La mente è
un organo meraviglioso. Anzi, è addirittura riduttivo considerarla un semplice organo,
alla stregua di un cuore, di un polmone o di uno stomaco; la mente è molto di
più. Ah, se solo il mondo conoscesse il vero potenziale della mente! Stolti e
ciechi, gli uomini! Piccole creature, schiave della loro stupida morale, che tenta
di frenare, che cerca di contenere l’inevitabile sviluppo, l’ineluttabile
progresso! Se solo sapessero… Se solo capissero, stupidi, l’enorme valore della
loro mente! Non esisterebbero più limiti, l’uomo diverrebbe Dio!
Eppure, il
mondo non sa. Il mondo, non capisce. E quando uno spirito eletto ha cercato di
aprire loro le porte della conoscenza, non l’hanno compreso. L’hanno deriso,
isolato, scacciato.
Io, Victor
Falco, sono stato deriso, isolato, scacciato.
Fermo i miei
passi, nel silenzio gocciolante intorno a me. Faccio un paio di respiri, per
calmarmi. Io, che ero uno degli scienziati più brillanti del pianeta, non sono
stato capito da coloro che erano allora i miei simili. Idioti, non avrebbero
potuto capire. Hanno capito Newton, hanno capito Einstein, ma non sono riusciti
a capire me, che avrei dischiuso loro una conoscenza inimmaginabile…. Stolti.
Le mie mani
tremano, alla rinnovata collera, non riesco a fermarle. Le stringo alla tunica
nera. Riprendo a camminare, sono quasi arrivato; vedo ormai la porta davanti a me.
La vedo, con
la mia mente. Tramite le piccole menti inferiori degli animali che accompagnano
i miei passi. Io guardo con la mente; poiché la mente, il mondo non ha capito,
non ha bisogno di nient’altro che di sé stessa. La mente è tutto. È ciò che siamo. È l’arte e la
guerra. È l’amore e l’odio.
E la mia è
soprattutto odio.
Tolgo le
chiavi dalla tasca, e apro la serratura.
Odio, vivo
vibrante potente.
La pesante
porta di ferro cigola.
Odio che
tutto riempie e tutto annienta.
Non posso
evitare di fermarmi un attimo, anche questa volta, disgustato dall’odore. I
miei ratti non hanno il mio stesso problema, e si infilano rapidamente nella
stanza buia. Mi viene quasi da ridere. Quei vapori bollenti che hanno bruciato
i miei occhi hanno pietosamente risparmiato il mio senso dell’olfatto. In
momenti come questo ne avrei fatto volentieri a meno.
Il fetore è
disgustoso. Non so se è perché questa volta sono mancato più giorni, e me ne
ero quasi disabituato, o perché la griglia di scolo nell’angolo inizia ad
essere intasata dai liquami. Comincio a valutare l’idea di portare due bidoni
d’acqua, la prossima visita, per cercare di lavar via almeno un po’ di questa
puzza nauseabonda.
Credo che se
anche fosse umano, alla fine l’odore sarebbe lo stesso. Non posso giudicare se
parte del disgusto sia dovuta al fatto che lui è, in fondo, un animale. Ma è
più probabile che non cambierebbe niente.
Feci, urina
e sangue puzzano in ogni caso.
Faccio un
passo dentro la piccola cella. Lui si muove; mi ha sentito. Bene.
Temevo di
trovarlo svenuto. Meglio così, voglio che sia sveglio. Quindi, quattro giorni
senz’acqua non provocano perdita di conoscenza neanche in un corpo sofferente e
debilitato. Trovo ancora questo genere di informazioni abbastanza interessanti.
Alla fine, sono sempre uno scienziato. Non posso fare a meno di sentirmi
affascinato dalle complesse meccaniche del corpo umano. O animale. O entrambi,
in questo caso.
Si muove, e
si rannicchia in un angolo. Comportamento prevedibile. Ormai, lo fa sempre.
Sicuramente capisce che è inutile, ma lo continua a fare. Si rannicchia, e
piagnucola. Sembra quasi il verso di un animale molto più piccolo. Quasi… un
gattino? Un cucciolo? Sicuramente suona inconsueto, da una figura delle sue
dimensioni. La debolezza incide, certo. Anche la gola, che sarà estremamente
disidratata. Ma il verso è decisamente strano.
Sorrido. Se
penso alla voce alta, impostata e decisamente umana che aveva i primi giorni.
Alla potenza delle sue corde vocali. Le sue urla mi ferivano i timpani.
Gli tiro
addosso il sacchetto che ho portato con me. La bottiglia d’acqua al suo interno
risuona di un colpo sordo quando lo colpisce sul guscio. Lui si gira,
lentamente, verso di me. Le pesanti catene tentennano contro il pavimento di
cemento. Guarda il pacchetto, sbattendo le palpebre: sembra che per qualche
istante non capisca.
Poi, tremante,
apre il sacchetto. Penso che ho fatto bene a non rovinargli del tutto le mani.
Non voglio che sia completamente inabile. Tira subito fuori la bottiglia
dell’acqua, l’afferra con un guaito. Tenere una bottiglia da un chilo e mezzo
tra le mani, con quattro dita rotte su sei, non deve essere facile, ma lui ci
riesce.
Ancora una
volta mi affascina. La vita è qualcosa di così forte, di così potente. Ti ci
aggrappi a lei con le unghie e con i denti, e non la lasci andare nonostante
tutto.
Geme mentre
svita il tappo con difficoltà, porta la bottiglia alla bocca, e beve a piccoli
sorsi. Ancora capisce cosa fare per non farsi male. Affascinante, sicuramente
affascinante. Trema. Il tremore è una risposta involontaria del corpo a tutta
una serie di fattori. Le terminazioni nervose attivano alternativamente gruppi
muscolari antagonisti tra di loro, provocando queste caratteristiche
oscillazioni ritmiche. Nel suo caso, sono abbastanza sicuro che la causa
scatenante sia come al solito la paura, anche se dall’intensità del fenomeno
posso supporre che questa volta si sia sommata anche la disidratazione. Dagli
spasimi un po’ d’acqua gli si rovescia addosso. Solo dopo aver bevuto dà
un’altra occhiata al contenuto del sacchetto. Tira fuori il pane raffermo e la
lattuga secca che gli ho portato, e se li mette in grembo come il più prezioso
dei tesori. Poi guarda il blister con le due compresse, e solo adesso osa
alzare lo sguardo verso di me.
Oltre ai
soliti paura e dolore stavolta vi leggo incertezza.
“Antibiotici.
Prendili” gli ordino. Una delle ustioni si è infettata. Non voglio certo che
muoia per un’infezione.
Solo un paio
di secondi d’esitazione, e poi le scarta, le mette in bocca e le ingoia. Certo,
ormai mi obbedisce sempre. Dopo le prime due settimane, non mi ha più
disubbidito neanche una volta. L’efficacia del condizionamento indotto sulla
mente è provata da decenni di studi. E niente come il dolore è più potente nel
condizionare il comportamento. Anzi, questo mutante ha resistito in modo che
non potevo ritenere possibile. Facessi ancora parte della comunità scientifica,
aggiungerei due o tre cose agli studi in proposito.
Inizia a
mangiare il pane. Decido di restare a guardarlo. Mi diverte, solo guardarlo
mangiare, a volte. Sentire il suo odio, la sua paura, la sua disperazione,
annebbiarsi nella sua mente sotto l’imperativo biologico del cibo. La fame lo
annienta, adesso per lui non esiste nient’altro che quel pezzo di pane. Tutto
ciò che siamo, tutto quello che desideriamo, ogni nostra concezione sulla vita
si riduce alla fine alla necessita. Ha fame, e non vuole che cibo. Sete, e
niente vi è nella sua mente a parte l’acqua. Quando l’ho soffocato, non aveva
altro interesse che per la semplice, stupida, banale aria. E mentre gli
infliggevo dolore, non c’era nei suoi pensieri che il desiderio che io la
finissi.
Il cervello,
così meraviglioso, così complesso e così semplice nello stesso tempo.
I miei
roditori si spostano, quando decido di sedermi per terra. Le mie articolazioni
dolgono, solo al semplice movimento. La mia pelle, pasticcio di cicatrici, si
tende dolorosamente tra le piaghe. Le parti del mio corpo in cui l’incendio non
ha bruciato le terminazioni nervose sono costantemente avvolte dal dolore. Alla
fine, te ne fai un’abitudine, e quasi ti sembra normale che anche un’azione
banale come il sedersi ti possa provocare sofferenza.
Ed è tutta
colpa loro.
Del mostro
schifoso davanti a me, dei suoi fratelli.
Del giapponese
mutante che li ha allevati come un padre.
Se non
avessero messo il naso nei miei esperimenti con Rockwell, non mi sarei ridotto
in quel tugurio dove è scoppiato l’incendio. Se non avessero sventato i miei
piani, adesso non sarei qui sotto, nascosto come un relitto, ma condurrei il
mondo ad una nuova razza dominante, dove l’animale colmerebbe le lacune
dell’umano. Se quell’uomo ratto non mi avesse fatto cadere in quel dirupo,
adesso le mie fratture mal saldate non mi darebbero il tormento.
Improvvisamente,
ho voglia di chiamarlo nuovamente: voglio sentire ancora il mio nemico. Il mio
dolore si può placare un poco, il mio tormento lenirsi, solo in questo modo. Il
gusto dolce della vendetta può coprire il fiele del mio dolore.
Mi
concentro, e lo cerco. Non è difficile, ormai. Posso sentire la sua mente,
perfettamente distinguibile nella sua singolarità, quando e come voglio. Lo
chiamo, e per qualche secondo sento la sua coscienza annebbiata.
Sbuffo un
sorriso. Certo, è notte fonda. Anche lui ha bisogno di dormire.
“Sei
sveglio?”
“Uh… chi… sì. Sì.”
“Ahi! Ahi!
Come si dice?”
“Sì, ‘padrone’. Perdonami.”
Sorrido
ancora. Una calda soddisfazione placa il mio petto. Non ricordo nulla di più
piacevole del senso del potere. Niente è più gratificante, nessun appagamento è
così intenso come l’avere qualcuno alla tua mercé, completamente e inesorabilmente.
Non è stato
facile, arrivare a questo punto. Credo di essermi guadagnato questo mio
piacere. All’inizio, c’era solo rabbia, cieca e assoluta. Adesso, ho tutta la
sua volontà nelle mie mani.
Il
condizionamento è molto più veloce quando il dolore è psicologico piuttosto che
fisico. Neanche questo l’ho mai trovato nei libri. Ti rompo un osso, e tu
ancora hai la forza per opporti, tra le urla e le lacrime.
Lo rompo ad
una persona che ami, ed alle sue grida tu sei mio.
“Ho portato
da bere a tuo figlio.”
“G… grazie. Padrone.”
“Questa
notte potrei anche non fargli niente.”
È inebriante, sì, decisamente inebriante. Sento
tutta la sua speranza.
“Sì, ti prego. Lascialo stare, padrone.”
Adesso
assaggiamo un altro po’ di disperazione.
“Oppure
potrei giocare ancora… Che dici, fiamma ossidrica?” È divertente, come tenta di frenare i suoi pensieri
di odio in modo che io non li senta. Al momento la sua più grande paura è che
io mi arrabbi, e mi accanisca ancora di più contro la tartaruga.“O solo un
altro po’ di sale sui piccoli morsi dei nostri fratelli roditori?”
Lui sa che
sto giocando con lui. Lui ha paura. Non ho ancora capito se sia più potente
l’odio o la paura.
“Ti prego, non farlo. Ti supplico.”
Ecco. Non
ricordo esattamente quando ha iniziato a supplicare. Forse dopo le prime tre o
quattro settimane. Ricordo di aver colto chiaramente in lui la consapevolezza
che ormai non sarebbero più riusciti a trovarlo, se io non l’avessi voluto.
L’hanno cercato giorno e notte per così tanto tempo…
“È tardi per implorare, lo sai. Avresti dovuto unirti
a me quando te ne ho dato la possibilità.”
“Ho sbagliato, ho sbagliato…” Giuro, posso
sentirlo piangere anche da qui. “Farò
tutto quello che vuoi, sarò il tuo schiavo, ma lascialo andare. Lascia andare
mio figlio. È solo un ragazzo…”
L’ho rotto.
Da qualche giorno, ormai, l’ho rotto. Questo, purtroppo, mi ha tolto un po’ del
divertimento. Ma lo sapevo che il gioco non sarebbe potuto durare per sempre.
Nessuno può sopportare quello che ha sopportato lui senza crollare, neanche un
forte maestro. Ognuno ha il suo punto di rottura. I primi giorni guardava,
attraverso la mia mente, come io torturavo il suo ragazzo, e riusciva a non
dire una parola. Sentivo, turbinante e feroce, tutto il suo strazio, ma lui continuava
a tacere.
Ha tentato,
giorno dopo giorno, di mantenere la calma. Ed io ho potuto gustarmi tutto il
suo tormento, sentire quanto fosse difficile per lui lottare per mantenere il
controllo. L’ho percepito frenare la sua angoscia davanti agli altri suoi
figli, e digrignare i denti quando si chiudeva da solo in camera. Mi sono fatto
chiamare senza rispondere, per ore, e mi sono fatto vivo nei momenti in cui per
non impazzire si aggrappava ancora alla speranza. L’ho ferito, mentre ferivo il
suo mostriciattolo. Gli ho fatto sentire le sue urla, fatto vedere il suo
sangue. L’ho portato con me a colpire la carne.
E l’ho
visto, finalmente, perdere la calma. Ricordo ancora quel momento, per me di
assoluta gioia. Tutto, in quell’istante, mi è sembrato giusto; l’universo ha
ripreso a scorrere in tutta la sua magnificenza, poiché il mio cuore dannato
sentiva nel suo tormento un balsamo, si dissetava alla fonte del suo supplizio.
È stato un bel momento, davvero, quando ha iniziato
ad urlarmi contro, ad inveire maledizioni, a promettermi atroci vendette. Ho
potuto avvertire come una piacevole scossa la sua voglia furiosa e totale di
affondare i suoi artigli nel mio cuore e, lo ammetto, mi sono inebriato del
piccolo brivido di piacevole timore che le sue minacce riuscivano a suscitare
in me: come quando da ragazzo guardavo un film horror, e la paura era solo un
divertente guizzo nel petto poiché io ero, e sono, al sicuro.
Infine, dopo
tutti questi giorni, l’ho osservato crollare. Aveva pregato tanto, aveva
cercato di convincermi, con le buone, e con le cattive. Aveva messo tutto sé
stesso ai miei ordini. Era arrivato perfino ad assecondare i miei capricci, e
costretto gli altri suoi figli a rubare per me. Sentivo la sua vergogna,
gravare sul suo animo come un masso. Ma era solo un altro tentativo di
prolungare il mio gioco, poiché niente in questo mondo ha valore per me, se non
la vendetta: a null’altro pongo il pensiero.
Qualche
giorno fa, quindi, l’ho rotto. A sua parziale discolpa devo ammettere che era
particolarmente debole, poiché non mangiava e dormiva appena; ma quel giorno,
quando il miserabile adolescente mutante è svenuto ancora una volta sotto le
mie mani, ho potuto sentire chiaramente il cuore di Hamato Yoshi spezzarsi.
La sua anima
ha improvvisamente ceduto, ed ho avvertito come un risucchio nei suoi pensieri
dentro la mia testa. È stata
un’esperienza sconvolgente. Deliziosamente sconvolgente. Mai in vita mia avevo
provato niente di simile. Ero riuscito a piegare un animo talmente forte…
L’impressione che ho provato è stata quella di aver spento un grande incendio
con un soffio, come se si trattasse di una candelina. Il senso di potere è
stato assoluto.
Credo di
aver raggiunto il culmine. Non potrò avere da lui niente di più.
Sospiro,
sbattendo le mie mani una sull’altra e poi stringendole insieme. Al movimento,
la tartaruga mutante davanti a me sussulta spaventata, lasciando cadere
l’ultimo pezzo di pane, e mi osserva con gli occhi dilatati dal terrore.
Diavolo,
ragazzo, sei troppo teso. Stavolta non volevo colpirti, ho solo sbattuto le mie
mani. Se non ti trovassi talmente patetico mi sembreresti comico. Guardalo, il
grande ninja. Ecco, quando un ragazzo vuole fare un gioco da uomini.
Distoglie
nuovamente i suoi occhi offuscati da me, e riprende il pezzo di pane. Ancora
non mi sono abituato a questi occhi grandi e così diversi. Senza quel pezzo di
stoffa sembrano proprio gli occhi di qualche creatura selvaggia. Senza le sue
ridicole bardature, che giacciono da settimane sporche in quell’angolo insieme
alla sua maschera, è ancor più un animale. Addenta l’ultimo boccone come una
fiera. Bestia.
Scuoto la
testa. A questo punto, non ho davvero altre idee per prolungare il mio
divertimento. Ho valutato a lungo se valesse la pena cercare di catturare anche
uno dei suoi fratelli, ma il gioco non vale la candela. Adesso sono guardinghi,
e non potrei ripetere la stessa tattica.
Forse,
dovrei finirla qui.
Mi passo una
mano sul volto. Tutto inizia e finisce. Come per ogni momento della vita, non
si può protrarre per sempre neanche questa esperienza. È stata interessante, soddisfacente, divertente. Ma adesso inizio a non
divertirmi più. Sì, non potrei ricavare nient’altro, oltre al piacere che ho
avuto fin ora. Questo gioco è durato molte settimane, e credo che dovrei
finirla adesso, prima che inizi a diventare… noioso.
Sì, deciso.
Peccato, ho sprecato due compresse di antibiotico.
Mangia
tartaruga, mangia il tuo ultimo pasto.
N/A Ciao, gente! Non saprò mai come ringraziarvi
abbastanza per tutte le recensioni e visualizzazioni con cui avete onorato
anche la mia piccola storia di Natale. Mi avete fatto un regalo bellissimo
*snif snif*
Sono tornata presto, perché la mia amica Cartoonkeeper mi ha sfidato stavolta
in modo abbastanza sadico (dio mio quanto amo quella ragazza): scrivere un PoV (o
PdV) di un “cattivo”. Challenge assolutamente saporito. Mi ci sono buttata a pesce e l’altra notte è
nata questa storia crudele.
Adesso, vorrei fare un piccolo gioco (come Victor, uhahahaha… cof cof. Cartoonkeeper, devo ancora migliorare le mie risate da villain ^^’).
La storia può finire qui,
o diventare un multicapitolo. In tal caso mi farebbe piacere sentire il parere
del tartapopolo di EFP; chi ha letto questa storiuncola, e l’ha apprezzata
anche solo allo 0,1%, può dirmi se è preferibile che la lasci così o la
continui,ed in tal caso può aiutarmi a scegliere:
1 Chi è la tartaruga prigioniera;
2 Di chi sarà il prossimo PdV (se ancora Victor Falco, o la tartaruga, o
Splinter, o narratore esterno, o Nonna Papera, che so…);
3 (Vi conosco abbastanza da sapere che vincerebbe Nonna Papera. Eh, no, quella
non vale.)
Chi gioca
con me vince… Niente. Giochiamo e basta. Enjoy!
P.S.
Vogliamo anche dare un voto a quel brav’uomo del Re dei Topi così che appaia
tra i personaggi selezionabili nelle caratteristiche delle storie? Clicchiamo
in alto a destra su “Aggiungi personaggi” e poi su “Approva” accanto al nome
del nostro simpaticone (ringrazio Switch che mi ha spiegato la procedura ^^’)
P.P.S. BUON
2015 a tutti!!!