Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Emily Alexandre    31/12/2014    1 recensioni
Nella notte di capodanno del 1920, nel cuore di Chicago la famiglia Campbell aspetta la mezzanotte con gli amici più cari.
Un ragazzo di campagna arriva in città lasciandosi il passato alle spalle. Una ragazza attende che arrivi il suo abito da NYC. Un violinista è alla ricerca della sua ispirazione. Una cantante senza passato aspetta che lui arrivi. Due fratelli fanno i conti con la fine della guerra. E con l’amore.
“I minuti scorrono l’uno dopo l’altro in una danza inesorabile al pari del movimento delle onde che si infrangono sulla spiaggia, il tempo non ci aspetta e non si risparmia e un nuovo anno sta morendo, per lasciare posto al successivo, ma possiamo davvero smettere di vivere perché sappiamo che dovremo morire? Possiamo smettere di sognare, di desiderare, di emozionarci? Ogni anno ci si augura che l’anno seguente sia migliore di quello che lo ha preceduto, ma io ringrazio questo 1920 che si sta concludendo. Abbiamo combattuto una guerra terribile e ci siamo rialzati, zoppicanti, provati, con il volto segnato dal dolore, ma siamo qui, insieme, e io oggi voglio celebrare la vita: che questo 1921 sia un nuovo inizio.”
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Così i nostri minuti si affrettano verso la fine

 

Like as the waves make towards the pebbled shore, 
So do our minutes hasten to their end; 
Each changing place with that which goes before,
In sequent toil all forwards do contend. 
Nativity, once in the main of light, 
Crawls to maturity, wherewith being crown'd,
Crooked elipses 'gainst his glory fight, 
And Time that gave doth now his gift confound.
Time doth transfix the flourish set on youth 
And delves the parallels in beauty's brow, 
Feeds on the rarities of nature's truth, 
And nothing stands but for his scythe to mow: 
And yet to times in hope my verse shall stand, 
Praising thy worth, despite his cruel hand. 


William Shakespeare - Sonetti
 
 


Chicago
Notte di Capodanno del 1920


 
Una cacofonia di voci, un vortice di profumi e colori che si avvicendavano lungo le banchine e nell’androne centrale della stazione situata nel cuore di Chicago lo colpirono non appena scese dal treno, spingendolo a stringersi nel cappotto, forse per il freddo di quel dicembre, forse alla ricerca di un barlume di conforto. L’istinto gli suggeriva di prendere il primo treno per tornare a casa, immaginò la sua numerosa famiglia davanti alla tavola imbandita e il suo sguardo andò al botteghino per la vendita dei biglietti, poi però se li figurò recarsi in Chiesa cercando di evitare i bisbigli che li avrebbero certamente perseguitati per quel figlio caduto in disgrazia: senza di lui, sarebbe stato più facile per loro andare avanti.
«Perdonatemi, signore.»
Una voce femminile interruppe il flusso dei suoi pensieri e quando si voltò incrociò due occhi azzurri e gentili.
«Probabilmente è davvero inopportuno da parte mia, ma avete l’aria di una persona che non sa cosa fare. Posso aiutarvi?»
Il ragazzo arrossì e le lentiggini sul suo volto parvero accentuarsi. «Non siete inopportuna, siete oltremodo gentile. Vengo da un paese di poche anime vicino Salt Lake City e questa realtà per me è totalmente nuova. Devo arrivare a Huron Street, sapete da che parte si trova?»
La ragazza gli sorrise, tendendogli la mano. «Per prima cosa, io sono Victoria Brandon.»
«Perdonate la mia maleducazione, posso assicurarvi che solitamente non sono così. Il mio nome è Marshall Wood.»
«Non scusatevi, Chicago può far perdere il senno al pari del canto di una sirena. Conosco Huron Street e non potete arrivarci a piedi, è troppo lontana, né troverete un taxi a quest’ora del 31 dicembre, ma posso portarvici io, sto aspettando che mi arrivi un pacco da New York, poi dovrò tornare a casa, che è poco lontana da dove dovete andare voi.»
Il ragazzo la pregò di non incomodarsi per lui, ma Victoria fu irremovibile e gli sarebbe stato difficile negare qualcosa ad una ragazza che sembrava essere uscita da un libro di fiabe, tanta era la dolcezza che emanava. Sarebbe stata l’eroina perfetta per un romanzo. Quel pensiero arrivò all’improvviso, mentre sfrecciava al suo fianco per le strade della città, e la sua mano sfiorò istintivamente la valigia poggiata in grembo, che conteneva solo pochi vestiti e il suo bene più prezioso, il regalo di sua sorella quando aveva deciso di partire: una macchina da scrivere usata, ma ancora in perfette condizioni.
«Siete in città in visita per le celebrazioni di fine anno?»
«No, mi sono trasferito per lavoro.»
Marshall era un giornalista al suo primo vero ingaggio: sin da bambino aveva dimostrato una predisposizione per le lettere, tanto che i genitori avevano creduto in lui fino al punto da mandarlo all’università e nessuno si era stupito quando uno dei più importanti quotidiani degli Stati Uniti aveva risposto alla sua lettera. Certo, il Chicago Tribune non era il New York Times, ma sarebbe stato un ottimo trampolino di lancio poiché, se si sorvolava sulle spiccate prese di posizione politiche, era stato il primo giornale a pubblicare il testo del Trattato di Versailles, pochi anni prima, risvegliando l’attenzione degli americani.
«Congratulazioni allora. A Huron Street vi aspetta la vostra famiglia? O forse degli amici?»
Marshall fece per spiegarsi, ma si fermò comprendendo il senso della domanda: erano le sei di sera dell’ultimo giorno dell’anno e a quella ragazza si sarebbe spezzato il cuore se avesse scoperto l’inesistenza di qualsiasi parentela o conoscenza a Chicago, se avesse saputo che avrebbe trascorso le festività da solo.
«Sì, certamente, ma anche voi avrete una festa a cui partecipare, non voglio farvi fare tardi.»
«Se farò tardi, sarà per colpa dell’atelier di New York che mi ha consegnato solo oggi l’abito per stasera.» replicò indicando con un cenno il pacco che giaceva sul sedile posteriore, «La vostra destinazione è a pochi minuti dalla mia, quindi non preoccupatevi. Eccoci, Huron Street. A che numero?»
«Va bene qui, davvero.»
Sorrise a Victoria, profondendosi in ringraziamenti, poi abbandonò il caldo della vettura per avventurarsi lungo la strada coperta di neve fino al civico 221, dove scoprì un angolo di casa in quel mondo così estraneo: la villetta era piccola e accogliente e quasi stonava tra gli alti palazzi che la circondavano.
Bussò alla porta timoroso su chi l’avrebbe accolto e pochi secondi dopo una signora, i cui abiti scuri contrastavano con il volto allegro, gli aprì la porta e Marshall, istintivamente, si tolse il cappello e sorrise.
«Mrs. Watson?»
«Sì, sono io.»
«Sono Marshall Wood, signora.»
Gli occhi chiari della donna si illuminarono di stupore. «Oh, il giornalista! Non pensavo arrivaste proprio stasera, stavo per andarmene.»
«Mi dispiace.»
«Non ce n’è ragione, mia sorella mi aspetterà. Venite, vi mostro l’appartamento. Qui abito io.» continuò accennando alla porta davanti l’ingresso e vicino alla scalinata che conduceva al piano superiore. «Per qualsiasi cosa, potete chiedere a me, sarò lieta di potervi essere utile. E questo è il vostro appartamento, se deciderete di rimanere. In cuor mio mi farebbe piacere, il vostro sorriso è una piacevole novità.» concluse infine, quando giunsero al secondo piano.
Marshall pensò che per conformazione la struttura sembrava appartenere a un’unica casa, piuttosto che una pensione, ma gli abiti a lutto di Mrs. Watson lo fecero desistere da qualsiasi domanda: quello era l’unico appartamento centrale con un prezzo abbordabile che fosse riuscito a trovare, ed inoltre la signora gli ispirava un’istintiva simpatia, quindi non aveva intenzione di perderlo comportandosi in maniera inopportuna.
«Avevo detto a Mr. Harper di mettere in ordine.
La povera donna si voltò mortificata verso il ragazzo, ma questi non poté fare a meno di scoppiare a ridere: il salone, grande e luminoso grazie alle due grandi finestre, era arredato in perfetto stile vittoriano… Se si fosse riusciti a scorgere il mobilio sotto strati di spartiti e fogli appallottolati dispersi in ogni angolo, per terra, sul tavolino da tè, ai piedi della grande libreria. Un gatto nero se ne stava acciambellato su una poltrona di pelle color caramello davanti al camino, incurante di tutto e tutti, talmente immobile che si sarebbe potuto pensare fosse una statua.
«Lei è Hope. Spero non vi dia fastidio, dovrebbe stare da me, ma sembra adorare il caos di questo appartamento, solo il Signore sa per quale motivo!» commentò alzando gli occhi al cielo.
«Mrs. Watson, vengo dalla campagna, in casa mia vivevamo in venti, più quattro cani e sei gatti. Credetemi, questo non è caos! Piuttosto, mi pare di capire che Mr. Harper sia un musicista.»
«Gli piace spacciarsi per violinista, sì.» commentò cercando di pulire il tabacco caduto da una pipa abbandonata, ma all’improvviso il suo viso di adombrò. «In effetti, era un magnifico violinista, il migliore di Chicago, famoso in tutta America.»
«Era? Cos’è successo?»
«La guerra è successa, mio caro. Ma venite, non voglio rattristarvi, vi mostro l’appartamento.»
Il sorriso tornò sul volto di Mrs. Watson rapido com’era sparito, ma Marshall non poté fare a meno di rimpiangere quella domanda. La signora gli mostrò la cucina e il bagno in comune, dotati di ogni comfort a dispetto del resto dell’appartamento, apparentemente rimasto immutato sin dal 1820.
«Le due camere sono praticamente identiche, questa è quella di Mr. Harper e questa è la vostra.»
Marshall aprì la porta e si trovò davanti ad una spoglia, ma spaziosa camera da letto.
«Mrs. Watson, è tutta per me?»
La donna scoppiò a ridere di cuore. «Venti in una casa, eh? E quanti in una camera?»
«Io la dividevo con mio cugino e con due fratelli più piccoli. Ed era grande la metà di questa.»
«Se la volete è vostra. Mr. Harper ha un carattere un po’ particolare, ma è una brava persona.»
Marshall annuì convinto «La prendo! La adoro! Mr. Harper quando credete tornerà?
«E chi può dirlo? Non l’ho sentito uscire stamane, quindi o sta dormendo, oppure è uscito ieri sera e non è ancora tornato.»
«Sono qui, Mrs. Watson.»
La voce fece sobbalzare entrambi.
«Chi abbiamo adottato questa volta? Spero sia meno invadente di quella gattaccia.»
«Non parlate male della povera Hope, Mr. Harper.»
«Siete l’unica persona al mondo a chiamarmi ancora Mr. Harper
La donna sospirò spazientita e aprì la porta della camera, permettendo a Marshall di guardare all’interno: in un caos non dissimile a quello del resto dell’appartamento, su una poltrona davanti alla finestra sedeva un uomo alto e magro, con la barba leggermente lunga, ma curata, contrariamente alla folta chioma scura che rifiutava di avere qualsiasi forma conoscibile all’occhio umano. Abbandonato sulle sue gambe, con le corde oziosamente sfiorate dalle dita, stava un violino.
«Mr. Wood, questo è Mr. Harper, il vostro coinquilino, nonché l’autore della devastazione che avete potuto ammirare in tutta casa.»
«Oh, è vero!» Mr. Harper si alzò e si batté platealmente una mano sulla fronte, «ho dimenticato di sistemare tutto. Rimedierò.» commento, ben conscio di come non fosse che una promessa al vento. «Piacere di conoscervi, io sono Willard, o W, come preferite.»
Gli tese la mano e l’altro la guardò un istante prima di stringerla, quasi disorientato da quella figura che, seppur magra, sembrava occupare l’itera stanza per la potenza del suo carisma.
«Marshall, piacere. E non c’è problema, non sono esattamente un maniaco dell’ordine.»
Mrs. Watson lo fissò sconsolata, scuotendo la testa, «Non gli date troppa corda, Mr. Wood. Io ora vado, starò da mia sorella fino all’Epifania, ma spero non avrete bisogno di me fino ad allora.»
«Starò benissimo. Buon anno, signora.»
«Buon anno a voi mio caro, e buon anno anche a voi.» continuò verso il musicista. «Andrete da qualche parte, spero.»
Willard alzò gli occhi al cielo, prima di chinarsi a baciarla sulla guancia. «Eglantine mi trascina dai Campbell per cena.»
«Brava ragazza.»
E dopo quella conclusiva approvazione, se ne andò lasciandoli soli e in silenzio.
«La conosce da molto?»
Willard si voltò verso Marshall con l’espressione di chi ne avesse quasi dimenticato la presenza.
«Da tutta una vita, vivevo dall’altra parte della strada da bambino, poi  mi sono trasferito e quando sono tornato, dopo la guerra, non restava più nulla, così sono venuto qui.»
Il giovane fissò il muro imbarazzato. «Mi dispiace.»
«Non esserlo, mi sento più a casa qui di quanto non mi ci sia mai sentito lì. Io e Mrs. Watson ci facciamo compagnia, a modo nostro. Ti ha fatto vedere la casa?»
«Sì, vado a sistemarmi, così tolgo il disturbo.»
 
Willard lo osservò andare via, con il volto in imbarazzo più rosso dei suoi capelli, l’ennesimo trovatello di Mrs. Watson. Non avevano bisogno di un coinquilino, si era offerto mille volte di pagare lui tutte le sue spese, ma la donna si era rifiutata di prendere da lui più soldi di quanti non ne prevedesse l’affitto. In fondo la capiva, la guerra li aveva privati di così tante cose, ma rimanevano loro l’onore e l’orgoglio. Un tempo, lui avrebbe avuto anche la sua musica. Il violino giaceva abbandonato, circondato da fogli scarabocchiati di musiche che non avrebbe mai composto, e sembrava svuotato, privato della sua essenza vitale, proprio come il suo proprietario.
Hope gli si avvicinò in silenzio, come sempre, altra anima tormentata che dimorava tra quelle mura quasi non riuscisse neppure lei a dimenticare l’orrore che l’aveva circondata prima che la trovassero nascosta sotto corpi abbandonati e privi di vita. Marshall era giovane, non aveva vissuto la guerra, eppure nel suo sguardo poteva leggere lo stesso tormento antico che non abbandonava nessuno di loro, la tristezza di chi è stato privato di qualcosa e è stato costretto a ricostruirsi dopo essere stato fatto a pezzi. 
Forse non avrebbe fatto di tutto per cacciarlo.
Forse lui sarebbe rimasto.
Non sapeva quale fosse la sua storia, ma era sicuro che prima o poi l’avrebbe scoperta.
«Andiamo, Hope, facciamo un falò.»
Raccolse tutti i fogli sparsi per casa e li gettò nel camino, poi si fermò ad osservare le proprie note accartocciarsi nelle fiamme prima ancora di avere la possibilità di essere suonate, finchè un pensiero non sopraggiunse.
«Che farete questa sera?»
Marshall fece capolino dalla stanza. «Starò qui, immagino.»
«Ah no, troppo facile: se a me non è consentito stare in pace stasera, non lo permetterò a voi. Verrete con me.»
L’altro comprese immediatamente che qualsiasi replica sarebbe stata inutile e mezz’ora dopo bussavano alla porta dei Campbell, con due bottiglie di whisky in mano e l’aria di chi avrebbe volentieri evitato di trovarsi lì.
 
La prima immagine che Marshall ebbe di quella casa, e che avrebbe sempre conservato nella memoria, fu quella di una casa imponente ed elegante, con un enorme abete decorato che troneggiava nella sala da pranzo e una splendida donna che scendeva le scale.
«Mrs. Campbell, siete splendida.» Willard sfoggiò un elegante baciamano, «Vi ringrazio per l’invito. Vi presento Mr. Marshall Wood, il mio nuovo coinquilino: mi sono permessa di portarlo, è appena giunto a Chicago e avrebbe trascorso la notte solo in casa.»
La donna sorrise loro e Marshall ne ammirò la bellezza che il tempo non sembrava aver neppure sfiorato. «Avete fatto benissimo. Mr. Wood, è un piacere conoscervi.»
«Grazie signora. Avete una bellissima casa. È un albero di Natale, quello? Ne ho sentito parlare, ma non ne avevo mai visti.»
«Sì, lo è. È stata un’idea della fidanzata di mio figlio, i cui genitori sono inglesi.
Mr. Harper, perché non andate in salone dai ragazzi? Io vado a dare le ultime disposizioni per la cena.»
Si allontanò in una scia di profumo delicato e Marshall la seguì con lo sguardo, finché Willard non richiamò la sua attenzione per presentarlo al resto dei convitati. Marshall era sempre stato abituato ad essere circondato da una famiglia numerosa e da amici che si presentavano a casa ad ogni ora, ma in quel momento si sentì un pesce fuor d’acqua, tanta era la bellezza e l’eleganza racchiusa in quella stanza: i quattro uomini erano impeccabili in smoking, mentre l’unica donna presente sfoggiava un abito blu notte a frange, come voleva la moda del tempo, con una profonda scollatura sulla schiena, e al collo e tra i capelli biondi facevano mostra di sé luminose perle bianche.
Fu proprio lei ad alzarsi per prima, andando ad abbracciare Willard. «Pensavo ci avresti abbandonato all’ultimo minuto, ero già pronta a venire a casa tua, vero Chris?»
L’interpellato alzò gli occhi chiari al cielo, «Grazie per avermi risparmiato il viaggio, W. E piacere di conoscervi, Mr. Harper. Vi spiace se vi chiamo Marshall? Io sono Christopher Campbell, il figlio della magnifica signora che vi ha accolto, mentre loro sono mio padre, mio fratello Paul e un nostro caro amico, Elijah Douglas.»
«Piacere di conoscervi.»
Il più giovane dei fratelli Campbell servì loro da bere e Marshall si voltò verso Willard, senza trovarlo però al suo fianco, bensì impegnato in una fitta conversazione con Mrs. Eglantine Wright.
«Da quanto tempo siete a Chicago, Marshall?»
«Da poche ore, in effetti. Inizierò un nuovo lavoro domani, al Chicago Tribune
«Un giornalista, dunque.» commentò Christopher, per poi fermarsi al suono del campanello. «Paul, la tua fidanzata è arrivata!»
Il ragazzo si accodò alla fila che si era andata formando verso l’ingresso giusto in tempo per veder entrare una rigida coppia di signori vestiti in nero e, alle loro spalle, un delizioso folletto dai capelli biondi il cui sorriso sembrava rischiarare l’intera sala e che Marshall impiegò pochi istanti a riconoscere.
Victoria, al contrario, era troppo impegnata a complimentarsi con Mrs. Campbell per l’abito e i gioielli e poi a salutare il resto degli invitati per notare un volto nuovo prima che gli fosse presentato: solo a quel punto, quando Paul fece le presentazioni, si gelò sul posto, facendo arrossire Marshall violentemente.
«Voi?»
Paul rimase interdetto, chiedendosi come facesse la sua fidanzata a conoscere un ragazzo giunto solo poche ore prima a Chicago, ma fu proprio lui a interrompere l’imbarazzo.
«Miss Brandon poc’anzi è stata così gentile da prestare soccorso a una povera anima persa nella stazione.»
«E siete l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere qui.»
«E io non mi aspettavo affatto di esserci, ma Mr. Harper, il mio coinquilino, ha insistito.»
A quelle parole, Victoria recuperò il suo sorriso, rivolgendolo all’interpellato. «W, alla fine Mrs. Watson ha vinto.»
«Voi donne, per motivi a me incomprensibili, finite con il vincere sempre.» rispose quello, alzando gli occhi al cielo. «Vi accorgerete, Marshall, che Chicago sa essere piccola quanto il vostro paese, credetemi. E ora andiamo, Mrs. Campbell scalpita per averci a tavola.»
 
La grande sala da pranzo aveva forma rettangolare e uno dei lati lunghi era interamente costituito da vetrate che si affacciavano sul giardino, illuminato per l’occasione da numerose fiaccole. Mrs. Campbell aveva sfoggiato tutta la sua eleganza per organizzare quella serata, probabilmente anche per dimostrare, più a se stessa che agli ospiti, di essersi rialzata: la guerra aveva costretto moltissime famiglia ricche ad impegnare i proprio mobili e l’argenteria per riuscire a far fronte alle spese, e anche i Campell erano stati costretti a ricorrervi, ma erano stati più fortunati di molti altri.
Sulla tavola argento e cristalli brillavano alla luce dei lampadari e tutto attorno le decorazioni natalizie riscaldavano l’atmosfera.
«Victoria, fatti ammirare, quel vestito ti sta d’incanto.»
La ragazza sorrise a Eglantine e assecondò il desiderio volteggiando nel suo abito di seta rossa ricamato in georgette, che aveva ordinato a New York mesi prima, quando aveva accompagnato la futura suocera.
I suoi genitori lo detestavano, lo aveva letto nei loro occhi benché non avessero espresso il loro pensiero; non era stato facile convincere suo padre a farle abbandonare corsetti e gonne rigide, ma da un anno, al compimento dei suoi diciassette anni, aveva iniziato a vestirsi secondo la moda del tempo.
Victoria Brandon non aveva mai posseduto un animo vanitoso e si sentiva spesso un pesce fuor d’acqua in quell’America che non comprendeva, dove l’importante era apparire e lo scintillio degli abiti copriva le ombre e le crepe che la guerra aveva lasciato. Era nata a Chicago, ma la casa in cui era cresciuta era un piccolo angolo d’Inghilterra: ogni istante, ogni azione della sua giornata erano dettati dalle regole del rigido regno di Victoria I, quasi il tempo si fosse fermato e lo spazio non avesse importanza.
Il Conflitto Mondiale, però, aveva costretto anche loro ad affrontare la vita e Victoria aveva scoperto per la prima volta il mondo, sporco, sì, imbrattato di sangue, ma vivo e palpitante come mai era stata la sua vita fino ad allora.
La pace aveva riportato Mr. e Mrs. Brandon a quella che era stata la loro normalità, ma chiudere gli occhi della figlia su un mondo che aveva appena iniziato a scoprire era stata un’impresa impossibile, soprattutto dopo il fidanzamento con Paul Campbell.
Era stato un fidanzamento fortemente voluto da entrambe le parti: i Campbell avevano bisogno di liquidità per far ripartire la fabbrica di tessuti a pieno ritmo, e Victoria, con la sua dote, nonché nel suo essere unica erede del patrimonio del padre, assolveva allo scopo. Per i Brandon, invece, l’unione con una delle più importanti e benvolute famiglie di Chicago avrebbe permesso loro di entrare finalmente nell’elite della città, che li aveva sempre visti come stranieri.
Victoria e Paul avevano acconsentito, ma la ragazza sapeva che inizialmente il matrimonio era stato fortemente osteggiato da Amethyst Campbell: lei, che si era sposata per amore, detestava l’idea che i suoi figli non lo facessero, ed inoltre Victoria, così banale, così compita e antica, era terribilmente lontana dal suo ideale di donna.
Mrs. Campbell era la regina della moda di Chicago, i suoi abiti parevano sempre ventagli di colori, e il marito le riservava le stoffe più preziose in commercio per il suo atelier; persino durante la guerra, con la fabbrica impiegata a rifornire l’esercito del necessario e non certo ad assecondare i vizi delle donne, era riuscita ad essere impeccabile. Seguendo le mode d’oltreoceano, dettate dalla stilista francese Coco Chanel, Amethyst  aveva vestito le donne di Chicago creando abiti che si adattassero all’opprimente atmosfera e alle necessità primarie ma che, al tempo stesso, erano un inno alla speranza e alla rinascita.
Victoria l’aveva ammirata silenziosamente per anni e, appena ne aveva avuto l’occasione, le aveva chiesto di prenderla sotto la sua ala: i genitori non approvavano, ma sapevano che avrebbero avuto ancora per poco tempo voce in capitolo, così limitavano la disapprovazione alle occhiate.
Sorrise alla futura suocera e prese posto a tavola, davanti a Paul e vicino, con suo disappunto, a Marshall.
«So di avervi mentito e vi chiedo scusa.»
Avevano iniziato a mangiare già da alcuni minuti quando il ragazzo le rivolse per la prima volta la parola e lei si limitò ad ascoltare.
«Eravate così entusiasta per questi festeggiamenti che non ho avuto il cuore di rivelarvi di non avere nessuna famiglia o amici ad attendermi: sono qui per un nuovo lavoro e progettavo di passare la serata a casa, ma Mr. Harper ha insistito per portarmi con sé. Vi chiedo scusa, voi siete stata così gentile e io...»
«Non scusatevi più.» Victoria gli sorrise, il risentimento passato in un attimo. «Sono felice di sapervi qui e non da solo a casa e spero che avremo modo di trascorrere del tempo insieme. Anche io spesso mi sento fuori luogo in questa città.»
«Non lo sembrate affatto.»
«Chicago sa essere spietata.»
Marshall sorrise a sua volta, lieto di aver trovato un volto amico: gli altri sembravano splendide persone, ma Victoria era l’unica, tra tutti, ad apparire genuina.
La cena trascorse serenamente, poi gli uomini si allontanarono per fumare sigari e bere brandy  in biblioteca, come da tradizioni dure a morire nonostante il Proibizionismo, ricongiungendosi alle quattro donne solo poco prima della mezzanotte.
«E così, mia adorata, anche questo 1920 sta volgendo al termine.» Charles Campbell baciò le mani della moglie e le porse un bicchiere di champagne, recuperato chissà come e chissà dove da Chris, «Voi però siete bella come quando vi incontrai.»
«I segni del tempo ci sono, mio caro, ma voi potete adularmi quanto volete: fa bene al cuore.»
«La nascita,una volta nel regno della luce, striscia verso la maturità, e contro il suo splendore lottano le eclissi maligne, ed il tempo si riprende i doni che generosamente aveva dato. Il tempo rovina la gioventù e scava le rughe sul volto della bellezza, e niente di ciò che vive in natura è risparmiato dalla sua falce.»
Eglantine posò il bicchiere sul tavolo più forte del dovuto, poi ingentilì il gesto con un sorriso. «W, è la notte di San Silvestro, ti prego.»
Di risposta, questo alzò le spalle in un gesto noncurante che sembrò porre fine a quello spiacevole intermezzo, ma Mrs. Campbell si alzò e prese la parola, stringendo il bicchiere di champagne tra le dita sottili.
«Ma nel tempo i miei versi resisteranno per narrare il tuo valore contro la sua mano crudele. Voi avete ragione, Mr. Harper: i minuti scorrono l’uno dopo l’altro in una danza inesorabile al pari del movimento delle onde che si infrangono sulla spiaggia, il tempo non ci aspetta e non si risparmia e un nuovo anno sta morendo, per lasciare posto al successivo, ma possiamo davvero smettere di vivere perché sappiamo che dovremo morire? Possiamo smettere di sognare, di desiderare, di emozionarci? Ogni anno ci si augura che l’anno seguente sia migliore di quello che lo ha preceduto, ma io ringrazio questo 1920 che si sta concludendo. Abbiamo combattuto una guerra terribile e ci siamo rialzati, zoppicanti, provati, con il volto segnato dal dolore, ma siamo qui, insieme. Per questa ragione io oggi voglio celebrare la vita, che non è facile, ma è un dono e ogni anno è un nuovo inizio che deve essere vissuto facendo tesoro del passato, ma senza permettergli di schiacciarci. Quindi brindo a voi, al mio meraviglioso marito, àncora costante della mia vita, ai miei due figli, che sono la mia gioia, e agli amici, vecchi e nuovi: che questo 1921 sia un nuovo inizio.»
Il primo rintocco coprì l’ultima parola e tutti tacquero, in attesa, mentre il pendolo riempiva l’aria con il suo suono e il 1920 moriva, per permettere a un nuovo anno di nascere.
 
C’erano stati gli auguri, gli abbracci e i sorrisi: per Victoria, quello sarebbe stato l’anno del suo matrimonio, l’anno in cui Miss Brandon sarebbe diventata Mrs. Campbell e ne era entusiasta. Paul, con i suoi modi gentili e i suoi occhi grigi era quanto di meglio potesse desiderare e sperava che con il tempo avrebbero imparato ad amarsi.
Quasi all’una del mattino i ragazzi decisero di uscire, così i suoi genitori si prepararono per tornare a casa, ma prima Victoria corse nella biblioteca per prendere in prestito un altro libro di Jane Austen: non era sicura che Mr. Darcy le fosse piaciuto, ma Mrs. Campbell prometteva meraviglie riguardo Mr. Knightley.
Appena entrata, però, si bloccò, riconoscendo Chris vicino al tavolo dei liquori.
«Io... Non volevo disturbare... Devo solo...»
Balbettava, come sempre accadeva alla presenza del ragazzo.
«Dovresti smettere di guardarmi come se fossi un mostro, sai? È vero, sono un libertino, adoro le donne ma detesto i legami, ma questo non vuol dire che sia una sorta di violentatore di vergini, come sembra dipingermi tuo padre.»
«Io non...»
Christopher si voltò verso di lei e Victoria tacque: come poteva negare l’evidenza?
«Forse non sono la persona migliore del mondo, ma c’è una cosa che devi sapere: non ferirei mai mio fratello e tu diventerai sua moglie, quindi in me avrai un amico, se vorrai, o un semplice conoscente, ma mai un nemico, almeno finché non ferirai Paul.»
«Non ho intenzione di farlo.»
«Bene. Quindi smetti di fuggire da me.» concluse tendendole un bicchiere, che Victoria prese titubante e di cui assaggiò appena il contenuto. Aveva bevuto qualcosa di alcolico quella sera per la prima volta, sorseggiando lo champagne del brindisi, ma non era pronta ad altro.  
«Gli vuoi molto bene, vero?»
Chris sorrise: Victoria non aveva idea di quanto stretto fosse quel legame e di quanto lo riguardasse personalmente. Apparentemente, i fratelli Campbell erano sempre stati diversi: l'uno studioso e riflessivo, il preferito del padre, l'altro donnaiolo e spendaccione, sempre oltre il limite del lecito, la gioia della madre che adorava quel suo primogenito che le ricordava il fratello perduto in guerra. Eppure, oltre quelle facciate erano più simili di quanto si sarebbe potuto immaginare e visceralmente legati l’uno all’altro. Paul aveva acconsentito al matrimonio perché anni prima, benché esentato dalla leva per la pressione sanguigna troppo alta, aveva smosso mari e monti per partecipare, se non attivamente, almeno alle centrali operative militari. Era partito per Washington e Christopher era dovuto rimanere a casa perché loro padre, reduce da un infarto a cui era sopravvissuto a stento, non poteva mandare avanti la fabbrica da solo: aveva modificato l’operato alle esigenze belliche, producendo uniformi, tende da campo, paracaduti e qualsiasi cosa potesse servire alla guerra, ma il guadagno era stato appena sufficiente a tenerli a galla e di questo entrambi, seppur per motivi diversi –l’uno per non aver fatto abbastanza, l’altro per essere scappato invece di rimanere ad aiutare- si incolpavano. Chris avrebbe sposato Victoria senza pensarci un istante, sollevando Paul da quel compito, se i Brandon non avessero messo un veto irremovibile sul maggiore dei fratelli. Victoria era deliziosa, univa il cuore delle americane all’eleganza delle inglesi, ma non era sufficiente per Paul. Non era La Bella.
«Devo andare. Io, libertino impenitente, andrò a far baldoria.»
La ragazza gli sorrise e lo fermò per lasciargli un bacio sulla guancia, «Buon anno Chris.»
«Buon anno, splendore.»
***
 
Il Roses era particolarmente affollato in quell’ultima e prima sera dell’anno, più di quanto non fosse di solito: la guerra si era appena conclusa e tutto ciò che gli americani desideravano era godersi quella vita che avevano rischiato di perdere.
L’aria del locale era pregna del fumo dei sigari, al cui odore acre si mischiava quello dei liquori serviti in abbondanza e dei profumi delle donne che, avvolte in abiti succinti e scintillanti, gridavano al mondo la propria indipendenza.
Sembrava essere finito il tempo degli uomini che si godevano la vita mentre le mogli li attendevano a casa: le donne reclamavano sempre più spazio nella società e, ammirandole in quella girandola di perle e paillettes, lascivamente sedute sui divanetti in tessuto rosso, ci si chiedeva se non fosse davvero giunto il loro momento.
Donna tra le donne, vi era Elena, la Bella. L’aveva chiamata così anni prima un italiano a cui il suo volto ricordava Giulia la Bella Farnese, la cortigiana del papa Borgia.
La rosa rossa tra le rose del locale, simbolo di peccato e di passione.
Non si sapeva molto della sua vita, ma il mistero che aleggiava attorno alla sua figura aveva amplificato il suo mito, che la sua voce aveva reso famoso anche fuori dai confini di Chicago. Non era infrequente per chi passasse per la città del vento concedersi una serata al Roses solo per sentirla cantare.
Chi fosse Elena, da dove venisse e come fosse arrivata negli Stati Uniti erano dettagli che passavano in secondo piano davanti a quei boccoli castani dai riflessi color rame, a quegli occhi talmente scuri che sarebbe stato difficile distinguere la pupilla dall’iride,  a quel viso dai lineamenti delicati e quel corpo minuto e formoso. Era il sogno di molti uomini, ma il suo cuore apparteneva a uno solo.
Quella sera erano previste due sue esibizioni e aveva appena finito la prima quando un ragazzo le si avvicinò, poggiando il braccio destro sul bancone del bar accanto a cui lei si trovava e togliendosi il cappello.
Le rade luci di quell’angolo del locale proiettavano ombre di varie forme sulle pareti, così come succedeva tra i tavoli affollati di vecchi e nuovi ricchi che si godevano senza remore il proprio denaro; solo il palco era interamente bagnato dalla luce.
«La Bella, sei sempre uno spettacolo per gli occhi.» commentò Christopher baciandole la mano e osservando lascivamente le curve a stento nascoste da un abito argentato con le frange, all’ultima moda.
«Puzzi falsità da lontano.» gli rispose con quel lieve accento straniero di cui nessuno era riuscito a identificare la provenienza.
Christopher Campbell si limitò a sorriderle, scuotendo la testa. «Non cambierai mai.»
«Neppure tu.»
Elena alla fine si voltò, incrociando lo sguardo chiaro e irriverente del ragazzo.
«Non hai nessun’altra da torturare?»
Christopher alzò le spalle, lanciando una breve occhiata lungo la sala e sorridendo degli sguardi che alcune donne gli lanciarono.
«Sì, ma non sarebbe divertente allo stesso modo. E poi,»aggiunse arrotolandosi una ciocca di capelli di lei attorno ad un dito, «nessuna è bella come te.»
La ragazza sospirò, liberando i capelli. «Sparisci.»
La risata del ragazzo si liberò nell’aria e Elena ne seguì il suono mentre lo guardava allontanarsi e sedersi al solito tavolo.
Marshall, da parte sua, si guardava attorno estasiato: tutto era luce e scintillio, in quel mondo, e la sfavillante bellezza che lo circondava lo costrinse a sedersi e a bere d'un fiato l'intero bicchiere di champagne. Non aveva mai creduto che un luogo così potesse esistere, eppure nel cuore pulsante di Chicago, mentre una ballerina vestita solo di piume volteggiava sul palco, Marshall si sentì per la prima volta vivo, per la prima volta completo, come se avesse finalmente percezione di qualsiasi centimetro della propria pelle, di ogni respiro e battito di cuore.
«Amo lo champagne. L’ho appena capito.»
Era brillo e gli altri risero di lui, ma non era una risata cattiva e persino nel suo stato alterato Marshall ebbe modo di capirlo e apprezzarlo: lo avevano portato con sé anche se lui aveva insistito per andare a casa e gli avevano offerto da bere rifiutandosi di farlo pagare, e mai, neppure un istante, lo avevano fatto sentire non a suo agio.
Willard gli sorrise accondiscendente, «dalle tue parti prendono il Proibizionismo più seriamente di noi, mi pare di capire.»
Il giovane annuì appena, ricordando le risate provenienti dalle ville dei ricchi del suo paese, da cui lui era inesorabilmente escluso: in ventitre anni di vita l’unica volta che aveva bevuto dell’alcol era un bambinetto di cinque anni che aveva scambiato la vodka del nonno per acqua.
«Siete sempre i soliti.»
Una voce femminile con un lieve accento straniero lo raggiunse alle spalle e lui si voltò, ammirando la cesellata bellezza della ragazza.
«Lasciatemi stare questo gioiellino dai capelli rossi.» esclamò ridente, poi prese il bicchiere di W e si allontanò in una scia di profumo agli agrumi. Marshall la seguì con lo sguardo, ipnotizzato dal movimento sensuale delle frange sui suoi fianchi, finché una discreta tosse non lo riportò alla realtà.
«Si è innamorato.» commento Elijah.
Marshall si schermì e provò a negare, ma Paul lo fermò.
«Tranquillo, amico, tutti si innamorano della Bella.»
Era la bellezza enigmatica degna di un quadro di Leonardo, era la voce divina che stregava chiunque: qualsiasi fosse la ragione, era difficile non soccombere davanti a lei.
 
Paul la raggiunse nei camerini a fine esibizione, portandole un mazzo di calle.
«Buon anno, mia adorata.»
Elena gli sorrise e lo baciò: sapeva che lo aveva atteso ogni istante di quella sera finché lui non era arrivato e non gli aveva chiesto cosa lo avesse trattenuto e perché non fosse stato con lei al brindisi di mezzanotte.
Paul la strinse a sé, sussurrandole di perdonarlo, conscio che lei avrebbe compreso: non erano solo le scuse per il suo ritardo, ma per ciò che l’anno appena iniziato avrebbe portato con sè. Victoria.
Si amavano da due anni, sei mesi e cinque giorni, da quando Chris aveva voluto conoscere la nuova stella del Roses a tutti i costi e Paul l’aveva assecondato.Nessuno di loro aveva previsto che nel tentativo di salvare la ragazza dall’ingombrante corteggiatore, tra il minore dei Campbell e La Bella sarebbe scoccata una scintilla che in breve si sarebbe trasformata in amore.
Era troppo onorevole, Paul, per permettere alla società di famiglia di andare in bancarotta: se un matrimonio era necessario, lui si sarebbe sposato, ma il suo cuore apparteneva ad un’altra e nulla avrebbe cambiato quello stato di fatto.
Se non vi fosse stata la guerra forse non avrebbero mai avuto bisogno della dote di Victoria e lui ed Elena sarebbero stati felici per sempre, forse non sposati, ma comunque insieme...
Il conflitto, però, aveva distrutto ogni cosa e lui non avrebbe mai potuto sposare la sua cantante misteriosa: Elena non aveva alcuna memoria della vita prima che una nave la portasse dalla Russia a New York, da cui si era poi spostata fino a Chicago, ma lui non aveva bisogno del suo passato per sapere quanto la amasse.
La felicità non gli era mai sembrata così effimera.
Si sentiva in colpa nei confronti della fidanzata, perché sarebbe stato più facile se Victoria non fosse stata una creatura meravigliosa che non meritava un uomo che non l’avrebbe mai amata, e si sentiva in colpa nei confronti di Elena, che sarebbe stata sempre l’amante nell’ombra. Entrambe meritavano di più.
«Buon anno amore mio. Resterai con me?»
Paul annuì, baciandola ancora.
«Mia madre ha brindato ai nuovi inizi stasera, e io so che, nell’anno del mio matrimonio, dovrei lasciarti libera.Ma il mio nuovo inizio sei tu, ogni giorno, perché è l’amore, il principio di ogni cosa.»
Era l’amore, il suo inizio costante, giorno dopo giorno, che li avrebbe resi immortali al pari dei   versi di Shakespeare. E l’amore, per lui, aveva e sempre avrebbe avuto, in ogni minuto che si affrettava verso la fine, il sorriso e la voce della Bella.

 

 
 
Note: note brevissime, solo per augurare buon anno a chiunque passerà di qua. "Chicago 1921" è una storia che ho in mente di scrivere da secoli, e in attesa di farlo ho pensato di usare i suoi personaggi per questa breve one shot, che spero vi sia piaciuta. Se avete voglia di fare un giro nel mio gruppo facebook o nella pagina, li trovate qui e qui.
Ancora auguri a tutti voi per un felice 2015, che sia uno splendido inizio. Auguri agli abitanti dell'Isola, costante compagnia di questo 2014.
E auguri a voi, che mi siete mancate terribilmente in queste feste.
Un abbraccio,
Ems
   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Emily Alexandre