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Autore: Ruta    26/12/2014    1 recensioni
Delle feste, Molly non ricordava lo spirito gioioso di chi avrebbe dovuto festeggiarle con entusiasmo spensierato e gaio, ma ricordava pomeriggi insolitamente vuoti e angoli disadorni in cui andava a rintanarsi, per compagni della sua solitudine un libro trafugato dalla libreria e una scatola di latta piena di biscotti alla cannella.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio, Molly Hooper, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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centro del

Molly non ricordava festività o compleanni o ricorrenze di sorta che lei e la sua famiglia avessero mai festeggiato. Un discorso a parte, comunque, meritava il Natale.
Non ricordava ghirlande di agrifoglio a decorare casa loro né il profumo della pastella dei waffle la mattina di Natale; non ricordava morbide focaccine appena sfornate, addolcite dalla melassa, né alberi addobbati o lucine colorate.
Non c’era alcuna luce in quei ricordi polverosi di qualcosa che ora le sembrava appartenere a una vita fa, più che al passato, a un’altra persona, a qualcuno che era morto e sepolto e buona pace a chi diceva che la morte non era liberazione perché per lei lo era stato.
La morte non era solo dolore, avrebbe voluto dire a quelle persone che ne scorgevano unicamente la fine assolutista, l’atto di compiutezza che determinava.
La morte poteva essere libertà laddove la vita era stata soltanto portatrice di dolore e ogni semplice gesto di altruistica gentilezza era un morso al cuore e all’anima di chi lo riceveva perché ritenuto immeritato.
La morte, agli occhi miserabili di chi l’aveva bramata senza mai assoggettarsi all’audace codardia di compiere il gesto estremo per raggiungerla, poteva diventare un dono prezioso di rara e fragile bellezza. 

 

Delle feste, Molly non ricordava lo spirito gioioso di chi avrebbe dovuto festeggiarle con entusiasmo spensierato e gaio, ma ricordava pomeriggi insolitamente vuoti e angoli disadorni in cui andava a rintanarsi, per compagni della sua solitudine un libro trafugato dalla libreria e una scatola di latta piena di biscotti alla cannella.
Di un Natale, in particolare, Molly ricordava brandelli di conversazioni sussurrate aldilà di porte chiuse, bestemmie a mezza voce esclamate in impeti di esasperazione da parte di suo padre e risposte secche e incolori da parte di sua madre. Sua madre che sempre, sempre diventava fredda e scostante all’approssimarsi di ogni Natale; che stringeva le labbra, come se ci fosse qualcosa di riprovevole e disgustoso nel pudding natalizio e nelle palline di vetro dipinto, quasi che quelli con la loro stessa esistenza le avessero fatto un torto personale; che osservava con odio profondo la neve e i pochi regali ammucchiati ai piedi del piccolo abete, la cui presenza suo padre era riuscito a imporre soltanto dopo strenue obiezioni.

Fallo per Molly, era stata la frase risolutiva e l’esito era stato perfino peggiore delle aspettative precedenti.
L’odore caldo e burroso delle patate cucinate al forno, quello invitante del tacchino arrosto, della crostata di mele che era la preferita di sua madre, la tavola apparecchiata con le posate e il servizio di porcellana migliori sulla tovaglia bianca, il centrotavola di vischio e bacche che Molly aveva preparato, i nastri rossi con cui aveva legato ogni tovagliolo, i personaggi di creta che aveva modellato come segnaposti, a nulla erano valsi gli sforzi congiunti suoi e di suo padre.
Sua madre, seduta sulla sedia più confortevole di casa, al posto d’onore a capotavola come la regina della festa, era stata una statua di sale durante l’intera cena. Aveva a stento assaggiato i piatti che suo padre aveva impiegato un’intera giornata a preparare, aveva rivolto uno sguardo distratto a ciò che Molly aveva allestito. Quando era stato il momento di scambiarsi i regali, sua madre aveva scartato il suo con un’espressione di noia che aveva spezzato il cuore di Molly.
Ricordava ancora quale era stata la reazione di sua madre quando aveva visto cosa le aveva regalato. Era un disco di vinile (per il giradischi che la mamma teneva sul fondo dell’armadio e l’esilio del quale Molly, ragionandoci sopra, aveva motivato con l’assenza di qualcosa da ascoltare) e Molly ricordava quanto si era sentita felice, risparmiando i soldi della paghetta, il suo innocente pensiero che i modici sacrifici ne avrebbero motivato uno ben maggiore se valeva un sorriso di sua madre.
Ma sua madre non aveva sorriso e il gelo le aveva raggiunto gli occhi quando aveva posato il suo regalo sul tavolo ed era uscita dalla stanza senza una parola o una spiegazione.
Era stato suo padre a fornirgliene, poco più tardi, in abbondanza.
La storia che le aveva raccontato sembrava una favola, aveva pensato quella volta, di quelle tristi a cui soltanto i lieto fine riescono a trovare una giustificazione.
Quella di sua madre non ne aveva e da quel giorno Molly aveva smesso di credere alla magia delle feste.   
- Tuo nonno, Molly, è morto quando tu eri molto, molto piccola. –
Molly aveva annuito. Non aveva mai conosciuto il padre della mamma, ma le sembrava di conoscere lo stesso una parte di lui, o almeno di rivederlo nella somiglianza con la mamma. Aveva visto delle sue foto, quelle che la mamma conservava gelosamente, alcune custodite nel suo portagioie, altre nel cofanetto di palissandro in cui lei teneva sottochiave ricordi della sua adolescenza, di un periodo in cui lei e papà non c’erano ancora e in cui la mamma era stata sola senza sapere di esserlo, senza averne percezione, felice fino a quando non aveva scoperto la vera felicità.
Suo nonno era morto il due dicembre, le aveva detto, e da allora la mamma non era più stata la stessa. Festeggiare il Natale per lei era diventato impensabile.
- Pensa, Molly, a come sarebbe festeggiare il Natale senza di me o senza la mamma. –
Quello era molto ingiusto, aveva pensato Molly. La mamma non era sola, aveva loro, ma allora era stato un pensiero meno amaro e più facile da ingoiare.
Molly si era assoggettata al dolore della mamma e non aveva più preteso, perché di quello si trattava ai suoi occhi di bambina, che festeggiassero qualcosa che sarebbe servito a far star male la mamma.
Molly aveva sofferto in silenzio per la perdita del Natale durante tutti gli anni della sua infanzia, ma mai, neppure una volta, aveva riconosciuto in sua madre la colpevole. Sua madre era vittima come lei, vittima del gioco crudele degli eventi.

 

Già più grande, Molly non era riuscita ad assolvere completamente l’ipocrisia di una tradizione che, forse se sua madre ne fosse stata a conoscenza, le sarebbe risultata spietata e crudele.
Se nei confini di casa Molly e suo padre non potevano godere dell’atmosfera festiva che pervadeva il resto del mondo, ciò non significava tuttavia che non ne dovessero godere affatto. Era divenuta loro abitudine, quindi, consolidata in anni di pratica e frutto di bugie offerte a loro uso e consumo, trascorrere l’antivigilia per i mercatini di Camden Town, mangiando arachidi e arance candite e poi al British Museum.
Stivali di gomma di un rosa acceso per affrontare lo strato di neve sporca che inzaccherava i marciapiedi; sciarpa, guanti e berretto di lana per combattere il vento freddo che le arrossava la pelle del viso con i suoi morsi pungenti.
Di ritorno, pensava, si sarebbero fermati in quella rosticceria a due isolati da casa e avrebbero preso uno dei pasticci di verdure di cui la mamma era golosa. E forse, il giorno dopo, lei avrebbe racimolato abbastanza coraggio per entrare nella camera dei genitori, avvicinarsi al letto e dare alla mamma quel libro che aveva scovato per lei nella sua libreria favorita qualche settimana prima, una prima edizione de La piccola Dorrit.
Forse, se l’umore della mamma fosse stato appena meno burrascoso del solito, lei non avrebbe rotto tazze e piattini come il natale precedente, i cocci non avrebbero riempito il pavimento (c’erano ancora tacche, tra le assi, lì dove lei li aveva lanciati con maggiore forza. Il pensiero che non sarebbero scomparse era triste e allo stesso tempo consolante. Il giorno dopo, quando la mamma sorrideva come se nulla fosse successo, le tacche servivano a ricordare a Molly che invece sì, quella brutta cosa era successa davvero e che no, non l’aveva sognata. A volte avrebbe voluto il contrario. Desiderarlo la faceva sentire indegna e sporca, in qualche modo era desiderare di cambiare la mamma e questo non poteva essere giusto); nei momenti peggiori la mamma non avrebbe urlato cose cattive, cose che suo padre le aveva detto di non ascoltare, che rimuginarci sopra troppo le avrebbe inacidito il cuore, ma a cui Molly non poteva non pensare. La mamma aveva detto che sarebbe stato meglio se non avesse incontrato il papà e anche, Molly provava vergogna e smarrimento a ripensarci, se lei non fosse mai nata. Ovviamente la mamma si era scusata, l’aveva abbracciata e Molly aveva pianto un po’, insieme alla mamma, soprattutto accorgendosi che una parte di lei, una piccola e di sicura cattiva, non riusciva a perdonarla, non poteva dimenticare.
Ma quel giorno, checché provasse la mamma al riguardo, era quasi Natale.
La solfa che erano soliti ripeterle a scuola ogni anno, che a ‘Natale si è tutti più buoni’ e che ‘un’azione buona quaggiù, vale il sorriso di un angelo lassù’, per Molly non aveva il minimo senso, ma sapeva che esprimerlo a voce sarebbe stato sgarbato e quel che era peggio, le avrebbe procurato una punizione o un’infinita arringa, perciò taceva, preferendo tenersi per sé quelle considerazioni poco lusinghiere sul tipo di racconti che i grandi propinavano ai bambini.
Nonostante tutti i pensieri che le frullavano per quella testolina e il freddo del pomeriggio inoltrato, Molly cercava di godersi il più possibile la giornata con il papà. 
Quando lui le propose una cioccolata calda, lei rispose con entusiasmo di sì e con un sorriso tutto denti e fossette. 
Presero la cioccolata e continuarono a passeggiare per le strade affollate del centro, le vetrine luccicanti e ornate a tema da un lato e una musica natalizia in sottofondo, fermandosi di quando in quando a dare qualche spicciolo ai Santa Claus agli angoli con i loro campanacci sbatacchianti.
La mano del papà era grande e calda attorno alla sua, dalla sua altezza svettante gli occhi di lui la guardavano con affetto e orgoglio. Prese un sorso della sua cioccolata e Molly rise perché gli si era formato uno sbaffo di panna sull’orlo della bocca. Il papà rise e lo leccò via.
Quando cominciò a nevicare, le sembrò che nulla potesse andare storto, che tutto fosse così perfetto che quello che sarebbe seguito non lo sarebbe mai stato altrettanto.
Probabilmente, avrebbe pensato per molti degli anni a seguire, fu colpa di quel pensiero.
Poco dopo il papà guardò il cielo che andava scurendo e disse che era ora di tornare, che la mamma si sarebbe preoccupata.
Molly pensò che era una bugia, che la mamma non era mai preoccupata, ma subito dopo averlo pensato si sentì così in colpa che volle a tutti i costi fermarsi anche nella pasticceria preferita della mamma e prenderle una fetta del suo dolce preferito.
La casa, a confronto delle altre sulla strada, era buia e spoglia e le finestre del salotto denotavano le luci spente al suo interno. 
Se Molly avesse alzato gli occhi, avrebbe visto il papà aggrottarsi e prendere un aspetto preoccupato, ma non lo fece. Strinse invece più forte i pacchetti per la mamma e seguì il papà nell’ingresso gelido. Sentì il papà che chiamava la mamma a gran voce, che saliva le sale di corsa e poi più niente.
Ricordava che ad un certo punto qualcuno, un adulto in divisa che non conosceva, l’avesse presa in braccio e le avesse tolto con gentile fermezza i pacchetti dalle mani.
Ricordava il papà che piangeva e le diceva che le dispiaceva, che avrebbe dovuto portarla via da lì molto prima.
Molly non rispose, ma aveva sempre saputo la misura in cui il papà amava la mamma, anche nei suoi momenti peggiori; e che lei, Molly, aveva un posto speciale nel suo cuore, ma non speciale quanto quello che apparteneva alla mamma. Perché Molly aveva un posto tutto suo, sì, uno comodo e spazioso, ma la mamma aveva tutto il suo cuore.

 

Sua madre, si rendeva conto la Molly adulta, era stata una donna infelice e insicura, convinta di aver sbagliato qualcosa nella sua vita e che nulla ormai sarebbe servito a riparare l’errore.
Suo padre l’aveva amata sinceramente e profondamente, ben conscio dei suoi difetti e di quelle fragilità che lui, nel suo amore cieco, aveva supposto di poter affrontare per lei. L’amore, però, aveva soltanto accresciuto il senso di inadeguatezza di sua madre e Magdalen Hooper si era spenta come troppo spesso si spengono le candele, non annegando nella dolcezza delle lacrime di cera, ma per un respiro troppo forte o un alito di vento alzatosi all’improvviso.
Molly le assomigliava molto. Ricordava che da piccola, quando gli adulti attorno a lei erano stati soliti intonare quella frase di rito, cinguettandola come un complimento, Molly aveva spesso cercato con lo sguardo suo padre, per capire come dovesse reagire a quei sorrisi di circostanza e a quelle parole così ambigue e facilmente fraintendibili alle proprie orecchie.
Dopo la morte di sua madre, suo padre non era più stato lo stesso e soltanto una notte di Natale, molti e molti e molti anni dopo, uno degli ultimi che avrebbero trascorso insieme, lui aveva avuto il coraggio di dirle che ‘le assomigliava molto, tanto da ricordargliela ogni giorno un po’ di più’.
Molly sapeva che era vero, lo vedeva da sé. Lo aveva notato per anni in silenzio, studiandosi con la coda dell’occhio davanti allo specchio. Se non fosse stato per i capelli, quelli di sua madre erano stati di un biondo chiarissimo e ricco come il grano, i suoi, piuttosto, della gradazione dei semi di lino e dell’orzo macinato, sarebbero parse due gocce d’acqua.
Sua madre aveva forse posseduto una languidezza, nel volto e nei modi, qualcosa di cui lei era priva e le sue labbra, similmente sottili, non si erano fregiate del sorriso a cui Molly faceva ricorso con assai maggiore frequenza.
I suoi occhi avevano una luce diversa, se quelli di sua madre avevano raccolto e fatto propria una sfumatura amareggiata, quelli di Molly avevano una sfumatura di comprensione che scaturiva da una conoscenza diretta, una padronanza dei sentimenti e una compassione che trovavano origine nell’esperienza.
E se sua madre aveva avuto ombre e spigoli nascosti dietro morbidezze e riccioli avvenenti, Molly non si permetteva di nascondere nulla, ma, onesta fino alla fine, si mostrava esattamente per quale era davvero, imperfezioni e lacune incluse.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il centro del mondo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Molly si chiuse la porta di casa alle spalle con notevole sforzo, come se il semplice movimento le procurasse fatica.
Quando, dopo aver attraversato l’ingresso ed essere entrata nel salotto, fece vagare lo sguardo stanco per l’appartamento, le sembrò per un attimo di essere ancora fuori, nel gelo della nebbia d’inverno che l’aveva accompagnata lungo la strada dal Bart’s alla metropolitana e dalla metropolitana sino a casa.
L’impressione sfumò in quello successivo, dipanata dalle luci che aveva accesso. Un’unica luce in effetti, quella della lampada sul basso tavolino rotondo vicino al camino spento.
Dall’ammasso di trapunte e panni da piegare che quella mattina, nella fretta del ritardo, aveva lasciato sul divano, arrivò basso ma riconoscibile il miagolio scontento di Toby.
Molly fece un sorriso fiacco mentre lasciava cadere la borsa sul pavimento, poggiava le chiavi nella ciotola sulla consolle francese, regalo di laurea di una prozia paterna, si sfilava il cappotto e scalciava le scarpe lontano da sé.
Si avviò in cucina, scostando le perline quel tanto che bastava per permettere a Toby di infilarsi agevolmente nel varco creato.
Svolse le consuete azioni serali – preparare la cena per lei e per Toby, sciacquare i pochi piatti nell’acquaio -, estraniandosi e osservando quel che faceva come se gli occhi che seguivano la scena fossero quelli di un’estranea e non i propri.
Qualcosa, quella sera, stava andando terribilmente storto, ma pensarla a quel modo sarebbe stato sbagliato. Non era la serata in sé, il freddo polare che l’aveva scortata sin da quando aveva lasciato il freddo ben più confortevole e familiare dell’obitorio, ad averle provocato quello stato confusionale di sentimenti, quella malinconia greve e profonda che attecchiva dentro di lei come se avesse trovato un terreno fin troppo fertile e produttivo per riprendere la faticosa ricerca di uno nuovo.
Davanti alla cena che freddava, non toccata, nel piatto, al bicchiere di vino rosso di cui ancora non aveva bevuto un sorso, Molly fissò la parete con occhi che per un attimo rimasero vuoti prima di essere rischiarati da un barlume di intuizione.
I suoi occhi si erano soffermati su qualcosa in particolare, cioè sul calendario appeso di fianco al frigorifero. Era di quelli da cui ogni giorno va strappata una pagina, quel giorno segnava la data del 22 dicembre.
L’indomani sarebbe stata l’antivigilia.
Ora Molly aveva i suoi perché, ma la risposta non la fece sentire meglio né le fu di alcun conforto.


*

 
C’era qualcosa da sapere su Molly Hooper e le Vigilie di Natale.
Sherlock sapeva di conservare la risposta da qualche parte, che sarebbe bastato cercare meglio tra gli archivi della sua memoria.
L’idea del mistero che lo attendeva dietro l’angolo, nel caso in cui si fosse arreso alla semplice prospettiva del non cercare lì, lo convinse a trovare strade alternative per raggiungere la spiegazione che desiderava.
E dunque, partendo dal principio, Molly Hooper non aveva mai manifestato un’avversione esplicita nei confronti delle feste natalizie, al contrario, gli pareva di ricordare, aveva sempre dato prova di un profondo attaccamento ai giorni festivi in questione, tanto da arrivare a chiedere di poter usufruire delle proprie giornate di malattia. Ovviamente Mike Stamford non gliele aveva mai negate e perché avrebbe dovuto, d’altronde? Molly rappresentava l’esempio dello zelo e dell’abnegazione al lavoro. Almeno questo Sherlock poteva riconoscerlo in tutta tranquillità, senza farsene un grattacapo.
Certo, c’era stato quell’incidente, quella volta in cui era stata richiamata in servizio il giorno di Natale per mostrargli il presunto corpo de La Donna.
Era stata preferita Molly per due ragioni, ne era conscio: primo, ci si augurava che di fronte alla piccola, indefessa Molly, lui avrebbe evitato scenate di qualsiasi tipo; secondo, fatto inoppugnabile, Molly era stata la scelta a portata di mano. Nubile, senza componenti familiari a cui fare riferimento, allietata dalla sola compagnia di un gatto e di un manipolo di amiche dalle dubbie qualità intellettive, Molly Hooper rimaneva la soluzione perfetta per un’emergenza la notte di Natale, specie una che vedeva lui, Sherlock Holmes, in qualità di protagonista fatale.  
Quell’anno, però, qualcosa era cambiato. Sherlock se ne avvide nel momento in cui attraversò le porte dell’obitorio e invece di trovarvi uno degli studenti tirocinanti di Molly trovò lei medesima, su uno sgabello, intenta a compilare dei referti medici.
Quello era inaspettato e l’inaspettato per lui non acquisiva la nota sgradevole che avrebbe avuto per altri, semmai l’esatto opposto.
Sherlock era incuriosito da quell’anomalia e non si sarebbe fermato fino a quando non l’avesse scomposta per scovare ciò che ne aveva provocato la singolarità.
- Molly – la salutò con un breve cenno del capo.
Lei non lo accolse con uno dei suoi sorrisi usuali, neppure sollevò il capo dalle carte.
– Sherlock – replicò, mormorando il suo nome, senza distogliere lo sguardo da ciò che stava leggendo. Dopodiché si alzò e si avviò verso l’uscita. – Mi dispiace, ma temo che per oggi dovrai accontentarti dell’aiuto di Lloyd. Mike Stamford mi ha messo a supervisionare il dipartimento e non posso concedermi distrazioni. –
Lei era già uscita.
Sherlock rimase fermo, a fissare imbambolato le porte dietro cui lei era scomparsa.

Assolutamente, pensò con una fitta di qualcosa che era dispetto, fastidio e bruciante curiosità, l’avrebbe fatta a pezzi, quell’anomalia.

 
*

 
- Devo sapere se sei stato tu a rifiutare a Molly le ferie quest’anno o se è stata lei a non richiedertele. –
Mike Stamford allontanò gli occhi dal monitor del computer per fissarli sulla cupa figura in nero che incombeva dall’altro lato della sua scrivania.
Era entrato senza bussare, nessuna novità in questo, davvero; pretendeva informazioni rigorosamente personali che non avrebbe avuto ragione di supporre di poter ottenere, anche qui nessuna rilevante novità.
L’accenno sconvolgente, si ritrovò a considerare Mike, non stava nella richiesta tanto meno nei modi bruschi con cui essa era stata posta, no, stava nell’essenza della domanda – domanda, questa era esilarante sul serio –, imposta con la stessa asprezza della sua presenza non annunciata.
- Sherlock – inspirò, massaggiandosi i lati del naso in cui quei dannati poggia-lenti gli procuravano maggiormente fastidio – ti dispiacerebbe bussare, ogni tanto? Ormai sarebbe più sconcertante quello che trovarti nel mio ufficio come se avessi attraversato i muri. –
Sherlock non colse l’ironia, ovvio che no, ma roteò gli occhi nella maniera più indisponente che esistesse al mondo. – Converrai con me che la cosa sarebbe alquanto difficile, inoltre non incolpare me del tuo pessimo udito quando, stranamente, avevo bussato. –
Mike lo squadrò con sospetto. Ammetteva di essere stato abbastanza concentrato, tanto da non essersi accorto che fosse entrato fino a quando non aveva parlato, ma che addirittura non lo avesse sentito bussare?
– Ammesso e non concesso che tu abbia bussato, Sherlock, – riprese, vedendolo inalberarsi alla lieve insinuazione che lui avesse mentito – perché dovrei risponderti? Che interessi hai in merito alla questione? –
- Da quando in qua rivolgere una semplice domanda è illegale? - 
- Da quando sei tu a rivolgerla – sospirò Mike. – Sul serio, non ho tempo per tutto questo. Il periodo di Natale è uno dei più impegnativi dell’anno e invece di lamentartene dovresti essere grato per la presenza di Molly. –
Vide il lampo di trionfo che gli attraversò lo sguardo e si diede dell’idiota per essersi fatto sfuggire una parola di troppo.
Sherlock si piegò in avanti, in modo da sovrastare gli appunti che stava ricontrollando. – È stata Molly a proporsi per sostituire Beveridge? –
Mike lo conosceva da anni e sapeva che nulla sarebbe servito a farlo desistere o distrarre dall’argomento principale. Lui avrebbe insistito, perseverato nella sua condotta finché non avesse ottenuto quello per cui era lì. – No, sono stato io a chiederglielo – capitolò.
- Molly ha o non ha richiesto le ferie? –
Mike si mosse sulla sedia, a disagio. – Se n’era parlato, ma di fronte alla malattia improvvisa di Ferdie ha scelto di non avvalersene. –
Mike lo vide contrarre le sopracciglia. Brutto segno, stava a significare che non era soddisfatto dalla spiegazione ricevuta.
- L’anno scorso le ha richieste, non è così? –
Mike fece un rapido controllo sui registri di cui conservava copia sul computer.
- Sì – rispose – e anche l’anno precedente. A quanto mi risulta le ha chieste sin dal suo primo anno di praticantato qui, con l’unica eccezione di quattro anni fa. – Mike tossicchiò. Ricordava quell’anno: Molly che era arrivata praticamente correndo, le chiacchiere dei giorni immediatamente successivi sulla fantomatica donna che Sherlock aveva riconosciuto ‘non dalla sua faccia’. Molly, innocente colpevole nella sua cotta per lui, era stata sulla bocca di tutti per mesi in seguito a quella faccenda.
- Be’ – proseguì, raddrizzando la schiena, - non c’è da stupirsi, no? Non dopo quello che è successo alla sua famiglia. Perdere la madre a Natale, è ovvio che preferisca stare per conto suo. –
Sherlock accolse la notizia con uno stupore incomprensibile. Se non lo avesse ritenuto impossibile, Mike avrebbe detto che avesse perfino sgranato leggermente gli occhi.
Mike strinse i propri con severità, intanto che gli sovveniva il ricordo di un altro Natale.
– Non lo ricordi davvero? Non ricordi neppure quando hai dedotto tutto questo alla festa per il pensionamento del Dottor Gresham? –
Ora il colorito di Sherlock era bianco quanto il latte e la neve che cadeva fuori, che si era accumulata sul davanzale della finestra.

 
*

 
Era sciocco supporre che Molly avesse un problema con lui, ancora di più lo era pensare che il comportamento insolito di quella mattina dipendesse da un rancore covato nei suoi confronti in seguito a qualcosa che era successo anni prima, qualcosa che, ora se ne rendeva conto, poteva essere stato sbagliato e fuori luogo e insensibile.
Diciamo pure da perfetto imbecille
, sovvenne la Voce di John in un aiuto non richiesto. 
Era sciocco presumerlo, ma lo era altrettanto dare per scontato il contrario.
Molly Hooper non era un tipo vendicativo (certo, c’era stato il caso del Natale precedente, quando in seguito alla sparatoria e alla ricaduta, programmata per l’amor del cielo!, nei vecchi vizi lei gli aveva precluso per mesi l’accesso ai laboratori e all’obitorio, o perlomeno nei suoi turni che, guarda un po’ la coincidenza, accadevano contemporaneamente ai propri momenti di bisogno), no, non era quel genere di persona.
Ne derivava che la questione per lui potesse considerarsi conclusa lì.
Sherlock aveva formulato un interrogativo, aveva ottenuto la risposta. Poteva dunque ritenersi soddisfatto.
Allora perché, pensò con un vago accenno di seccatura, perché non era soddisfazione quella che provava?

 
*

 
Molly scacciò la sensazione che provava sottopelle, spilli di ghiaccio e un formicolio urticante dietro la nuca e lungo la spina dorsale, un sussurro anonimo che la metteva in guardia e le bisbigliava all’orecchio che non era sola.
Si gettò uno sguardo alle spalle, come se trovasse improvvisamente affascinante il beccare solitario di un passerotto sul sentiero di ghiaia e nell’accertarsi di essere sola, si sentì in parte rassicurata.
Strinse più forte le fresie al petto e la carta che le racchiudeva produsse un suono frusciante e le fece arrivare al naso parte del profumo fragrante dei boccioli, in un soffio che ebbe l’assurdo potere di tranquillizzarla. Al diavolo, si disse, al diavolo tutto.
Il cimitero era desolatamente vuoto, i cipressi e gli olmi ai margini del suo campo visivo rappresentavano sentinelle solitarie e costantemente vigili nell’attesa dell’indefinito.
I prati ricoperti di brina producevano scricchioli deliziosi ad ogni passo; il respiro le si condensava davanti al viso in nuvolette che subito si disperdevano, trasportate via da un vento insistente e capriccioso.
Il grigio delle lapidi, le figure incurvate degli angeli piangenti e il bianco poroso e infangato dei basamenti delle cappelle di famiglia dominavano il basso, ma l’alto era l’esaltazione di un azzurro terso, scalfito dalla distesa di croci e dalle striature lontane degli aerei di linea.
Il rumore del traffico Molly se lo era lasciato ai cancelli di ferro dell’ingresso. Il silenzio era totale, interrotto soltanto dai cinguettii di qualche uccellino che svolazzava da un ramo all’altro e dai tonfi impercettibili delle foglie che di quando in quando cadevano, ammonticchiandosi in strati disordinati sulle radici che spuntavano dal terreno.
Quando intravide l’accenno del pendio, Molly percorse di corsa i pochi passi che la distanziavano dalla sua destinazione, arrivando alla cima trafelata e sentendo il cuore batterle angosciosamente contro la cassa toracica, come se non fosse trascorso che un secondo dal momento in cui erano state buttate le zolle sulle bare, in cui erano state coperte da un velo di terra smossa.
Poteva risentire le lacrime secche e strazianti della bambina che era stata e ancora di più quelle amare della giovane donna che là aveva seppellito l’unica famiglia che le era rimasta. Poteva riprovare l’eco sconfinato della solitudine, il senso di emarginazione che l’aveva schiantata: come se fosse l’ultima della sua specie, l’ultima persona del mondo, o meglio di quello che era stato il suo mondo per tutta la vita.
Si inginocchiò e accarezzò il muschio morbido, sbriciolandolo via nei punti in cui raggiungeva i nomi incisi e aveva cominciato a coprire le date sottostanti.
- Ciao, papà – sorrise, poggiando i fiori e voltandosi di tre quarti, dopo una pausa, aggiunse: - Ciao, mamma. –
Molly aveva voglia di parlare. Non era mai stata per natura una chiacchierona, non del tipo di loquacità fatua e priva di significato o dedita al superficiale pettegolezzo, ma le era sempre piaciuta l’intimità che veniva a crearsi tra due persone semplicemente raccontandosi le reciproche giornate o le cose più sciocche che attraversavano la mente in quei momenti di libertà completa e di condivisione; le era sempre piaciuta l’idea del tepore che un rapporto così stretto formava dentro, consolidando la familiarità e determinando l’arrendersi di tante piccole paranoie e inibizioni.
L’idea di poter parlare francamente, senza filtri, di poter riporre fiducia in qualcuno al punto di confidare ogni timore e paura o gioia e pensiero lieto. Trovare una persona così sarebbe stato un sogno. Una vera delizia, pensava Molly. Sarebbe stato come ritrovare in parte quello che aveva perduto con la morte di suo padre.
Quel giorno, Molly aveva voglia di parlare e lo fece. Parlò per quelle che le parvero ore, inginocchiata sull’erba di primavera congelata e di fronte alle tombe dei suoi genitori. Raccontò loro del bambino che Meena aspettava e di cui sarebbe stata madrina; di Caty che si era fidanzata e, tanto per rimanere in tema di anelli al dito, raccontò loro della rottura con Tom.
- Mi mancherà – confessò a voce bassa, non sapendo trovar nome al grumo di emozioni che le stringeva la gola, mentre fissava vacuamente l’orizzonte. – Mi mancherà essere amata da Tom, ma più di tutto mi mancherà la sensazione che mi regalava. Stare con lui era facile ed era così bello sapere di essere il centro del mondo per qualcuno. – Molly si strofinò il bordo degli occhi con i dorsi della mano, dandosi della sciocca perché non aveva con sé fazzoletti. - Immagino che dovrò farci l’abitudine. - Rivolse uno sguardo malinconico per terra e si strinse nelle spalle. - Sì, intendo che dovrò riabituarmi ad essere il centro per me stessa. È solo che è così difficile, a volte. Essere sola è così difficile. –
Lo era dannatamente.

 
*

 
Sherlock Holmes non si sentiva in colpa e quello che provava, al momento, non erano rimasugli di una coscienza indesiderata e da anni accantonata.
La coscienza era per i bigotti e per i puritani. Lui, ringraziando il cielo e la Ragione, non apparteneva alla cerchia ristretta della razza.
Perciò no, non era colpa quella che provava spiando Molly Hooper.
Inginocchiata sul terreno, indifferente alla possibilità di sporcarsi, lei non sembrava accorgersi di niente e nella bolla di silenzio che la circondava, le parole le fluivano alle labbra come un fiume in piena, incontrollabile nonostante gli argini e i canali costruiti per circoscriverne i danni.
Non provava vergogna per averla seguita né per aver origliato quella conversazione privata e irragionevole tra lei e due pezzi di pietra.
Sembrava qualcosa di comune a molti, parlare ai morti. Anche John lo aveva fatto. Aveva parlato di fronte alla sua lapide e a lui, senza sapere di essere ascoltato.
Quello che John aveva provato, Sherlock non poteva immaginarlo. Quello che lui aveva provato, invece, era tutta un’altra questione, una sulla quale preferiva non rivangare.
Quello che Molly provava le si leggeva in faccia, era scritto a chiare lettere nelle sue labbra piegate all’ingiù, nel modo in cui strizzava di continuo gli occhi e sfregava i palmi delle mani sulle gambe, avanti e indietro, soltanto per tenerle occupate, nella curva assolutamente chiusa delle sue spalle fin troppo minute. Molly aveva sprangato il mondo al di fuori e nel cerchio della collinetta aveva messo piede nel recinto di un mondo vecchio, a cui aveva detto addio un decennio prima, ma dal quale non riusciva ancora a distaccarsi completamente, probabilmente non sarebbe riuscita mai.
Anche quello, dire addio a qualcosa quando tutto ciò che si desiderava era poter fare l’esatto contrario, andare avanti quando invece si sarebbe voluto ripercorrere il cammino all’indietro per trovare l’errore e calpestarlo, distruggerlo, anche quello lui poteva capire. Un tempo non gli sarebbe stato possibile, ma quel tempo, quell’uomo era stato ucciso e uno diverso era rinato dalle sue ceneri.
Araba fenice o no, l’uomo diverso che era diventato fece la medesima cosa che la versione vecchia di sé avrebbe fatto.
Voltò le spalle alla scena a cui aveva assistito, alle lacrime silenziose che Molly Hooper piangeva, credendosi non vista e non sentita, sola nel suo dolore. Si incamminò nel lato opposto a quello dove si trovava lei.
E forse, forse una parte dell’uomo nuovo provò vergogna per essersene andato a quel modo, per aver rifiutato di agire, ma la parte più conservatrice ebbe la meglio e mise tutto a tacere sotto strati di falsa noncuranza.


Si ritrovò a passare per puro caso (baggianate. Neppure le coincidenze esistevano. Nel suo mondo nulla era lasciato al caso) in prossimità della sua tomba.
Mycroft, in uno sprazzo di umorismo macabro, non aveva ritenuto di fondamentale importanza rimuovere la lapide e nel leggere il proprio nome sulla lastra di marmo nera, Sherlock sollevò un angolo di bocca in un sorriso spiacevole a guardarsi.
Il sorriso morì quando i suoi occhi frugarono il terreno di fronte e trovarono, in mezzo alla pila di fiori secchi che lo guarnivano, una scheggia di colore giallo che non avrebbe dovuto trovarsi lì.

Una fresia.
Sherlock si chinò a raccoglierla e la piegò tra le l’indice e il pollice, non potendo sentire la morbidezza dei petali e dello stelo contro la pelle ricoperta dai guanti, ma assaporandone distrattamente la fragranza: fresca e dissetante, come un sorso d’acqua.
Quella donna, pensò in un attimo di stupore paralizzante.
Si mise la fresia nel taschino del Belstaff e proseguì, indisturbato, verso l’uscita.

    


 

N/A:

Questa è una storia personale. Non doveva esserlo, ma lo è diventata. Ho provato ad arginare il danno, ma ormai era cosa fatta e non ho potuto proprio porvi rimedio. Perciò lo ripeto, sì, questa storia è personale e Molly, almeno nella parte iniziale non è davvero Molly, ma una persona che adoro di cuore, che è come una sorella per me e che spero non se la prenda se ho regalato ad altri uno scorcio della persona meravigliosa che è. Potrei dire forte, coraggiosa, straordinaria, ma ho scelto proprio l’aggettivo ‘meravigliosa’ e a ragione.
Adesso credi di aver perso il tuo centro e di dover ricominciare tutto daccapo, ma come ti avevo già detto allora, basta che giri l’angolo per ritrovare te stessa e anche se non lo credi possibile, chiusa una porta si apre un portone. Non pensare a quello che hai perso, ma al ventaglio di cose straordinarie che puoi ancora fare, che sarai sempre in tempo per fare. Ti voglio bene.
P.s.: non capitano spesso, ma lo stesso con irritante frequenza, oserei dire. Parlo di quei momenti di lucidità in cui ti guardi indietro e vorresti raddrizzare tanti piccoli torti, cancellare minuscoli sgarbi, semplicemente vorresti cambiare qualcosa e non sai se in meglio. Questo è stato un anno di conclusione e chiusura, sotto certi aspetti. Il fatto di aver appena finito di rivedere, per la centesima volta forse, l’episodio finale di LOK (The Legend ok Korra) non aiuta a scacciare questo stato d’animo.
Ho riletto la storia, facendo il solito lavoro di taglia e cuci, riaggancia e stira, ascoltando ininterrottamente il Soundtrack del film di Piccole Donne (la versione con Winona Ryder) e della scena finale di Lok. Per chi volesse dare una sbirciata si tratta di questo https://www.youtube.com/watch?v=G-KPAcg3PZ8 e questo https://www.youtube.com/watch?v=1pcxrdP3ums.

Un abbraccio forte a tutti, un grazie e Buon Capodanno!

 

  
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