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Autore: S i l v e r    29/12/2014    0 recensioni
Che speranze avevo? Quali!
Ringhiai, lasciandomi cadere a terra, abbracciandomi, mentre sentivo un freddo più pungente di quello dell’aria, poiché era quello dell’animo che era gelato come una pietra, duro come il marmo e tagliente come la carta.
[...]
Lo odiai, lo feci con tutto me stesso, perché ancora lo amavo e lo avevo capito; ero davvero un dannato masochista a farmi trattare in quel modo, a farlo giocare col mio cuore che dopo così tante ferite che iniziavano a essere sanate, si riaprivano, laceravano, più profonde di prima.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ogni dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro. E non basta un'eternità a cancellarlo
- Dino Buzzati
 
 
 
Era inutile tentare di chiudere i miei sentimenti dietro una porta. Quella sarebbe stata solo di semplice cristallo; si sarebbe incrinata piano, senza far rumore e alla fine, alla minima pressione, si sarebbe frantumata in una cascata di frammenti lucenti.
Quella porta era il mio cuore e ora, dopo anni, la vedevo. Lì, piena di crepe, pronta a rompersi e senza alcuna possibilità di essere riparata.
Era proprio a causa di questa che lo avevo perso, per sempre. Che speranze avevo ancora? Lo avevo ferito, gli avevo nascosto la verità che credevo lo avrebbe protetto, ma che in realtà aveva fatto tutto il contrario. Il silenzio, quale subdola arma e soluzione; peggiorava solo le cose.
Sferrai un pugno contro la finestra, la sentii andare in frantumi come quella porta che avevo colpito all’interno della mia anima. Il sangue scendeva copioso dalla ferita piena di frammenti trasparenti e taglienti, che pungevano, ma che non facevano male tanto quanto la consapevolezza.
Che speranze avevo? Quali!
Ringhiai, lasciandomi cadere a terra, abbracciandomi, mentre sentivo un freddo più pungente di quello dell’aria, poiché era quello dell’animo che era gelato come una pietra, duro come il marmo e tagliente come la carta.
Dondolai su me stesso, mentre lacrime salate scendevano dal mio viso inumidendolo, lasciando che il mio dolore invadesse sordo ed invisibile il mondo sporco e corrotto, pieno di disperazione.
Era stata tutta colpa mia, solo mia. Se solo glielo avessi detto; se solo fossi stato sincero…
Eravamo bravi noi umani a versare lacrime sul latte versato. Strano come ci guardassimo sempre indietro per vedere ciò che avevamo perso, per contare ciò che ci eravamo fatti fuggire dalle mani.
Bastava poco, così poco per soffrire, per provare nostalgia; per comprendere cosa fosse importante e neppure lo sapevamo.
Forse era la nostra dannazione eterna, il passato, intendo, ma anche la perdita.
-Oliver… - sussurrai, portandomi le mani al viso e coprendole, singhiozzando come non avevo mai fatto prima. Non avevo perso solo il mio unico amore, ma anche mio fratello. Non avrei mai più potuto ricucire né l’uno, né l’altro rapporto e se ci fossi riuscito, ma me lo fossi fatto scivolare ancora via, come un velo di seta bianco portato via dal vento allora sarei stato un masochista.
Se ti fai male una volta è umano, se ti fai del male una seconda allora la colpa è solo tua.
 
*
 
Piangevo, piangevo rinchiuso nella soffitta, sotto la finestra rotonda che lasciava filtrare la luce lunare.
Ero rannicchiato su me stesso, come fanno i ricci quando sono spaventati, ma io non avevo aculei; solo lacrime.
Con le gambe premute contro il petto come uno scudo e le braccia che le racchiudevano tentavo di non far uscire il mio cuore dalla sua posizione. Lo sentivo battere all’impazzata, fremere e contorcersi, quasi una mano lo avesse in pugno e lo stesse stringendo con violenza per ridurlo in polvere.
Come poteva dopo tutto quel tempo venirmi a dire che non ero il suo vero fratello? Come!
Come aveva potuto giocare così non solo coi suoi sentimenti, ma anche con i miei?
Amore. Aveva detto di amarmi, ma era davvero così? Come poteva farlo quando aveva fatto di tutto per allontanarmi da lui?
Mi veniva da ridere, ma faceva tutto così male. Mi sentivo schiacciato da un peso così opprimente che pensai che la morte sarebbe stata una scelta migliore, ma era anche vero che ero già morto. Sì, lo ero, perché lui mi aveva sparato dritto al cuore quando mi aveva detto tutta la verità, ogni singola, piccola, minuscola, goccia.
Lo odiai, lo feci con tutto me stesso, perché ancora lo amavo e lo avevo capito; ero davvero un dannato masochista a farmi trattare in quel modo, a farlo giocare col mio cuore che dopo così tante ferite che iniziavano a essere sanate, si riaprivano, laceravano, più profonde di prima.
Mi mancava la sensazione di essere solo fratelli, quella in cui io non desideravo le sue labbra, il suo corpo premuto contro il mio e i suoi abbracci sapevano semplicemente di rugiada e di delicatezza e non di passione e violenza, urgenza e dolore.
Quante volte ero morto per ottenerne uno solo? Quante volte mi ero ferito a sangue per poter avere la sua mano nella mia? Tante, troppe.
Era colpa mia, però. Più mia che sua, perché avevo lasciato che mi ferisse, che mi accoltellasse e mi uccidesse lentamente, ogni giorno, ogni notte, ogni maledetto secondo della mia vita.
Dovevo smetterla di amarlo, dovevo smettere di desiderare la lama e non la farfalla.
Perché gli uomini dovevano desiderare sempre ciò che faceva loro più male? C’era una qualche sorte di legge non scritta naturale che spiegasse tutto questo? Che fosse stato inciso in minuscole lettere nel nostro DNA da Dio stesso?
Droga, sesso, alcol, fumo e sangue. Ecco cosa amava l’essere umano, qual era la sua maledizione e la sua distruzione. Cinque cose che ti facevano dipendente, che ti distruggevano lentamente dall’interno fino a risalire e trasparire dal tuo corpo; dapprima dagli occhi e poi dalla pelle.
E Vincent cos’era se non tutte e cinque quelle cose insieme? Era droga perché non riuscivo a restargli lontano, mi serviva la sua presenza, che si insinuava nei miei polmoni come il fumo di una sigaretta che dava al mio corpo la nicotina che rilassava ogni mio muscolo, ma che mi bruciava la gola come alcol che scendeva lungo di essa per giungere nel mio stomaco e riempirlo come quando si faceva sesso, grazie al liquido di passione che si rilasciava e si liberava veloce come il sangue che ti circolava nelle vene che trascriveva e macchiava ogni cosa indelebilmente, per sempre, anche quando non ve ne sarebbe stata più traccia evidente.
Piansi, piansi ancora e quando sentii dei vetri andare in frantumi credetti solo che fosse un’allucinazione, la trasposizione della mia anima che andava in pezzi e si squarciava dilaniata dal dolore, dal rimpianto e dall’indecisione.
Mi stava scoppiando la testa, tanto quanto mi bruciavano gli occhi e i polmoni a causa del respiro spezzato.
Qual era la scelta più giusta? 
Amarlo o lasciarlo andare per sempre?
 
 
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I personaggi derivano da one One Shot di Gleach che potete trovare qui, ma in questa OS si muovono in un contesto e una situazione diverso da quelli originali:
www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1962776&i=1
   
 
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