in sostituzione di
“amore”, troppo
melensa ai suoi occhi.
Asserì,
soddisfatta. «Lotto per onore,
lotterò
per questo, mi piace!»
Così
bevvi una sorsata di caffè e presi il foglio con su scritto
il testo, per
modificarlo.
«Io
vado a farmi un espresso, tu intanto lavoraci su» fece lei,
alzandosi dal
divano. Il mio caffè normale, per lei, era “roba
da femminucce”. Comprensibile
che fosse sempre un po’ schizzata, vista la
quantità giornaliera di caffeina
che ingurgitava.
Quando
si diresse in cucina e scomparve alla mia vista, però, notai
che aveva
distrattamente lasciato sul divano il suo cellulare.
Ops.
Che disdetta.
Va
bene, un uomo adulto dovrebbe avere di meglio da fare che spiare i
messaggi sul
telefono della propria amica. Ma non potevo farci niente, mi piaceva
troppo
leggerli: Marta riusciva a mandare al diavolo le persone come nessun
altro e,
al contempo, a scrivere le più zuccherose smancerie quando
si trattava del suo
ragazzo. Era uno spasso unico. E poi, la mania di spiare i suoi
messaggi era
stata una delle prima cose imbarazzanti che avevo detto di me a
Mich…
No,
non ci dovevo pensare, non lo dovevo nominare.
Perché
proprio quel giorno mi ero fissato con lui? Basta.
Nel
tentativo di distrarmi, presi il telefono di Marta, digitai il codice
d’accesso
(che conoscevo a memoria, ma lei non lo sapeva) e mi immersi nelle
conversazioni
con il suo fidanzatino, una roba piena di cuori e nomignoli affettuosi
che mi
facevano venire le carie ai denti. E poi era il mio “lotto
per amore” a essere
troppo sdolcinato? Ridicola.
Poi
passai a una conversazione più recente con un organizzatore
di eventi che
richiedeva la mia presenza in un locale e bla bla bla. Questioni
tecniche e di
marketing, che noia.
Così
andai ancora oltre.
C’era
un numero che non era segnato in rubrica e l’ultimo messaggio
inviato diceva
semplicemente Please.
Non
sapevo perché ma questa cosa mi mise tanta
curiosità. Appena sotto c’erano i
messaggi della mamma di Marta e immaginai che una corrispondenza tra
una signora
di mezza età che non sa usare il T9 e una figlia che va
sempre di fretta fosse
più divertente.
Eppure
fu su quel Please che posai il dito.
Era
come se una parte di me mi dicesse che in quella semplice parola avrei
trovato
qualcosa di più di quanto mi aspettassi. Qualcosa mi impose di leggere.
Feci
scorrere i messaggi finché non giunsi al primo che quel
numero misterioso le
aveva inviato.
E
mi si gelò il sangue nelle vene.
>Marta,
sono Mika. Io
ha bisogno de te. Tu ha per caso il numero di Marco?
Il
messaggio risaliva al sette di gennaio, il giorno prima che tornasse in
Italia
per la prima volta.
Non
aveva senso. Perché Michael chiedeva a Marta se aveva il mio
numero? Perché
l’aveva contattata? E perché io non ne avevo mai
saputo niente?
Lo
sapevo che dovevo leggere quella conversazione, me lo sentivo.
Marta
aveva risposto.
>Sì, ce l’ho. Che
vuoi?
>Tu puoi dare suo numero a me?
>No.
>Marta, please, io ho dovuto cancellare
perché aveva paura che Andy scopriva messaggi e telefono
numero.
Strinsi
i denti. Anche io avevo cancellato il suo, solo per tentare di
dimenticarlo più
in fretta. Certo, infatti aveva funzionato così bene.
>E quindi? Adesso perché lo
rivuoi?
>Io domani torno in Italia, deva
parlare con
lui.
Uno
stacco. I messaggi ripartivano dal giorno dopo, sempre da lui.
>Ciao Marta, io sono ancora Mika. Io
è qui in
Milano adesso, io deva parlare con Marco. Dai il numero a me?
>Lui non vuole che io te lo dia.
>Perché?
>Perché non ti vuole
né vedere né sentire,
perché non gli va di essere un pupazzo che tu possa scoparti
e abbandonare a
tuo piacimento.
>Ok, io no sa cosa pupazo significa, ma
io no
vuole scopare e abbandonare lui.
>L’hai già fatto.
>Ora è in sua casa? Io ho
bisogna di parlare
con Marco.
>No. Adesso è a casa mia.
Sta dormendo e non
voglio disturbarlo.
E
qui la conversazione finiva. Ma ecco un altro messaggio risalente, e
qui mi
balzò il cuore in gola, all’altro ieri. Lessi, con
le mani che mi tremavano e
il respiro mozzo.
>Ciao, io ancora Mika. Io è
in Italia con la
mia family. Please, io ha di parlare con Marco.
>Impara l’italiano e dopo
scrivimi, grazie.
>Io no riesco a mangia e a dorme se io
no gli
parla. Ti please.
>E perché dovrebbe
importarmi?
>No voglio dividere voi due, so che ora
state
insieme e se Marco è felice, io è felice.
Però gli deva parlare.
>Di cosa? Di come tu e il tuo fidanzato
siete
carini insieme? No, grazie.
>Io gli deva dire delle cose. Marta,
please,
fai che noi parla. Dai il suo numero me!
>Ciao, Mika. Stammi bene.
>Please.
E
con questo era finita la conversazione.
Sentii
un urlo: «Marco, che stai facendo?»
Marta
era tornata, e mi aveva beccato con il suo cellulare, le dita tremanti,
gli
occhi pieni di lacrime e mi stavo mordendo le labbra talmente forte che
temetti
di essermele spolpate. Non che la cosa mi importasse.
Lei
mi raggiunse e mi strappò il cellulare di mano.
Quando
posò i suoi occhi sullo schermo, però, la sua
espressione mutò, passando dalla
rabbia allo sgomento e poi ancora cambiò, divenendo
colpevolezza.
Sospirò
scuotendo la testa. «Marco, lasciami spiegare.»
«Gli
avevo detto di tornare solo se avesse voluto amarmi» le
confessai, riuscendo a
malapena a parlare. «Michael era tornato, mi voleva vedere e
tu lo hai
allontanato.»
Nella
mia mente risuonavano le sue parole. Aveva usato parole come
“bisogno” e
“devo”, come se l’urgenza di vedermi
fosse diventata soffocante. Non riesco a
mangiare e a dormire se non gli
parlo, aveva scritto. Mi si strinse il cuore al solo pensiero.
«L’ho
fatto per il bene di entrambi. Tu stai bene qui e lui e il suo
fidanzatino
staranno bene ovunque siano» commentò.
«Dovresti solo ringraziarmi.»
Non
ci vidi più.
Mi
alzai di scatto dal divano e mi parai di fronte a lei, la affrontai.
Marta
arretrò di qualche passo, spaventata dall’impeto
dei miei movimenti.
«Gli
hai fatto credere che io e te stiamo insieme» alzai la voce.
«Non glielo hai
detto, certo, ma glielo hai lasciato intendere piuttosto
bene.»
«Dovevo
allontanarlo in qualche modo, no?» la sua voce era
più incerta, stavolta non si
limitava a spiegare, ma stava cercando di convincermi della
bontà delle sue
azioni. «Era diventato opprimente, con tutti quei messaggi,
le chiamate…»
Dentro
di me scattò qualcosa, come una molla troppo a lungo
trattenuta, e divenni una
furia. La presi per le spalle e le urlai in faccia: «Michael
ti ha chiamato e
tu non mi hai detto niente?»
«Marco,
lasciami!» era quasi spaventata.
Feci
come aveva detto, vergognandomi di me stesso. Marta non aveva scuse per
ciò che
aveva fatto, ma metterle paura non era certo una soluzione, avevo
sbagliato.
Ma
Michael mi amava ancora, mi cercava disperatamente da mesi e Marta mi
aveva
privato di quell’unica speranza alla quale, per paura, non
ero mai riuscito ad
aggrapparmi del tutto: il pensiero che lui potesse provare ancora
qualcosa per
me. Non era possibile in alcun modo, questo mi ero sempre detto, che
lui
pensasse ancora a me, pur avendo Andy e la sua famiglia accanto. Ma i
fatti mi
avevano smentito.
Non
potevo certo starmene con le mani in mano.
Fu
come un lampo.
Mi
sentii percorrere da un brivido di pura adrenalina.
Afferrai
la giacca e aprii la porta, senza neanche pensarci su neanche per un
secondo.
«Marco,
che stai facendo?» fece Marta. Non le rivolsi neanche uno
sguardo.
«Vado
a cercarlo.»
Fece
una risatina di scherno. «E cosa vuoi fare, setacciare tutta
Milano? Non
riuscirai mai a trovarlo prima che se ne sia andato.»
«Non
ce ne sarà bisogno» feci, laconico.
Sapevo
esattamente dove trovarlo. Quella catena che teneva ancorati i nostri
cuori
vibrava e mi avrebbe condotto dritto a lui. Me lo sentivo nelle ossa.
In
me era rinata una luce di speranza.
Avevo
appena messo un piede fuori dall’uscio, quando mi sentii
strattonare.
«Marco,
aspetta.»
Quando
mi girai, vidi Marta con gli occhi colmi di contrizione e inquietudine,
due
emozioni che non mostrava volentieri. Avevo fretta, sì, ma
pensai che, se non
altro, dovevo sentire cosa avesse da dire in sua discolpa.
«Non
ho mai voluto farti del male, lo sai che l’ho fatto solo per
proteggerti. Tu lo
sai che l’ho fatto solo perché ti voglio
bene.»
Era
talmente sincera mentre lo diceva che non riuscii a trattenere un moto
di
tenerezza per la mia cara amica. Oh, al diavolo. Perché
dovevo volerle così
maledettamente bene anch’io? Le schioccai un bacio sulla
fronte, per farle
capire che nonostante tutto l’avrei perdonata. Tra tutte le
persone che mi
avevano fatto del male, lei era l’unica che l’aveva
fatto con le migliori intenzioni.
Quasi mi dispiacque non avercela con lei. Forse, la speranza aveva
cancellato
in me anche la rabbia.
«Lo
so, Marta. Ora scusami, ma vado a recuperare la mia vita.»
Mentre
correvo per le strade, e sapevo esattamente dove andare a pescarlo,
sentii
qualcosa di strano nel petto.
Una
sensazione indefinibile che mi guidava verso di lui, che mi stava
liberando di
tutte le catene con le quali avevo tenuto imprigionato il mio cuore per
tutto
quel tempo. Già immaginavo il sollievo sul suo volto quando
gli avrei detto che
Marta aveva mentito, che io e lei non stavamo insieme, che non
l’avevo
dimenticato e che non l’avrei mai fatto. Stavo gettando al
vento tutti quei
mesi di sofferenza in cui avevo cercato di convincermi che la nostra
storia mi
aveva portato solo guai. Adesso volevo solo lui.
Avevo
un tale bisogno di lui che faceva quasi male.
Io
stavo male, e stava male anche lui. Per un attimo, fui così
folle da
convincermi che il mio malessere dipendesse dal fatto che anche lui era
stato
male in tutti quei mesi, neanche fossimo indissolubilmente
vincolati da
un legame, anche a distanza.
Mi
arrestai, finalmente ero arrivato dove dovevo arrivare.
Un
vicoletto quasi deserto di Milano, zeppo di dolci ricordi. Io correvo
anche
quella volta, ma allora Michael mi inseguiva. Io lo avevo insultato e
lui, per
tutta risposta, mi aveva rubato un bacio. Il nostro primo bacio.
L’inizio della
nostra folle storia d’amore.
Se
lo conoscevo come pensavo, l’avrei trovato lì.
Amava qualunque cosa avesse per
lui un significato importante, che fosse doloroso o meno. E io
desideravo con
tutto il cuore di essere una di quelle cose importanti.
Giunto
in quel vicolo, iniziai a guardarmi intorno. Non lo vidi subito, ma non
mi
rassegnai. Poco più avanti scorsi una bottega, un deliziosi
bistrot con i
tavolini sul marciapiede. Osservai con attenzione, volto per volto,
finché non
lo trovai.
È
lui.
Mi
si bloccò il respiro.
Era
seduto a uno dei tavoli.
Vidi
la sua testa riccioluta.
La
sua altezza inconfondibile.
Il
suo sorriso tutto denti e fossette.
Un
paio di enormi occhiali da sole con cui copriva i suoi meravigliosi
occhi.
E
un ragazzo alto e dinoccolato seduto al tavolo con lui. Un ragazzo che
non era
Andy.
No,
non poteva essere. Sgranai gli occhi.
Quello
era il nostro posto, il luogo del nostro primo bacio. Il luogo in cui
lo avevo
assaggiato per la prima volta. Non poteva aver già trovato
un altro da portare
lì. Il ragazzo ridacchiava a ogni parola che usciva dalla
bocca di Michael e lo
guardava incantato.
Qualcosa
dentro di me si ruppe, dilaniato dal dubbio e dall’amarezza.
Mi sentii preso in
giro: ero venuto lì, con il cuore gonfio di speranza,
già fantasticando sul
momento in cui tutto sarebbe tornato a posto tra di noi, e Michael? Era
talmente
felice con quel ragazzo, e forse io ero il più egoista degli
innamorati se la
sua gioia mi fece tanto male, se paragonata al mio sconforto. Pensavo
davvero
che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi tutta la vita senza
cercare altri? Perché dovrebbe
volere me?
Non
ci pensai un secondo di più.
Mi
voltai e corsi via, il viso già prontamente rigato di
lacrime che versavo
sempre, immancabilmente per colpa sua.
Ma
non feci che pochi passi prima di andarmi a scontrare con una persona.
Aprii
gli occhi e cercai di metterla a fuoco. Era una donna, molto
particolare: viso
raffinato, occhi azzurri e un adorabile cappottino rosso che esaltava
la sua
figura esile. Mi scrutò per qualche secondo.
«Marco
Mengoni?» chiese, con un accento che non riuscii a
identificare.
Annuii.
«Sorry»
farfugliai. «No time for autografi, sorry.»
Lei
però mi afferrò una mano, non senza una certa
invadenza, e mi trattenne dalla
mia fuga.
«Why
are you crying?» mi chiese. Perché
stai piangendo?
Oh,
per favore.
Odiavo
quando le fan diventavano troppo ficcanaso. Se erano straniere ancora
peggio,
visto che con l’inglese avevo qualche difficoltà e
dire loro di lasciarmi in
pace risultava ancora più difficile. «Nothing.»
Lei
guardò oltre, al bistrot con i tavolini. Per un attimo,
tirai un sospiro di
sollievo: se avesse visto e riconosciuto il grande e splendido Mika
avrebbe di
sicuro preferito andare da lui, invece che restare qui a tormentare me.
Invece
spostò di nuovo lo sguardo su di me, parve anche divertita.
Sfacciata,
mi asciugò una lacrima dal volto, con una gentilezza che mi
bloccò dallo
scostare in malo modo la sua mano. «Oh,
I
know. You cry for love.»
Sgranai
gli occhi. Ero davvero così trasparente? Come aveva fatto a
capire che piangevo
per amore?
Il suo divertimento non era denigratorio, anzi, era quasi materno.
Sembrava
rincuorata dalla mia sofferenza, per quanto quel pensiero fosse strano.
Era
ammiccante, il suo sorriso divenne più ampio. «You have to
love him very much if you’re
crying for him.»
Devi
amarlo proprio tanto
se piangi per lui.
Perché
parlava di un lui? Chi si credeva di essere per supporre che il mio
amore fosse
un lui senza nemmeno conoscermi? Benché non fosse che una
semplice
supposizione, in quel momento mi parve un affronto.
Feci
per allontanarmi, ma lei scoppiò in una risata argentina che
mi confuse ancora
di più.
«Come here! Nice to meet you, Marco»
mi
porse la mano e, benché non avessi la più pallida
idea di cosa avesse detto,
gliela strinsi. «My name is Yasmine.»
Yasmine?
Come Yasmine Penniman?
Mi
raggelai di botto. Non poteva essere la sorella, vero?
Non
poteva essere la stessa persona che aveva detto a Michael di lasciarmi,
minacciandolo di dire tutto al suo fidanzato se non l’avesse
fatto. Lei non
sarebbe mai stata così gentile con me.
No,
mi convinsi che non poteva essere quella
Yasmine.
Indicò
il tavolino. «And those are my
brothers. Mika, you know him, and
Fortuné.»
Oh,
no.
Era sua sorella.
E
il ragazzo seduto insieme a Michael era suo fratello.
Mi
voltai verso di loro e soltanto allora notai quanto in
realtà si somigliassero:
il fisico magro eppure imponente, i capelli scuri e riccioluti e
l’amabile,
inconfondibile sorriso dei Penniman. Erano praticamente identici.
Quanto ero
stato cieco, come avevo fatto a non capirlo subito?
Sentii
pian piano la gelosia abbandonarmi (perché di gelosia si era
trattato), anche
se qualcosa dentro di me rimase spezzato. Per un attimo era tornato il
terrore,
quella cupa certezza che Michael fosse troppo per me, che presto
avrebbe
trovato un altro amante che fosse alla sua altezza e che mi avrebbe
abbandonato
come aveva già fatto in passato.
Ero
sempre stato convinto di non essere abbastanza.
Soltanto
in quel momento fui capace di vedermi da fuori: un patetico ragazzo che
non
riesce a rassegnarsi di fronte all’evidenza dei fatti. Ero
corso qui
aggrappandomi all’illusione che tutto sarebbe andato per il
verso giusto, ma mi
sbagliavo. Era e sarebbe stato comunque più felice senza di
me di quanto lo
fosse stato con me.
Cosa
avevo io da dargli? Cosa potevo offrirgli che già non
avesse? L’amore,
l’affetto, il calore, le risate e la felicità:
erano tutte cose che possedeva
già in abbondanza.
Io
potevo causargli solo altro dolore.
Forse,
il meglio che potessi fare era sparire.
Yasmine
colse i miei dubbi. Non aprì bocca, eppure seppi che aveva
capito tutto. Nei
suoi occhi color ghiaccio scorsi la stessa affettuosa
caparbietà di Marta, lo
stesso spirito di una persona che crede di sapere cosa è
meglio per te, a
ragione o no.
Infatti
fece un cenno verso i due fratelli, salutandoli.
Fortuné
la salutò calorosamente, e Michael cominciò a
fare altrettanto.
Ma
non vidi nient’altro.
Perché
ero un dannato idiota che ostinatamente si fidava delle sensazioni e
dell’istinto, più che della logica.
Perché ero un maledetto codardo che aveva
paura di essere rifiutato ancora una volta. Perché non ne
avevo mai combinata
una giusta.
Perché,
nonostante tutto, sentivo che il mio posto era tra le sue braccia.
Ma
il suo posto era tra le mie?
Pertanto,
feci la cosa più stupida, insensata, irrazionale che potessi
fare.
Scappai.
La soffitta
dell’autrice:
BUON NATALE!!!
Non uccidetemi.
Questo doveva
essere l’ultimo
capitolo, ma stava venendo fuori troppo lungo, così ho
dovuto dividerlo in due
parti. Spero che la seconda arrivi al più presto.
Passate un
Natale felice
(ringrazio comeunangeloallinferno94 come al solito, cosa farei senza di
lei?) e…
a prestissimo!
Ah, e comunque è vero che inizialmente il "Lotto per amore" di Guerriero doveva essere un "Lotto per onore". Tanti biscotti a tutti quanti ♥