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Autore: GretaHorses    29/12/2014    16 recensioni
""Leon ascoltami: non ho detto che devi amare me, devi amare lui!". Indicai tremante il mio ventre. No Vilu, non piangere. Non in quel momento, non davanti a lui. "Non sarei di troppo?". Assunse un'espressione sarcastica e ridacchiò. "Ma cosa stai dicendo? Lui ha bisogno di te". "Ce la può fare benissimo senza di me, un padre ce l'ha già!". Mi urlò contro con una rabbia tale che quasi mi fece paura. "Hai ragione, lui non ha bisogno di te. Diego mi è stato vicino in tutti questi mesi e di certo lo ama più di te che non ci sei mai stato. Amare per te è un optional, giusto? E' sempre stato così, non capirai mai". Decisi di andarmene e mi voltai, non volevo più sentire un'altra parola uscire dalla sua bocca. Erano passati quasi due anni dal nostro ultimo addio, quattro mesi da quella maledetta sera. Ma se non me ne doveva importare più nulla, perché faceva così male?".
Questo è il sequel di "Indovina perché ti odio", vi consiglio di leggere la fanfiction precedente se non l'avete ancora fatto.
Enjoy.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leon, Un po' tutti, Violetta
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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CAPITOLO 13
 
 
 
Tremante mi dirigo verso un piccolo divanetto a due posti in pelle nera, alle mie spalle sento la porta chiudersi. “Siediti se vuoi”, mi invita. Non me lo faccio ripetere due volte e mi butto a peso morto all’indietro posando la nuca contro lo schienale, mi sfrego le mani per riscaldarmele e vi soffio per avvolgerle d’aria calda. Nel frattempo si toglie la giacca e la getta sopra al tavolo disordinatamente, strano per uno come lui. Viene verso di me e si siede accanto senza però permettere che i nostri corpi si sfiorino. “Hai bisogno di altri fazzoletti?”. Scuoto il capo. “Perfetto perché li ho finiti”. Mi sfugge mezzo sorriso che puntualmente nascondo. “Hey, smettila di fare così”, dice dolcemente. Mi volto verso di lui, è poggiato coi gomiti alle ginocchia e sorregge la testa con le mani congiunte mentre mi osserva. “Ha ragione, è questo il punto. Sono una stronza bugiarda, mi sorprende che nessun altro me l’abbia sputato in faccia finora”. Aggrotta la fronte come se non approvasse. “Sai benissimo che non è vero”. “Invece è vero!”, ribatto in tono infantile come i bambini. Sento gli occhi pizzicarmi ancora, la quarta crisi di pianto è in arrivo. “Davvero, finiscila di dire cazzate”. “Non sono cazzate”, tiro su col naso. “No, eh? Ora basta piangere”. “Che ci posso fare se ho la lacrima facile?”, domando in un lamento. “Questo lo so, però non ha senso torturarti per una persona del genere”. “Ma lui ha detto solo cose vere, ecco perché fa così male. Se non avessi…”. “…se non avessi niente, Violetta”, sbotta. “Ciò che ha fatto è ingiustificabile. E’ da coglioni lasciare una ragazza incinta in un marciapiede di sera, chiunque lo capirebbe”. Mi passo le dita appena sotto le narici per poi singhiozzare. “E adesso smettila di piangere che sembri un orsetto lavatore”. Alzo lo sguardo e gli sorrido timidamente, questa volta non l’ometto. “Grazie, sai?”. Scrolla le spalle, il suo classico movimento. “Che c’è? Gli orsetti lavatori sono carini”. “Rubano il cibo agli umani”, puntualizzo. “E non è un po’ come fai tu?”. Roteo gli occhi mentre ridacchia beffardo. “Puoi prendere qualcosa per tenere a freno gli ormoni in gravidanza? Sai com’è, sei più emotiva del solito e non vorrei mai che scoppiassi in lacrime per ogni cosa”. “Certo che sei stronzo, oh. Nemmeno quando piango riesci a non prendermi in giro”. Sospira. “Sai che è il mio metodo, cerco di sviare per non far pensare alla persona che sta male il motivo per cui sta piangendo”. Annuisco. “Lo so bene”. “I pianti altrui mi mettono in imbarazzo”, confessa. “Capisco, pure a me succede lo stesso”. “Lo sapevo già”. “Anch’io”. Ci fissiamo per alcuni secondi per poi posare l’attenzione su altro in preda al disagio. Sono certa di avere il viso della stessa tonalità del tappetto ossia rosso vermiglio. “Ehm…senti, vorresti bere qualcosa di caldo?”, chiede incespicando. “Uhm, okay”. Si mette in piedi e mi concedo il lusso di guardarlo rapidamente, non voglio che capisca che m’interessi più del dovuto. Ho fatto una rinuncia oggi pomeriggio e questa rinuncia lo riguarda. “Tu intanto vai a lavarti il viso con dell’acqua fresca, basta che tiri la porta scorrevole e vai nella prima stanza che vedi in quella sottospecie di corridoio. E’ talmente piccolo da non poter essere definito tale”. Con cautela mi alzo anch’io e mi tolgo il giubbotto, faccio per piegarlo quando improvvisamente cerca di afferrarlo facendo scontrare per sbaglio la sua mano con la mia e la ritrae prontamente facendola ricadere lungo il corpo. “Lo metto assieme al mio sul tavolo”. “Ma non vuoi che…”. “Non importa”. Glielo lascio prendere, poi mi dà le spalle per poterlo posare dove indicato.  Ero talmente abituata a fingere di essere una persona ordinata anche quando non lo ero che ormai mi viene spontaneo in sua presenza non lasciar nulla fuori posto e piegare tutti gli indumenti. Chissà a cos’è dovuta questa sua mania per l’ordine e la precisione, caratteristiche a me sconosciute. “Sicuro di non volerli, chessò, appendere da qualche parte o piegarli?”. Raggiunge la dispensa e la apre, risponde mentre è immerso nella ricerca di qualcosa. “Fa niente, davvero”. Confusa vado verso la porta, la faccio scorrere ed entro nel famoso ‘corridoio’. Effettivamente ha ragione a dire che non ha molto senso chiamarlo così, ma in che altro modo potrei definirlo? Faccio qualche passo per poi entrare in un bagnetto dotato di doccia, water, lavabo ed una piccola finestrella sulla sommità della parete di fondo. Mi sistemo di fronte allo specchio e scruto impassibile la figura riflessa: acconciatura rovinata, occhi gonfi e trucco colato fino alla fine delle guance. Aveva proprio ragione, sembro un procione. Apro il rubinetto e faccio scorrere l’acqua, poi mi risciacquo più e più volte la faccia per eliminare ogni residuo del make up. Con le palpebre serrate allungo le braccia e prendo un asciugamano per poi tamponarlo delicatamente sul volto, finito il procedimento lo ripoggio dov’era. Torno ad osservare me stessa, ora sono completamente struccata e non so se sia molto meglio rispetto a prima. Odio farmi vedere senza trucco, è come mostrare la parte più fragile e nascosta di me che cerco in tutti i modi di reprimere e solo pochi eletti ne sono a conoscenza. Tra questi c’è pure lui, comunque. Mancano solamente i capelli, dunque sciolgo la coda e li faccio ricadere lungo le spalle. Do un’occhiata attorno assicurandomi che nessuno mi veda ed apro il mobiletto sopra il lavandino dal quale fuoriesce un intenso profumo di dopobarba. All’interno vi sono cose tipiche da bagno rigorosamente posizionate secondo una scansione ben precisa: collutorio, schiuma da barba, rasoi, shampoo e balsami di riserva, cotton fioc. Cerco fra i vari ripiani, finché non trovo finalmente una spazzola. La prendo, ma quando faccio per usarla rimango completamente paralizzata. Deglutisco e la porto vicino al viso, è così familiare. La rigiro sbalordita: è in plastica blu elettrico e si restringe leggermente al centro del manico. E’ la mia spazzola. Ora si spiega perché non ero più riuscita a trovarla, devo averla accidentalmente dimenticata a casa sua quando stavamo ancora assieme. Mi mordo il labbro inferiore, poi afferro le ciocche e ve la passo. Appena termino di lisciarmi la chioma castana, la rimetto subito al suo posto provando a far sembrare che non sia stata minimamente spostata. Mi guardo un’ultima volta allo specchio, dopdiché esco silenziosamente. Arrivata nel corridoio, mi volto a destra e noto che c’è un’altra stanza con la porta, anch’essa scorrevole, leggermente scostata. Suppongo sia la sua camera. Mi sporgo leggermente sull’uscio che dà sul soggiorno per vedere se è ancora impegnato a fare altro. Fischietta mentre sta mettendo un pentolino sul fuoco, sopra il tavolo vi è una confezione d’infusi e le giacche sono sparite. Lo sapevo che non avrebbe resistito per molto. Sgattaiolo verso la sua stanza e prima di accedervi faccio un respiro profondo, poi faccio scivolare anche quel poco che vi resta per lasciare un varco. Avanzo osservandomi attentamente attorno cercando d’incamerare ogni singolo particolare: è grande abbastanza per contenere un letto matrimoniale, due comodini, un armadio ed alcuni oggetti. Presenta anche un terrazzino, credo sia fondamentale per lui in quanto in questo modo è libero di uscire a fumare quando gli pare e piace. Raggiungo il letto e mi ci siedo delicatamente, passo un palmo facendolo strofinare contro la stoffa liscia del copriletto verde scuro. Alzo lo sguardo: di fronte a me c’è la sua chitarra posata su un cavalletto, spontaneamente ruoto il capo verso l’armadio e noto sorridendo che non si è smentito riguardo la tastiera. Sempre sopra di esso la mette, anche se questa volta in casa non c’è nessuno che possa toccargliela. Tutto ad un tratto qualcosa attira la mia attenzione: il cassetto del comodino che ho vicino è chiuso male e da esso penzola qualcosa. Ancora una volta mi guardo attorno furtiva per poi afferrare la maniglia e tirarla. Mi si mozza il fiato. Inizio a tremare mentre allungo la mano verso una collana, era quello l’oggetto che penzolava. Gliel’avevo regalata per il suo compleanno: è in argento placcato e fatta come se avesse delle squame. Ricordo che la indossava sempre e ne ero felice per tutto quello che mi era costata. Sgrano gli occhi alla vista del suo bracciale preferito, quello donatogli da Moises, lo afferro e scorro lungo tutti i ciondoli fino ad arrivare alla ‘V’. Un pugno nello stomaco. Lo poso accanto alla collana non appena capisco che c’è dell’altro, rovisto fra delle carte e trovo la lettera del nostro anniversario. Avete presente quella sensazione orribile come se dei denti aguzzi stessero facendo a brandelli il cuore? Ecco, lo stesso sta accadendo in questo momento. Passo i polpastrelli lungo il bordo seghettato dell’apertura della busta, questo significa che l’ha letta e chissà quante volte. Scorgo una cosa colorata sottostante, alzo tutto ciò che vi è sopra e spalanco la bocca. Sento gli occhi velarsi di lacrime e sì, ho il pianto facile. Stringo fra le mani una fotografia mia. Vi sono raffigurata. Sbatto le palpebre più volte per convincermi che sia reale, ma sono proprio io. Eravamo allo zoo quando me l’aveva scattata e ricordo che per trascinarlo lì avevo dovuto combattere dure battaglie e per battaglie intendo la contrattazione del ‘sesso settimanale’. Nell’immagine come sfondo c’è della vegetazione verde ed ho i capelli raccolti in uno chignonne alla bell’e meglio, gli occhiali da sole a specchio e sorrido tenendo una mano alzata in segno di saluto. Guardo il retro. E’ stata sviluppata il sedici luglio duemilaquindici, pochi mesi dopo la nostra rottura e presenta delle annotazioni scritte in penna: ‘Zoo, Baires. Ventiquattro giugno duemilaquattordici’ in corsivo, mentre in basso con una dimensione nettamente più piccola ‘T.A.’. Corrugo la fronte, che sarebbe a dire ‘T.A.’? Basita, ripongo la foto sopra la superficie del comodino. Provo a vedere se conserva qualcos’altro, quando sento dei passi in lontananza. Raggruppo velocemente tutti gli oggetti e li rimetto dentro a casaccio, per poi richiudere simultaneamente il cassetto. Mi metto di scatto in piedi e mi posiziono dinnanzi la chitarra fingendo di essere interessata ad essa. “Hey, Viole…che stai facendo qui?”. Mi volto verso l’uscio e sorrido in maniera a dir poco innaturale. “Ehm, niente. Ho trovato la porta semiaperta e mi sono messa a curiosare un po’ nella tua stanza. Noto con piacere che hai tenuto ‘Stacy’”. Sposta lo sguardo sullo strumento musicale e sembra essere sollevato. Perché, Leon? E’ evidente che tu abbia qualcosa da nascondere e che sia proprio ciò che ho visto, perché occultarlo? Perché tenere oggetti del nostro passato per poi ignorarmi e ferirmi nel presente? Veramente fatico a capirlo. Lui è quel tipo di persona che puntualmente ti fa soffrire come un cane, ma quando ci sei assieme niente sembra importare e dimentichi tutto il male che ti ha fatto in favore dei bei ricordi che hai con lui. Mi chiedono come faccia a non odiarlo, semplice: quando lo guardo, non vedo lo stronzo che mi ha abbandonata incinta di lui per sei mesi e si è messo nel frattempo con un’altra. Vedo solamente il Leon diciasettenne che mi ha fatto perdere la testa, il ragazzo che mi ha fatto scoprire l’amore così giovane. Che significa tutto questo? Lo stato, la canzone, il portachiavi, la spazzola ed ora il comodino. Prova ancora qualcosa per me? Un fremito di eccitazione mi attraversa il corpo ed improvvisamente divento colma d’imbarazzo come pochi minuti fa sul divano, mi pare di essere ritornata ai primi anni di liceo in cui mi vergognavo di qualsiasi cosa comprendesse lui. “E’ tale e quale a una volta, no?”. Sobbalzo impaurita, sono stata talmente concentrata nelle mie riflessioni che non mi sono nemmeno resa conto che ora è al mio fianco. “Già”. “Comunque se vuoi l’infuso è pronto”, annuncia. La stanza cala in un silenzio imbarazzante, queste lunghe pause fra una risposta e l’altra non fanno altro che aumentare il divario che c’è fra noi. Annuisco e, grazie al cielo, lo prende come un responso valido, dunque s’incammina verso l’uscita ed io lo seguo a ruota. Arriviamo in soggiorno e mi indica di accomodarmi al tavolo in vetro, sposto una sedia e mi ci siedo. Davanti a me è posata una tazzona con all’interno un liquido bollente, la porto più vicina a me in modo da inspirarne profondamente il profumo. “E’ ai frutti rossi”, dice mentre mi si siede di fronte con una tazzina stretta fra le dita. “Uh, grazie. Mi piace molto e te? Non lo bevi?”. Mi mordo la lingua non appena realizzo di aver detto la cazzata dell’anno. “Giusto, le fragole”. Inarca le sopracciglia e sorseggia quello che suppongo sia caffè nero. Non mette mai lo zucchero e non è necessario che assaggi, lo so e basta. Manda giù un po’ del contenuto, poi la poggia. “Allergia, vedo che ti ricordi”. “Come dimenticarlo? Ho rischiato di farti andare in shock anafilattico con la crostata alla marmellata di fragole”. Sgrana gli occhi come se provasse dolore al solo ricordo. “Pensavo di morire quella sera, a malapena riuscivo a respirare”. Bevo un po’ d’infuso, poi dico: “E’ stata l’ora e mezza più brutta della mia vita”. Alza leggermente un angolo della bocca. “I sensi di colpa conseguenti al crimine”. Sbuffo. “Manco sapevo fossi allergico, sennò non avrei mai comprato una crostata alla marmellata di fragole”. “Certo, come no”, ridacchia. “Come no, cosa? E’ anche colpa tua, dovevi capirlo che c’erano dentro fragole”. “Grazie mille, l’ho capito quando ho dato un morso ad una fetta. Come faccio a capirlo se non le vedo fisicamente?”. Finisce tutto il caffè, era molto meno rispetto alla mia bevanda. “Non so, voi allergici magari sviluppate qualche recettore speciale che vi fa capire cosa mangiare e cosa no”, ribatto. “Ovvio, noi poveri sfigati allergici siamo tipo Robocop. Cosa mi tocca sentire?”, commenta ironico. “Tutto questo per non ammettere che l’hai fatto di proposito per avere il mio patrimoniale”. Gli do un calcio sotto al tavolo colpendolo sullo stinco. “La vuoi piantare? Sono seria. Ero davvero spaventata, avevo una maledetta paura di perderti”. Tutto ad un tratto l’espressione divertita sparisce e mi osserva confuso. “Cioè, ehm…volevo dire…”. “Anch’io”, risponde. “Anche tu cosa?”, domando. “Anch’io ho avuto paura di perderti in passato. Però non ‘perderti’ nel senso di non averti più, ‘perderti’ nel senso di…”. Abbassa il capo. “…insomma, mi riferisco ai problemi che hai avuto, la depressione e tutto il resto. Non appena notavo un accenno di tristezza nel tuo volto, cercavo subito di rimediare facendoti svagare e pregando che non stessi ricadendo nel buco nero in cui sei finita più volte. Ed ho ancora paura, Vilu, solo che sento che se accadesse adesso, sarebbe colpa mia. Non potrei accettarlo, ecco un altro dei motivi per cui sono tornato”. Termino l’infuso e poggio la tazzona. “Torn…”. “Sì, tornato”, rimarca l’ultima parola. Fisso le mie gambe attraverso la lastra di vetro del tavolo, quindi lui è ‘tornato’. “Metto queste sul lavabo”. Allunga il braccio per prendere la tazza e le ripone nell’acquaio poco distante da noi assieme alla sua. Torno in piedi e curioso l’ambiente circostante, noto una scrivania accanto al divano e ne vado appresso. Sopra di essa vi è poggiato un modellino di un edificio ancora in fase di costruzione, probabilmente lo sta ultimando per poi consegnarlo alla sua professoressa di modellistica. Ai lati vi sono un blocco per gli schizzi, la tavola con il progetto ed alcuni strumenti da lavoro. “Stiamo progettando una concessionaria”. “Oh, forte”. Poso l’attenzione su dei disegni appesi con delle puntine in una bacheca in sughero proprio di fronte a me, sono contenta che non abbia abbandonato il suo lato creativo perché è molto talentuoso nelle arti figurative nonostante abbia scelto architettura. Che strane forme ha realizzato, inclino la testa a lato e riduco gli occhi a due fessure concentrandomi su uno in particolare. Vi è uno sfondo dai colori surreali ed inquietanti e due ammassi di figure grigie accatastati alle estremità opposte in basso. Suppongo che tutte queste siano persone, esse trattengono i due personaggi centrali che sono come sospesi in aria. La sagoma nera sembra essere maschile perché più possente, mentre quella bianca femminile. Entrambi hanno il braccio allungato verso l’altro e cercano di toccarsi le mani invano perché bloccati dagli altri. Eppure manca così poco perché si sfiorino, un piccolo sforzo basterebbe per farli incontrare. “Cos’è?”, chiedo spontaneamente senza schiodare lo sguardo. “Quello? Niente di che. Disegni figurati, ma astratti”. Do una rapida occhiata attorno e noto che le sue creazioni non hanno un senso logico apparente, ciò comporta che dietro ad ogni cosa vi siano altri significati di non immediata comprensione. Inoltre il ragazzo in nero e la ragazza in bianco sono un tema molto ricorrente, quasi fossero i protagonisti di una storia narrata attraverso le immagini. “Sono molto belli e…strani”. Ruoto il capo in sua direzione, mi ritrovo a pochi centimetri dal suo viso. Mi osserva insistentemente le labbra ed il mio respiro si fa pesante, mi faccio coraggio e mi metto frontale rispetto a lui. Ora mi fissa dritto negli occhi, posa la mano sulla mia guancia delicatamente facendomi rabbrividire. No. Cosa sto per fare? Non posso. E’ impegnato, non devo cadere in una debolezza. Lui però forse prova ancora qualcosa per me e solo in questo modo posso sapere se è vero oppure no. Ma che dico? Non devo farlo. Il panico s’impossessa di me quando il suo volto inizia ad avvicinarsi sempre di più al mio ed io, da grandissima idiota, serro le palpebre in attesa di sentire la sua bocca premere contro la mia. La vicinanza diventa sempre meno, sento le punte dei nostri nasi sfiorarsi. Un suono di un telefono. Sobbalzo e ritorno alla realtà, mi stacco repentinamente imbarazzata ed estraggo il cellulare dalla tasca. E’ papà, oh. Premo sul tasto con la cornetta verde  e lo porto all’orecchio spaventata dalla reazione che potrebbe avere. “Uhm, pronto?”. “Vilu, dove sei?”. Dalla voce sembra più preoccupato che arrabbiato, meglio così. “Al locale, dove vuoi che sia?”, rispondo con nonchalance. “Avevi detto che ti saresti fermata per poco”, ribatte irritato. “Ho trovato da fare, scusa”. “Avevi detto che saresti arrivata per le nove e qualcosa e sono già le dieci passate”. Roteo gli occhi e Leon accenna un sorriso vedendomi scocciata dall’insistenza di papà. “Papà…”. “Vieni a casa. Adesso”. “Ma pa…”. “Subito”. Sbuffo. “E va bene”. Riattacco e lo rimetto dov’era. “Cosa c’è?”, domanda. Faccio le spallucce. “Devo andare a casa…subito”, calco volutamente l’ultima parola facendolo ridacchiare. “Peccato”. Aggrotto la fronte. “Peccato?”. “Beh…”. La suoneria parte di nuovo ed ora chi è a rompere? Riafferro rabbiosamente il telefono e guardo il display: Diego. Deglutisco e gli lancio uno sguardo allarmato, si sporge verso di me per poter leggere. “Chi è?”. “Diego”. “Non rispondere”, sbotta. “Magari vuole dir…”. “Ho detto che non devi rispondergli”. “Ma…”. “No”. Me lo strappa dalle mani e mette giù al posto mio. “Hey!”. “Temporeggi come non so cosa”. Incrocio le braccia sopra al pancione. “Almeno potevi lasciare che suonasse anziché mettere giù in questo modo, già mi ha detto che sono stro…”. “Ci risiamo”. Si passa una mano sulla fronte spazientito. “Riesci a non fartene una colpa per una volta?”. “Se non gli avessi detto di me e te alla visita, non sarebbe finita così male”. Ecco, ora gliel’ho detto. Avevo spiegato a grandi linee il motivo dell’ira di Diego. “Ah”. Mi mordicchio il labbro inferiore. “E’ geloso di te”. Annuisce. “Capisco, ma non ha motivo di cui essere geloso, vero? Cioè quello che è successo poco fa è stato un momen…”. “Beh, forse un po’ sì”, mi esce. Rimaniamo a specchiarci l’uno nell’altro per alcuni istanti, ma nessuno osa fiatare. Aspetto ancora un po’, per poi dire: “Dove hai messo il giubbotto?”. “E' appeso sull’attaccapanni lì infondo”. Lo indica, si trova proprio accanto all’entrata. Vado fino a là, lo prendo ed inizio ad indossarlo. E’ ora di andare a casa. Sì, è decisamente ora di uscire di qui. Non ho fatto altro che peggiorare la situazione, ho fatto una rinuncia e devo rispettarla. Perché è così difficile? Finito di abbottonarmi, mi raggiunge e si mette anche lui la sua giacca in pelle per poi aprire la porta. Non si azzarda a spendere una parola neanche se pagato, pare pensieroso. Sarà un viaggio molto freddo.
 
 
Poso lo zaino a terra ed infilo le chiavi nell’armadietto, lo apro e vi appendo il giubbotto al gancetto. Papà ieri sera mi ha fatto un bel cazziatone, ma credo che la maggior parte del suo nervosismo fosse dovuto al fatto che a portarmi a casa è stato Leon e non Diego. Allora sono partite ventimila domande a raffica, in quanto era bramoso di sapere cos’era accaduto per filo e per segno. Gli ho fatto credere che all’apertura vi fosse anche Leon e che ci fossimo trattenuti a chiacchierare al bancone, mentre Diego doveva rientrare presto urgentemente. E sì, ancora una volta mi sono dimostrata molto abile nell’arte del mentire. Potrei impartire lezioni se mi dovesse andar male nella vita. Chiudo l’anta ed il lucchetto, poi rimetto la chiave in tasca. “Buongiorno”. Mi volto di scatto verso questa voce familiare, mi ha fatto prendere un bello spavento. “Oh, sei tu”. “Sì, sono io”, ripete ridacchiando. Dove trova la forza di essere di buon umore di prima mattina? Inconcepibile. “Scusa, credevo fossi…”. “…Diego. Lo so, lo so”. C’è qualcosa che non sa di me? Finisce un sacco di frasi al posto mio, dovrei metterlo alla prova un giorno di questi. “Domani è il grande giorno”, annuncia. “Non sembri per niente entusiasmato dal modo in cui l’hai detto”. Fa le spallucce. “Mi hanno praticamente costretto”. “Ti capisco, se non fosse stato per Maxi, non avrei partecipato”. “Ed io se non fosse stato per i ragazzi”. Mi sfugge mezzo sorriso, credevo si fosse iscritto di sua spontanea volontà. “Il tema però sta venendo bene, lo ammetto”. Annuisco. “Pure noi stiamo facendo un lavoro niente male”. Posa la spalla contro l’acciaio degli armadietti ed incrocia le braccia. “Dimmi qualcosa sulla vostra canzone”. “No”, rispondo di getto. “Perché no? Ti ho chiesto di dirmi ‘qualcosa’, non di svelarmi i contenuti”. Ci penso un po’ su, poi acconsento. “Solo se tu, però, mi dici prima il titolo della vostra”. Sgrana gli occhi. “Il titolo? Ma sei seria?”. “Ovvio, questo o niente. Lo dicono tutti, no? Mai giudicare un libro dalla copertina ergo il titolo non dice nulla sulla canzone in sé, non si può commentarla in base a quello”. Dall’espressione pare convinto della mia argomentazione, potevo studiare giurisprudenza. “Okay, si chiama ‘Always Attract’. Contenta?”. ‘Always attract’. “Non vedi le stelle filanti e gli unicorni danzanti tutt’intorno? E’ scontato che sia contenta”, dico sarcastica. “Tu cosa vuoi sapere della nostra?”. “Mmh…che sentimento esprime?”. Scuoto vigorosamente il capo. “Questo no, eh? E’ troppo da chiedere”. Inarca un sopracciglio. “ Senti, bellezza, tu mi ha chiesto il titolo, non so se ho reso l’idea. Ti sembra poco?”. Sospiro sconfitta. “E va bene, trasmette...ehm, rabbia, delusione e disperazione. Almeno, credo sia così”. “Forti come tematiche”. “Già”. Improvvisamente alle sue spalle scorgo una figura venirci incontro e vado nel pallone. Diego si sta avvicinando a noi, vuole parlarmi me lo sento. Leon deve ancora rendersene conto e spero cambi strada, ma pare proprio stia venendo qua. “Vilu”. Lo fisso impassibile ed immobile, non trovo nemmeno la forza di salutarlo. Mi sento maledettamente in colpa per il mio comportamento da stronza, ma al contempo ho maturato l’idea che si sia comportato da coglione ieri sera. Leon si volta all’indietro trovandosi proprio faccia a faccia con l’altro, posso notare la sua mascella serrarsi. “Non credo voglia rivolgerti la parola, sai?”. “Cosa ne sai te? Devi sempre essere in mezzo su tutto?”, sbotta irritato. “Purtroppo sì, in questo caso ci sono fin troppo in mezzo”. Lo ignora e punta lo sguardo verso di me quasi implorandomi. Mi fa male vederlo così distrutto, ma ha sbagliato. Ed io non so davvero che dire. “Smettila, tanto non vuole sentire le tue ragioni anche perché non credo ce ne siano per un’azione del genere”. Lo spagnolo gli lancia un’occhiata di fuoco, posso vedere le sue goti tingersi di rosso in pochi secondi. “Ah, vieni a farmi la morale proprio tu? E’ ridicolo, tu sei ridicolo. La lascio sola per una sera e ti scagli contro di me, ma se tu l’abbandoni per sei mesi nessuno può dirti nulla!”. Cala tutto ad un tratto il silenzio, i due continuano a guardarsi intensamente senza però aggiungere nulla. Quando improvvisamente Leon, il quale era fin troppo calmo, spinge con forza Diego contro gli armadietti afferrandolo per il colletto della felpa. Il rumore metallico rimbomba ancora nella mia testa violentemente, ho la bocca spalancata ed il cuore in gola. “Leon, calmati!”, grido. “No, non mi calmo!”. Nemmeno mi degna di considerazione, la sua attenzione è tutta concentrata sul viso dell’altro che suppongo non veda l’ora di martoriare. “Tu non ti devi permettere, è chiaro? Non mi conosci, non sai chi sono, non sai un cazzo. E’ sempre stato un tuo difetto, sai? Parli solo per dare aria a quella latrina che chiami bocca!”. Inizio a tremare leggermente, ho paura adesso. E’ tutta colpa mia se si è arrivato a tanto, sono io la causa di tutto. “Non mi pento di ciò che ho detto. Mi diverte il fatto che il bue dia del cornuto all’asino”, ribatte flebilmente con un sorrisetto beffardo. “Ah, dunque lo trovi…”. Lo pressa ancora più forte facendo un altro gran frastuono. “…divertente, eh?”. “Leon: ti prego, basta”, ma m’ignora. “E’ inutile che lo preghi, Vilu. Tanto sai benissimo com’è fatto il tuo adorato amichetto, non sa mai tenere le mani in tasca…”, fa una pausa per poi dire quasi in uno sputo di veleno: “…soprattutto se qualcuno offende la sua mammina”. Mi si chiude la bocca dello stomaco: il grattacielo, Moises, il suo passato. Questo non lo doveva dire, mi sento arrabbiata al posto suo. Adesso è un uomo morto, sicuro. Leon ci mette un po’ per incassare col capo chino, dopodiché, da una situazione di pacatezza, sferra un pugno dritto nel volto di Diego facendolo cadere a terra. E’ quel che si merita in un certo senso. Non faccio in tempo a realizzare ciò che è successo che si sta piegando su di lui per punirlo ancora, sono certa che voglia finirlo in ogni maniera possibile. Gli occhi mi si velano di lacrime. “Basta, Leon, basta! Abbiamo capito, smettila!”. Inizia a prenderlo a pugni, per fortuna passano di là Cris e Pablo che, allarmati, corrono verso di noi capendo subito ciò che sta accadendo. Afferrano entrambi un braccio ciascuno e cercano di staccarlo a fatica, ma alla fine ci riescono. Nel frattempo arriva pure Ludmilla che si porta una mano alla bocca, mi lancia un’occhiata scioccata per poi chinarsi verso il suo amico e cercare di reggerlo in piedi. Tutti sono in azione: due tengono fermo Leon, Lud sostiene Diego. Io invece sono ancora scossa e paralizzata. “Giuro che se ti rivolgi ancora così a me, ti ammazzo!”, urla braccato dai due amici. Poso lo sguardo su Diego: ha lo zigomo arrossato ed un rivolo di sangue che cola dalla narice, ma niente di grave. O meglio, l’hanno fermato prima che potesse procurargli qualcosa di grave. “Non ho alcun motivo per rispettarti, stronzo!”. “Nemmeno io!”, ringhia cercando di dimenarsi, ma è bloccato. So che muore dalla voglia di spiattellargli un altro gancio destro. “Qualcuno mi spiega succede?”. Ci giriamo in direzione della voce, mancava solo lei. Il respiro si fa pesante, non vorrei che pensasse che non stia portando a termine ciò che ho promesso. “Leon?”. Mi passa accanto per raggiungerlo e gli si piazza dinnanzi. “Allora?”. “Stiamo cercando di capirlo anche noi”, spiega Cris. Con uno strattone riesce finalmente a liberarsi, ma, invece di rispondere, squadra tutti con odio. Quando i nostri occhi s’incontrano, noto che i lineamenti si rilassano e pare quasi voglia scusarsi con me. Poi improvvisamente si volta di scatto all’indietro per inviarsi lungo il corridoio rabbiosamente, Cristobal e Pablo dal loro canto lo inseguono mentre Raquel mi lancia una frecciata e se ne va da tutt’altra parte con le braccia conserte sotto il seno. Diego si tasta il viso per sentire se c’è qualcosa di rotto, ma è tutto a posto. “Vado in bagno a risciacquarmi”. Solo adesso che il suo rivale se n’è andato si concede il lusso di mostrare la sfumatura dolorante nel suo tono. “Ti accompagno!”. “Se proprio vuoi”, dice massaggiandosi la mascella. “Lud, aspetta”, la trattengo per un braccio. Una fitta allo stomaco m’investe non appena carpisco l’espressione quasi disgustata dal mio tocco. Cos’ho fatto? Non è mica colpa mia se Diego ha fatto il coglione e, dirò, secondo me è già tanto che non lo abbia picchiato a sangue. “Non mi toccare”. “Ma? Cosa…”. “Credevo fossimo amiche”. Sgrano gli occhi sorpresa, non ho fatto nulla per mettere in discussione la nostra amicizia. Mi osserva carica di delusione, prende a braccetto il suo amico e si allontana da me lasciandomi sola. Ed ancora una volta ho contro tutto il mondo.
 
 
ANGOLO DELL’AUTRICE
Hey bestioline! Come va? Spero bien! Avete passato bene le festività natalizie? Btw, io le odio ma dettagli. Che ne pensate del capitolo? Vi è piaciuto? Spero di sì. *incrocia le dita* Adesso non venitemi ad accusare che ci sia poca Leonetta che ho dedicato un capitolo intero a loro! Ah, ma dunque nel prossimo ci sarà la Battaglia di band? Chissà cosa succederà. *coff coff* Voglio complimentarmi con chi aveva optato per Leon il capitolo scorso, bravi perché avete indovinato anche se a mio parere era palese fosse lui. E niente, non voglio dilungarmi più di tanto! Grazie mille per il sostegno e l’amore che dimostrate sempre per le mie storie, grazie di cuore. Risponderò con calma a tutti dal momento che ora sono in vacanza e sono passati i ‘giorni di fuoco’ in cui ero impegnata da mattina a sera.
Un besito e stay tuned (troppe novità nel prossimo),
Gre :3
  
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