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Autore: _Even    25/12/2014    4 recensioni
[Coppia: Mirco]
Marco e Mika. Il loro amore raccontato pezzo per pezzo.
Una raccolta che riguarda i momenti più importanti della loro storia. Filo conduttore: i sensi che, al contrario di ciò che si pensa, sono più di cinque.
«Perché noi eravamo questo. Vivevamo di piccoli istanti e brevi momenti che parevano senza senso, tanto erano piccoli e apparentemente senza importanza. Eppure per noi ce l'avevano, un senso. Noi eravamo in quello sguardo d'intesa, in quella parola detta sottovoce ed eravamo in quell'aroma di caffè. Eravamo nel dolore più intenso, nel profumo più forte e nella caduta che ci ha colti di sorpresa. Eravamo nelle notti statiche, il gelo nelle mani e il calore sulle guance. Eravamo noi in ogni cosa, eravamo vita. Eravamo amore.
E questo non ha mai avuto senso per nessuno. Per nessuno tranne che per noi.»
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sesto senso [Il sesto senso è ciò che ci permette di percepire e anticipare che qualcosa sta per accadere, e di conseguenza essere pronti per reagire in modo adeguato.]

 
Marco’s POV

 Three months later…

 
Michael.
Quella mattina mi svegliai, in un posto che non era casa mia, in un letto che non era il mio e con un nome che mi risuonava in testa, un nome al quale fingevo di non pensare da tempo ma che, in realtà, mi accompagnava costantemente giorno e notte.
Negli ultimi tempi avevo sempre cercato di arginare il pensiero, ma quella volta si presentò di prepotenza dentro il mio cervello e non ci fu verso di mandarlo via. Perché doveva tornare a tormentarmi? La mia vita stava andando avanti alla perfezione senza di lui.
Stavo lavorando al mio nuovo album, vivevo tra casa e studio, scrivevo canzoni su canzoni e finalmente avevo recuperato il mio rapporto con Marta. Infatti la casa in cui mi ero svegliato era proprio la sua, e il letto era una brandina che lei aveva messo nella sua stanza per le volte in cui, come la sera precedente, lavoravamo fino a tarda notte e io non avevo le forze per tornare a casa mia. Birra, sigarette e risate erano le nostre più fidate compagne di lavoro oltre, chiaramente, alla mia ispirazione.
Quindi tutto andava alla perfezione, no?
Già. Alla perfezione.
Oh, ma a chi volevo darla a bere? Pensavo a lui tutti i giorni, ogni volta che avevo voglia di raccontargli qualcosa, o che mi veniva in mente un particolare della nostra storia che mi andava di ricordare con una risata, o quando semplicemente avevo voglia di baciarlo. Normale che tutti i miei testi, non ancora pronti e a mio parere non particolarmente riusciti, fossero ancora intrisi di quella melanconica nostalgia che mi portavo dietro da mesi ormai.
Perché, per quanto ci provassi, non riuscivo a dimenticarlo.
Non pronunciavo mai il suo nome, né ad alta voce né tra i miei pensieri, eppure era sempre, costantemente lì, mi perseguitava. Nelle mie canzoni, a volte fingevo che avesse scelto di amarmi, a volte mi abbandonavo alla cruda realtà, altre volte immaginavo cosa sarebbe potuto accadere se… Se.
Avevo scoperto che era tornato in Italia, per ben due volte, era stato perfino ospite in un programma televisivo. Ovviamente tutto questo lo avevo scoperto soltanto quando lui se n’era già andato. Marta era molto attenta al tipo di informazioni da far trapelare, nel vano tentativo di non turbarmi durante la mia fase “creativa”.
Ma non era colpa di Marta, assolutamente. Era colpa sua.

Torna per amarmi o non tornare affatto, gli avevo detto. Come prevedibile, era tornato, ma senza amarmi. Senza neanche avvisarmi che sarebbe venuto. Per fortuna ero completamente immerso nel lavoro, altrimenti chissà, magari mi sarebbe saltato il grillo di andarlo a trovare, cosa del tutto sbagliata e impensabile. Se avesse voluto vedermi, sarebbe venuto da me, no? 
Ma perché proprio oggi mi ero messo a rimuginare sulla nostra storia? Non ce n’era motivo.
Scrollai le spalle, mi alzai dal letto e mi recai nella cucina di casa Donà, dove sapevo che Marta mi avrebbe preparato non una sana e nutriente colazione, bensì quantità industriali di caffè.
Era seduta sul divano e, quando mi vide arrivare, si voltò e mi fece un sorriso. Neanche a dirlo, aveva un thermos di caffè in mano.
«A qualcuno piace dormire» mi prese in giro, indicando l’orologio. Erano le nove e mezza passate, quindi era tardissimo per i suoi standard.
«A qualcuno piace iniettarsi la caffeina per endovena» le risposi a tono, facendola ridacchiare.
«Forza pigrone, bevi e mettiamoci al lavoro» disse, riempiendomi la tazzina del thermos e porgendomela. «Ancora non mi convince del tutto la canzone che mi hai fatto ascoltare ieri.»
La raggiunsi e mi sedetti accanto a lei. «Non ti piace?»
Ci pensò su. «Non è che non mi piaccia, anzi è molto bella, solo che dobbiamo fare degli aggiustamenti. Quel “lotto per amore” non mi convince, troppo sdolcinato: dici che sei un guerriero, dovresti lottare per…»
«Onore?» completai io, proponendo quella nuova parola in sostituzione di “amore”, troppo melensa ai suoi occhi.
Asserì, soddisfatta. «Lotto per onore, lotterò per questo, mi piace!»
Così bevvi una sorsata di caffè e presi il foglio con su scritto il testo, per modificarlo.
«Io vado a farmi un espresso, tu intanto lavoraci su» fece lei, alzandosi dal divano. Il mio caffè normale, per lei, era “roba da femminucce”. Comprensibile che fosse sempre un po’ schizzata, vista la quantità giornaliera di caffeina che ingurgitava.
Quando si diresse in cucina e scomparve alla mia vista, però, notai che aveva distrattamente lasciato sul divano il suo cellulare.

Ops. Che disdetta.
Va bene, un uomo adulto dovrebbe avere di meglio da fare che spiare i messaggi sul telefono della propria amica. Ma non potevo farci niente, mi piaceva troppo leggerli: Marta riusciva a mandare al diavolo le persone come nessun altro e, al contempo, a scrivere le più zuccherose smancerie quando si trattava del suo ragazzo. Era uno spasso unico. E poi, la mania di spiare i suoi messaggi era stata una delle prima cose imbarazzanti che avevo detto di me a Mich…
No, non ci dovevo pensare, non lo dovevo nominare.
Perché proprio quel giorno mi ero fissato con lui? Basta.
Nel tentativo di distrarmi, presi il telefono di Marta, digitai il codice d’accesso (che conoscevo a memoria, ma lei non lo sapeva) e mi immersi nelle conversazioni con il suo fidanzatino, una roba piena di cuori e nomignoli affettuosi che mi facevano venire le carie ai denti. E poi era il mio “lotto per amore” a essere troppo sdolcinato? Ridicola.
Poi passai a una conversazione più recente con un organizzatore di eventi che richiedeva la mia presenza in un locale e bla bla bla. Questioni tecniche e di marketing, che noia.
Così andai ancora oltre.
C’era un numero che non era segnato in rubrica e l’ultimo messaggio inviato diceva semplicemente Please.
Non sapevo perché ma questa cosa mi mise tanta curiosità. Appena sotto c’erano i messaggi della mamma di Marta e immaginai che una corrispondenza tra una signora di mezza età che non sa usare il T9 e una figlia che va sempre di fretta fosse più divertente.
Eppure fu su quel Please che posai il dito.
Era come se una parte di me mi dicesse che in quella semplice parola avrei trovato qualcosa di più di quanto mi aspettassi. Qualcosa mi impose di leggere.
Feci scorrere i messaggi finché non giunsi al primo che quel numero misterioso le aveva inviato.
E mi si gelò il sangue nelle vene.

>Marta, sono Mika. Io ha bisogno de te. Tu ha per caso il numero di Marco?
Il messaggio risaliva al sette di gennaio, il giorno prima che tornasse in Italia per la prima volta.
Non aveva senso. Perché Michael chiedeva a Marta se aveva il mio numero? Perché l’aveva contattata? E perché io non ne avevo mai saputo niente?
Lo sapevo che dovevo leggere quella conversazione, me lo sentivo.
Marta aveva risposto.
>Sì, ce l’ho. Che vuoi?
>Tu puoi dare suo numero a me?
>No.
>Marta, please, io ho dovuto cancellare perché aveva paura che Andy scopriva messaggi e telefono numero.
Strinsi i denti. Anche io avevo cancellato il suo, solo per tentare di dimenticarlo più in fretta. Certo, infatti aveva funzionato così bene.
>E quindi? Adesso perché lo rivuoi?
>Io domani torno in Italia, deva parlare con lui.

Uno stacco. I messaggi ripartivano dal giorno dopo, sempre da lui.
>Ciao Marta, io sono ancora Mika. Io è qui in Milano adesso, io deva parlare con Marco. Dai il numero a me?
>Lui non vuole che io te lo dia.
>Perché?
>Perché non ti vuole né vedere né sentire, perché non gli va di essere un pupazzo che tu possa scoparti e abbandonare a tuo piacimento.
>Ok, io no sa cosa pupazo significa, ma io no vuole scopare e abbandonare lui.
>L’hai già fatto.
>Ora è in sua casa? Io ho bisogna di parlare con Marco.
>No. Adesso è a casa mia. Sta dormendo e non voglio disturbarlo.
E qui la conversazione finiva. Ma ecco un altro messaggio risalente, e qui mi balzò il cuore in gola, all’altro ieri. Lessi, con le mani che mi tremavano e il respiro mozzo.
>Ciao, io ancora Mika. Io è in Italia con la mia family. Please, io ha di parlare con Marco.
>Impara l’italiano e dopo scrivimi, grazie.
>Io no riesco a mangia e a dorme se io no gli parla. Ti please.
>E perché dovrebbe importarmi?
>No voglio dividere voi due, so che ora state insieme e se Marco è felice, io è felice. Però gli deva parlare.
>Di cosa? Di come tu e il tuo fidanzato siete carini insieme? No, grazie.
>Io gli deva dire delle cose. Marta, please, fai che noi parla. Dai il suo numero me!
>Ciao, Mika. Stammi bene.
>Please.
E con questo era finita la conversazione.
Sentii un urlo: «Marco, che stai facendo?»
Marta era tornata, e mi aveva beccato con il suo cellulare, le dita tremanti, gli occhi pieni di lacrime e mi stavo mordendo le labbra talmente forte che temetti di essermele spolpate. Non che la cosa mi importasse.
Lei mi raggiunse e mi strappò il cellulare di mano.
Quando posò i suoi occhi sullo schermo, però, la sua espressione mutò, passando dalla rabbia allo sgomento e poi ancora cambiò, divenendo colpevolezza.
Sospirò scuotendo la testa. «Marco, lasciami spiegare.»
«Gli avevo detto di tornare solo se avesse voluto amarmi» le confessai, riuscendo a malapena a parlare. «Michael era tornato, mi voleva vedere e tu lo hai allontanato.»
Nella mia mente risuonavano le sue parole. Aveva usato parole come “bisogno” e “devo”, come se l’urgenza di vedermi fosse diventata soffocante. Non riesco a mangiare e a dormire se non gli parlo, aveva scritto. Mi si strinse il cuore al solo pensiero.
«L’ho fatto per il bene di entrambi. Tu stai bene qui e lui e il suo fidanzatino staranno bene ovunque siano» commentò. «Dovresti solo ringraziarmi.»
Non ci vidi più.
Mi alzai di scatto dal divano e mi parai di fronte a lei, la affrontai. Marta arretrò di qualche passo, spaventata dall’impeto dei miei movimenti.
«Gli hai fatto credere che io e te stiamo insieme» alzai la voce. «Non glielo hai detto, certo, ma glielo hai lasciato intendere piuttosto bene.»
«Dovevo allontanarlo in qualche modo, no?» la sua voce era più incerta, stavolta non si limitava a spiegare, ma stava cercando di convincermi della bontà delle sue azioni. «Era diventato opprimente, con tutti quei messaggi, le chiamate…»
Dentro di me scattò qualcosa, come una molla troppo a lungo trattenuta, e divenni una furia. La presi per le spalle e le urlai in faccia: «Michael ti ha chiamato e tu non mi hai detto niente?»
«Marco, lasciami!» era quasi spaventata.
Feci come aveva detto, vergognandomi di me stesso. Marta non aveva scuse per ciò che aveva fatto, ma metterle paura non era certo una soluzione, avevo sbagliato.
Ma Michael mi amava ancora, mi cercava disperatamente da mesi e Marta mi aveva privato di quell’unica speranza alla quale, per paura, non ero mai riuscito ad aggrapparmi del tutto: il pensiero che lui potesse provare ancora qualcosa per me. Non era possibile in alcun modo, questo mi ero sempre detto, che lui pensasse ancora a me, pur avendo Andy e la sua famiglia accanto. Ma i fatti mi avevano smentito.
Non potevo certo starmene con le mani in mano.
Fu come un lampo.
Mi sentii percorrere da un brivido di pura adrenalina.
Afferrai la giacca e aprii la porta, senza neanche pensarci su neanche per un secondo.
«Marco, che stai facendo?» fece Marta. Non le rivolsi neanche uno sguardo.
«Vado a cercarlo.»
Fece una risatina di scherno. «E cosa vuoi fare, setacciare tutta Milano? Non riuscirai mai a trovarlo prima che se ne sia andato.»
«Non ce ne sarà bisogno» feci, laconico.
Sapevo esattamente dove trovarlo. Quella catena che teneva ancorati i nostri cuori vibrava e mi avrebbe condotto dritto a lui. Me lo sentivo nelle ossa.
In me era rinata una luce di speranza.
Avevo appena messo un piede fuori dall’uscio, quando mi sentii strattonare.
«Marco, aspetta.»
Quando mi girai, vidi Marta con gli occhi colmi di contrizione e inquietudine, due emozioni che non mostrava volentieri. Avevo fretta, sì, ma pensai che, se non altro, dovevo sentire cosa avesse da dire in sua discolpa.
«Non ho mai voluto farti del male, lo sai che l’ho fatto solo per proteggerti. Tu lo sai che l’ho fatto solo perché ti voglio bene.»
Era talmente sincera mentre lo diceva che non riuscii a trattenere un moto di tenerezza per la mia cara amica. Oh, al diavolo. Perché dovevo volerle così maledettamente bene anch’io? Le schioccai un bacio sulla fronte, per farle capire che nonostante tutto l’avrei perdonata. Tra tutte le persone che mi avevano fatto del male, lei era l’unica che l’aveva fatto con le migliori intenzioni. Quasi mi dispiacque non avercela con lei. Forse, la speranza aveva cancellato in me anche la rabbia.
«Lo so, Marta. Ora scusami, ma vado a recuperare la mia vita.»
 

Mentre correvo per le strade, e sapevo esattamente dove andare a pescarlo, sentii qualcosa di strano nel petto.
Una sensazione indefinibile che mi guidava verso di lui, che mi stava liberando di tutte le catene con le quali avevo tenuto imprigionato il mio cuore per tutto quel tempo. Già immaginavo il sollievo sul suo volto quando gli avrei detto che Marta aveva mentito, che io e lei non stavamo insieme, che non l’avevo dimenticato e che non l’avrei mai fatto. Stavo gettando al vento tutti quei mesi di sofferenza in cui avevo cercato di convincermi che la nostra storia mi aveva portato solo guai. Adesso volevo solo lui.
Avevo un tale bisogno di lui che faceva quasi male.
Io stavo male, e stava male anche lui. Per un attimo, fui così folle da convincermi che il mio malessere dipendesse dal fatto che anche lui era stato male in tutti quei mesi, neanche fossimo indissolubilmente vincolati da un legame, anche a distanza.
Mi arrestai, finalmente ero arrivato dove dovevo arrivare.
Un vicoletto quasi deserto di Milano, zeppo di dolci ricordi. Io correvo anche quella volta, ma allora Michael mi inseguiva. Io lo avevo insultato e lui, per tutta risposta, mi aveva rubato un bacio. Il nostro primo bacio. L’inizio della nostra folle storia d’amore.
Se lo conoscevo come pensavo, l’avrei trovato lì. Amava qualunque cosa avesse per lui un significato importante, che fosse doloroso o meno. E io desideravo con tutto il cuore di essere una di quelle cose importanti.
Giunto in quel vicolo, iniziai a guardarmi intorno. Non lo vidi subito, ma non mi rassegnai. Poco più avanti scorsi una bottega, un deliziosi bistrot con i tavolini sul marciapiede. Osservai con attenzione, volto per volto, finché non lo trovai.

È lui.
Mi si bloccò il respiro.
Era seduto a uno dei tavoli.
Vidi la sua testa riccioluta.
La sua altezza inconfondibile.
Il suo sorriso tutto denti e fossette.
Un paio di enormi occhiali da sole con cui copriva i suoi meravigliosi occhi.
E un ragazzo alto e dinoccolato seduto al tavolo con lui. Un ragazzo che non era Andy.
No, non poteva essere. Sgranai gli occhi.
Quello era il nostro posto, il luogo del nostro primo bacio. Il luogo in cui lo avevo assaggiato per la prima volta. Non poteva aver già trovato un altro da portare lì. Il ragazzo ridacchiava a ogni parola che usciva dalla bocca di Michael e lo guardava incantato.
Qualcosa dentro di me si ruppe, dilaniato dal dubbio e dall’amarezza. Mi sentii preso in giro: ero venuto lì, con il cuore gonfio di speranza, già fantasticando sul momento in cui tutto sarebbe tornato a posto tra di noi, e Michael? Era talmente felice con quel ragazzo, e forse io ero il più egoista degli innamorati se la sua gioia mi fece tanto male, se paragonata al mio sconforto. Pensavo davvero che sarebbe rimasto lì ad aspettarmi tutta la vita senza cercare altri? Perché dovrebbe volere me?
Non ci pensai un secondo di più.
Mi voltai e corsi via, il viso già prontamente rigato di lacrime che versavo sempre, immancabilmente per colpa sua.
Ma non feci che pochi passi prima di andarmi a scontrare con una persona.
Aprii gli occhi e cercai di metterla a fuoco. Era una donna, molto particolare: viso raffinato, occhi azzurri e un adorabile cappottino rosso che esaltava la sua figura esile. Mi scrutò per qualche secondo.
«Marco Mengoni?» chiese, con un accento che non riuscii a identificare.
Annuii. «Sorry» farfugliai. «No time for autografi, sorry
Lei però mi afferrò una mano, non senza una certa invadenza, e mi trattenne dalla mia fuga.
«Why are you crying?» mi chiese.
Perché stai piangendo?
Oh, per favore.
Odiavo quando le fan diventavano troppo ficcanaso. Se erano straniere ancora peggio, visto che con l’inglese avevo qualche difficoltà e dire loro di lasciarmi in pace risultava ancora più difficile. «Nothing.»
Lei guardò oltre, al bistrot con i tavolini. Per un attimo, tirai un sospiro di sollievo: se avesse visto e riconosciuto il grande e splendido Mika avrebbe di sicuro preferito andare da lui, invece che restare qui a tormentare me.
Invece spostò di nuovo lo sguardo su di me, parve anche divertita.
Sfacciata, mi asciugò una lacrima dal volto, con una gentilezza che mi bloccò dallo scostare in malo modo la sua mano. «Oh, I know. You cry for love
Sgranai gli occhi. Ero davvero così trasparente? Come aveva fatto a capire che piangevo per amore?
Il suo divertimento non era denigratorio, anzi, era quasi materno. Sembrava rincuorata dalla mia sofferenza, per quanto quel pensiero fosse strano.
Era ammiccante, il suo sorriso divenne più ampio.
«You have to love him very much if you’re crying for him
Devi amarlo proprio tanto se piangi per lui.
Perché parlava di un lui? Chi si credeva di essere per supporre che il mio amore fosse un lui senza nemmeno conoscermi? Benché non fosse che una semplice supposizione, in quel momento mi parve un affronto.
Feci per allontanarmi, ma lei scoppiò in una risata argentina che mi confuse ancora di più.
«Come here! Nice to meet you, Marco» mi porse la mano e, benché non avessi la più pallida idea di cosa avesse detto, gliela strinsi. «My name is Yasmine.»
Yasmine?
Come Yasmine Penniman?
Mi raggelai di botto. Non poteva essere la sorella, vero?
Non poteva essere la stessa persona che aveva detto a Michael di lasciarmi, minacciandolo di dire tutto al suo fidanzato se non l’avesse fatto. Lei non sarebbe mai stata così gentile con me.
No, mi convinsi che non poteva essere quella Yasmine.
Indicò il tavolino. «And those are my brothers.
Mika, you know him, and Fortuné.»
Oh, no.
Era sua sorella.                                 
E il ragazzo seduto insieme a Michael era suo fratello.
Mi voltai verso di loro e soltanto allora notai quanto in realtà si somigliassero: il fisico magro eppure imponente, i capelli scuri e riccioluti e l’amabile, inconfondibile sorriso dei Penniman. Erano praticamente identici. Quanto ero stato cieco, come avevo fatto a non capirlo subito?
Sentii pian piano la gelosia abbandonarmi (perché di gelosia si era trattato), anche se qualcosa dentro di me rimase spezzato. Per un attimo era tornato il terrore, quella cupa certezza che Michael fosse troppo per me, che presto avrebbe trovato un altro amante che fosse alla sua altezza e che mi avrebbe abbandonato come aveva già fatto in passato.
Ero sempre stato convinto di non essere abbastanza.
Soltanto in quel momento fui capace di vedermi da fuori: un patetico ragazzo che non riesce a rassegnarsi di fronte all’evidenza dei fatti. Ero corso qui aggrappandomi all’illusione che tutto sarebbe andato per il verso giusto, ma mi sbagliavo. Era e sarebbe stato comunque più felice senza di me di quanto lo fosse stato con me.
Cosa avevo io da dargli? Cosa potevo offrirgli che già non avesse? L’amore, l’affetto, il calore, le risate e la felicità: erano tutte cose che possedeva già in abbondanza.
Io potevo causargli solo altro dolore.
Forse, il meglio che potessi fare era sparire.
Yasmine colse i miei dubbi. Non aprì bocca, eppure seppi che aveva capito tutto. Nei suoi occhi color ghiaccio scorsi la stessa affettuosa caparbietà di Marta, lo stesso spirito di una persona che crede di sapere cosa è meglio per te, a ragione o no.
Infatti fece un cenno verso i due fratelli, salutandoli.
Fortuné la salutò calorosamente, e Michael cominciò a fare altrettanto.
Ma non vidi nient’altro.
Perché ero un dannato idiota che ostinatamente si fidava delle sensazioni e dell’istinto, più che della logica. Perché ero un maledetto codardo che aveva paura di essere rifiutato ancora una volta. Perché non ne avevo mai combinata una giusta.
Perché, nonostante tutto, sentivo che il mio posto era tra le sue braccia.
Ma il suo posto era tra le mie?
Pertanto, feci la cosa più stupida, insensata, irrazionale che potessi fare.
Scappai.

 

 

 

La soffitta dell’autrice:
BUON NATALE!!!
Non uccidetemi.
Questo doveva essere l’ultimo capitolo, ma stava venendo fuori troppo lungo, così ho dovuto dividerlo in due parti. Spero che la seconda arrivi al più presto.
Passate un Natale felice (ringrazio comeunangeloallinferno94 come al solito, cosa farei senza di lei?) e… a prestissimo!
Ah, e comunque è vero che inizialmente il "Lotto per amore" di Guerriero doveva essere un "Lotto per onore". Tanti biscotti a tutti quanti ♥


  
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