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Autore: Ghevurah    03/01/2015    4 recensioni
Immaginò i caduti nella tentata presa di Angamanda: un letto di corpi assiderati dal gelo, infilzati dalle rocce. Questo sarebbe rimasto dei Fëanárioni giunti dalle sponde di Aman per reclamare vendetta. E a Nerdanel al di là del mare, alle loro mogli, sarebbe giunto il soffio dello stesso vento che avrebbe lambito i loro visi catatonici. Il giuramento si sarebbe infranto sui crinali delle montagne, spegnendosi lungo le gole da cui gli incubi prendevano vita.
L’alternativa a tutto quello era abbandonare il maggiore dei suoi fratelli alla morsa dell’ombra. Russandol bello e possente quanto un Vala, Russandol che con un sorriso di luce gli aveva fatto dono della sua prima arpa: Canta, Makalaurë, poiché il tuo canto è in grado di restituire qualsiasi sentimento, di raccontare qualsiasi storia.
Quanto si sbagliava.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Elfi, Maglor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
- Questa storia fa parte della serie 'Enrë - Un giorno ancora'
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Disclaimer: personaggi, luoghi ed eventi appartengono a J. R. R. Tolkien e a chi ne detiene i diritti, nessuna violazione di copyright è pertanto intesa.
Note: terza parte della serie Enrë - Un giorno ancora.
Per la stesura di questa storia ho tenuto conto di alcune correzioni e ampliamenti fatti a Il Silmarillion edito con The History of Middle-earth; ma - come al solito - perdonatemi qualunque errore relativo all’universo Tolkieniano. [N.B.]In particolar modo vorrei avvertire di una piccola licenza a cui ho fatto ricorso: so che al tempo dell’imboscata a Maedhros, i Fëanorioni non avevano ancora fortificato lo Hithlum, ma per me era ideale ambientare i momenti immediatamente successivi al suo rapimento all’interno di spazi chiusi e particolarmente soffocanti, così ho deciso di “accelerare le tempistiche”, immaginando già il campo fortificato sul Mithrim.

Nell’intento di rendere la lettura più scorrevole a tutti, aggiungo un breve schema dei nomi Quenya qui usati con la loro corrispondenza in Sindarin:
Ambarto (prima Ambarussa) - Amrod
Pityafinwë (Pityo) Ambarussa - Amras
Carnistir - Caranthir
Tyelperinquar - Celebrimbor
Tyelkormo (Tyelko) - Celegorm 
Curufinwë (Curvo) Atarinkë - Curufin
Findárato - Finrod Felagund
Ñolofinwë - Fingolfin
Curufinwë Fëanáro - Fëanor
Russandol - Maedhros
Makalaurë - Maglor
Moringotto - Morgoth

Mi sono decisa ad ultimare la suddetta fan fiction dopo aver subito un’operazione a cui aspettavo di sottopormi da più di un anno, trovando - finalmente - la serenità necessaria per tornare a scrivere in modo assiduo, come non mi capitava da tempo. Nella speranza che questo segni una sorta di “nuovo inizio”, produttivo e costante, vi lascio alla storia.

 









Alla meravigliosa Aliseia che continua ad ispirarmi









Enrë - Un giorno ancora


Il canto del meriggio





So I stand still
In front of the crowd
Excited faces
What will be next?
I still don't have a clue
I still don't have a clue
                                                                                                                        
Blind Guardian, Nightfall in Middle-Earth, The Minstrel






Capelli intrecciati, guizzi di fiamma e filamenti notturni, visi come di bambini addormentati: eccoli i regali di un’alba generosa.
Ma lui sa che una simile offerta è destinata ad altri. Lo ha veduto nello sguardo altero delle Grandi Aquile. La pace non è un opzione a cui i Fëanárioni1 possono sottostare, ed i Valar lo hanno compreso.
Pensa a questo mentre li guarda dormire alla luce d’un meriggio mai tanto dolce.
Doni dell’alba, mormora a mezza voce: una cantilena lieta e inebriante.
Così è facile ritrovarsi ad intonare melodie lontane, quasi dimenticate, sorte fra sprazzi di ricordi che quei colori, assieme, riportano alla memoria.
Potevamo essere felici, felici per sempre. Dove abbiamo sbagliato? Dove avete sbagliato, voi che eravate talmente vicini da riuscire ancora a toccarvi, ad amarvi.
Aveva percepito la medesima domanda gravare il cuore di chi era giunto dalle opposte sponde del Mithrim. L’aveva veduta rischiarare gli occhi di Ñolofinwë e scivolare in un’ombra di cupo rimorso sui volti dei propri fratelli. L’aveva sentita nascere sulle labbra e languire lì, muta.
Solo ora è riuscito a darle suono. Una canzone sussurrata, lieve quanto un bacio di vento.





L’alba lenta e silenziosa scalava le corone montuose che attorniavano il Mithrim. Guardandola avanzare, lui si domandò se quel timido bagliore potesse a insinuarsi persino negli intestini del Thangorodrim. Se potesse giungere, anche lì, un flebile riflesso di vita.
Ma le sue speranze erano ingenue, illusioni di un’anima delicata, più propensa all’arte che alla cruda esistenza in Endórë2. Se n’era accorto da tempo, ormai. Così come se n’erano accorti i suoi fratelli. Eppure era lui, in quel terribile momento, a dover sostenere le sorti della loro gente.
Aveva odiato Russandol per averlo lasciato solo. Per avergli consegnato un’autorità che non aveva mai preteso. Non ricordava d’essere mai riuscito a tenere a bada i propri fratelli nei secoli luminosi trascorsi in Aman, dunque come poteva riuscirvi ora che di quegli stessi fratelli riconosceva solo una misera parvenza, un’ombra confusa, proiettata sulle pareti della propria memoria?
Persino Pityafinwë sfuggiva alle sue percezioni, incupito da un lutto che mai l’avrebbe abbandonato. Sopravviveva per due, diceva. Confondendo e confondendosi con un ricordo spettrale. Ambarussa, sono. Ambarussa, siamo, ancora.
La perdita di Fëanáro, padre e re, fratricida e traditore, era scivolata fra loro come le sue stesse ceneri tra le loro mani.  Ma in quella fortezza intrisa di dolore, era ancora possibile incontrarne il riflesso. Una presenza che aleggiava sulle polveri d’una guerra sempiterna, che si svelava tra le fiamme racchiuse negli sguardi dei suoi fratelli. Bastava una penombra appena più densa, la distrazione d’una mente stanca, per scorgerlo intento a scrutare l’orizzonte come era solito fare.
Curufinwë, chiamava lui, perché simili visioni riuscivano a congelare qualunque certezza, e solamente quando un riverbero di luce rischiarava l’illusione, precisava: Curvo.
Non era, però, nella mera somiglianza di Atarinkë che rivedeva loro padre: ognuno dei suoi fratelli ne custodiva una parte di eredità.
Era l’ombra che seguiva Tyelkormo nelle sue battute senza prede, poiché non era agli animali più temerari, resistiti allo strazio della guerra, che suo fratello s’ostinava a dare la caccia, ma alle memorie d’un tempo lontano, ineffabile come spicchi di cielo fra le fronde, come risa d’una fanciulla dalle candide vesti.
Era il fuoco che incendiava le parole di Carnistir, lasciando il suo cuore preda d’una mesta oscurità.
Era il velario della disperazione di Pityo, rinchiuso in un mondo interiore di specchi e fantasmi.
Ed era, infine, quell’insondabile silenzio, quell’autorità schiva di cui si fregiava Russandol. Giunti in Endórë lo aveva veduto tramutarsi nel più abile dei condottieri, così dotato nel mietere vittime fra le schiere di Moringotto, così letale e instancabile.
Sembra che anch’io abbia finalmente trovato il mio talento, gli aveva detto mentre quel suo sguardo di fuoco scendeva a lambire la spada intrisa di sangue.
Era accaduto dopo l’incendio di Losgar, dopo che il fumo avevano avvelenato ciò che restava di loro.
Rammentava, quel giorno, d’aver guardato Russandol ergersi dinnanzi all’incendio come un gigante intessuto di fiamme e oscurità, unico a sfidare quelle stesse lingue infuocate da cui sembrava aver preso corpo.
Ma fu solamente quando il focolaio si spense che le conseguenze della loro maledizione divennero chiare a tutti.
Se chiudeva gli occhi poteva ancora udire il pianto di Pityo: un lamento di rabbia e dolore simile all’ululato del vento. Poteva ancora vedere Tyelkormo e Carnistir, stretti in un abbraccio disperato, quasi sperassero di trovare appiglio l’uno nell’altro in quella mareggiata d’orrori. Solo Curufinwë aveva seguito loro padre nella sua tenda; ne sarebbe uscito più tardi, pallido quanto l’orizzonte soffocato dal fumo ed ormai irraggiungibile.
Il suo ultimo ricordo, appannato dalle lacrime, era la figura di Russandol stagliata su sponde livide. Vigilava sui resti lasciati dal fuoco: reliquie arse e contorte sorte su di un mare di cenere. Lì, immobile, sotto lo sguardo delle stelle che brillavano fra le volte celesti, ultime ed uniche luci di un mondo perduto, ultime ed uniche conforto.
E pensando ad allora, mentre l’alba zampillava tra i crinali montuosi, si chiese perché non avesse raggiunto Russandol.
Avrei dovuto intuire la natura del peso che ti portavi appresso. Quella responsabilità che nostro padre, preda della propria furia, aveva ormai dimenticato, ma a cui tu, il più anziano fra noi, non volevi rinunciare.
Poteva indovinarle, ora, le parole che lo aveva visto scambiare con loro madre, prima della partenza per Endórë. Erano il seme d’una nuova promessa a cui suo fratello non sarebbe riuscito a prestar fede.
Alla luce di simili ricordi la volontà di Russandol prendeva nuova forma: Veglia sui nostri fratelli, gli aveva intimato. Onora il Vanda Fëanáro Nossëo 4, ma non sacrificare coloro che hai al tuo fianco per chi è ormai preda dell’ombra.
E lui, che dall’eredità di loro padre non sembrava aver ricevuto altro se non la possibilità di vederla logorare l’animo dei propri fratelli, non lo aveva fatto. Non aveva impegnato l’esistenza di nessuno di loro per salvare quella di Russandol.


Era una strana notte quella in cui aveva saputo della sua cattura. Tra le arcate buie e gli antri nascosti della loro fortezza si levava un profumo che non poteva provenire dal lago o dallo spicchio di terra inospitale, assediato dalle montagne, su cui esso si distendeva.
Era un aroma dolce, permeato di una morbidezza in grado di far sorgere in lui il ricordo di quei giorni trascorsi nella Baia di Eldamar, aggirandosi per coste dai profili frastagliati, disseminate da alberi dai frutti zuccherosi.
Cantava sotto quelle fronde basse e odorose, avvolto in un’ombra che a quel tempo appariva lieta quanto la luce.
Sulla spiaggia, i suoi fratelli accompagnavano il piccolo Tyelperinquar a giocare con la spuma delle acque, tanto irriverenti da allungarsi sulla battigia nell’apparente intento di catturarlo. Risa squillanti di bambino echeggiavano assieme con lo scrosciare del mare e il vociare basso dei suoi fratelli, mentre il suo canto echeggiava l’essenza di quei luoghi.
Ma qualcosa fremeva nell’ombra, nei giorni dorati trascorsi sulle rive di Aman come negli anfratti della fortezza in cui ora dimorava.
Il lutto era una realtà che lui e i suoi fratelli avevano appena iniziato a conoscere, un abisso di dolore stagnate da cui non sembrava possibile levarsi, così quel profumo, portatore di memorie perdute, arrivò a lui al pari di un ironico giogo.
Se lo portava appresso il messaggero sopravvissuto alla morsa dell’Avversario. Era l’odore del suo sangue, forse, o quello degli altri caduti. L’aroma dei Quendi5 che attirava gli schiavi di Moringotto.
Lui conservava bene il ricordo dell’annunciatore di sventure: un giovane partito da Tirion con la speranza di un futuro glorioso nel cuore. Le stesse speranze che aveva affogato sulle sponde di Alqualondë, scoccando una freccia indirizzata al petto di un marinaio Teler.
Erano cadute in mare con quell’Elda, le sue speranze. Inabissandosi nelle profondità dell’acque, e lì sarebbero giaciute sino alla fine dei giorni.
Ma neppure fra le disgrazie di Alqualondë, il viso del giovane era stato solcato dalla medesima espressione che aveva mostrato tornando alle fortezze sul Mithrim. Nei suoi occhi, ora, regnava una sterile vacuità.
Ai confini settentrionali dell’Ardh-calen aveva incontrato lo sguardo del Male e vi si era specchiato, riconoscendovi i propri tratti, il proprio volto. Percependo quella stessa rovina che la sua freccia aveva portato.
E furono, così, labbra inaridite dal gelo d’un anima perduta, a comunicare loro la cattura di Russandol.
Lui sedeva al fianco dei suoi fratelli, ma non seppe trovare la forza di alzarsi in piedi, con loro, pronto all’agguato d’un nemico sempre più sfuggente. Restò sul suo scranno, pervaso da un’angoscia vischiosa.
Le promesse di guerra di Curufinwë echeggiarono la maledizione di loro padre e lui credette di averlo ancora dinnanzi a sé: si crogiolò nell’illusione intessuta da quei capelli d’ali corvine, da quel viso affilato, rischiarato dal bagliore di fiamme algide. Ecco la nostra guida, pensò mentre l’ira di Carnistir esplodeva in ingiurie all’Avversario e Tyelkormo lo blandiva, suggerendo agguati fra i passi montani.
Fu Ambarussa a frenare i loro piani, rompendo l’illusione con sguardo pregno di una consapevolezza saggia quanti i moniti di loro madre. Capelli di fuoco, un empito rovente che sembrava riscaldare quelle stanze austere; poteva ricordare Russandol se non fosse stato per quella sua figura sottile, affogata in un'ombra di cordoglio.
Nonostante il desiderio di riscatto, disse con voce grave, non possiamo lasciarci soggiogare da anarchici propositi. È Makalaurë il più anziano fra noi e a lui solo spetta la guida dei Fëanárioni.
E nella fortezza calò un silenzio colmo di aspettativa. Lui avvertì il peso di una responsabilità che mai aveva preteso soffocarlo.
Come poteva un cantore addormentatosi con l’arpa fra le mani e trovatosi, al proprio risveglio, a brandire una spada, ergersi a capo di schiere guerrigliere?
Ma i suoi fratelli attendevano una sua parola: sguardi esiziali, labbra serrate dal rancore. Si sforzò di scorgere in loro i giovani che erano stati in Aman, eppure nessuna radianza giunse alla sua memoria.
Il dolce profumo recato dal messaggero sfumò nell’odore nauseante del rimpianto. E il crepitio di quelle navi incendiante risuonò alle sue orecchie al pari d’un gemito straziante: il lamento d’un fratello dimenticato, arso dalla sventatezza di un padre che, forse, non poteva più dirsi tale.
Quando parlò lo fece senza issarsi in piedi. Le sue mani, ancora troppo delicate per l’elsa di una spada, strinsero i braccioli dello scranno su cui sedeva, mentre gli occhi si velavano di incertezza.
Vi chiedo un istante, mormorò. Un istante per rischiarare la mia mente.  
Non mentì, i suoi pensieri erano pervasi da quelle stesse ombre che si raggrumavano, dense di dubbio, nei meandri della fortezza. Ombre che ora valicavano catene montuose, portandosi appresso stendardi di morte, ma che un tempo erano strisciate, ineffabili come serpi di fumo, sotto lo sguardo dei Valar.
Le affrontò in solitudine, quelle ombre. Attorno a lui una stanza di pietra, fredda quanto le notti trascorse a soppesare l’entità del proprio giuramento, quanto l’addio alla propria consorte, sussurrato fra lacrime rade e amare.
Ricordava il suo sguardo velato di un’accusa silente, il viso cereo, illuminato dal flebile bagliore della candela che teneva in mano. E lì, alle porte di Tirion, avvolta nell’oscurità di una notte perenne, lui avrebbe voluto chiederle perdono con mille parole d’amore, ma tutte gli apparivano vane. Così l’abbracciò, imprimendosi il ricordo del suo corpo, il profumo dei suoi capelli, l’armonia del suo respiro. Di lei gli restò solo quella, la memoria. Una memoria assediata dall’ombra che radicava fuori e dentro di lui.
Alzò lo sguardo, le colonne tese verso arcate buie sembravano collassare l’una sull’altra, contraendo lo spazio della stanza.
Dunque quale sarebbe stata la sua scelta? Scommettere le vite dei suoi fratelli per azzardare il salvataggio del maggiore di loro? O abbandonare questi alla propria disperazione?
Immaginò i caduti nella tentata presa di Angamanda6: un letto di corpi assiderati dal gelo, infilzati dalle rocce. Questo sarebbe rimasto dei Fëanárioni giunti dalle sponde di Aman per reclamare vendetta. E a Nerdanel al di là del mare, alle loro mogli, sarebbe giunto il soffio dello stesso vento che avrebbe lambito i loro visi catatonici. Il giuramento si sarebbe infranto sui crinali delle montagne, spegnendosi lungo le gole da cui gli incubi prendevano vita.
L’alternativa a tutto quello era abbandonare il maggiore dei suoi fratelli alla morsa dell’ombra. Russandol bello e possente quanto un Vala, Russandol che con un sorriso di luce gli aveva fatto dono della sua prima arpa: Canta, Makalaurë, poiché il tuo canto è in grado di restituire qualsiasi sentimento, di raccontare qualsiasi storia.
Quanto si sbagliava.  
La sua arpa giaceva silente da tempo, corde lasciate alle polveri della guerra. Nessun canto si era levato dalle sue labbra per accompagnare la morte di chi amava, quasi che il suo fëa, inaridito dagli orrori commessi, avesse asciugato anche la sua voce. Le melodie che un tempo scandivano la sua vita si erano spente. Nessun ritmo giungeva dalla pioggia battente, nessuna armonia gli ispirava il fruscio delle foglie. Ed anche se così non fosse stato come avrebbe potuto cantare della grottesca consapevolezza di un assassino? Come avrebbe potuto dar suono alla disperazione che affliggeva degli aguzzini? Una terribile cacofonia sarebbe asservita allo scopo, suoni, più che musica, aspri quanto il clangore delle spade.  
Ma lui non si era ancora lasciato sprofondare nel torbidume della guerra, ormai completamente accettato dai suoi fratelli, e neppure l’aveva rinnegata, preservando il suo spirito, la sua musica. Era la contraddizione ad animarlo, e sua espressione ne era quell'inadeguatezza che mai cessava di tormentarlo.
Nella penombra della stanza, allungò una mano dinnanzi a sé per poi chiuderla ad afferrare l’aria. Eccolo, il retaggio del suo potere: un pugno di nulla. E mentre una simile consapevolezza gravava il suo cuore, un cigolio risuonò fra le pareti spoglie.
Alzò il capo per scorgere l’incedere d’una figura.
Haryon7, lo chiamò scandendo quelle sillabe con la stessa formalità che un tempo era riservata al solo Russandol. Haryon, i tuoi fratelli aspettano una tua parola.
Lui serrò le palpebre, quasi potesse isolarsi dalla situazione in cui versava: Non ho ancora una risposta da dare loro, avrebbe voluto confessare. E forse mai l’avrò.
Aprì gli occhi, invece, e fece un cenno d’assenso.
I suoi fratelli tornarono nella sala con sguardi accesi d’un impazienza logorante, i volti tetri, le spade alla cintola. Davano unanimemente per scontato di non sottostare al ricatto dell’Avversario. Eppure lui, guardandoli così, assieme, solo quattro dei sei che avrebbero dovuto essere, meditò di abbandonare ogni intento onorevole e lasciarsi vincere dalla disperazione. Rinunciare a quella guerra per il bene di tutti loro, per la vita. E riavere indietro Russandol, almeno Russandol.
Osservò i propri fratelli uno alla volta. Carnistir, incapace di tacere la propria irrequietezza, le labbra tese in una piega severa. Ma dov’era quel velo d’infantile ingenuità che la sua rabbia un tempo celava? Dov’era il fanciullo scarmigliato che Tyelko si divertiva a provocare?
Tyelkormo, incorreggibile e scaltro: occhi ferali come d’un cacciatore pronto all’agguato, eppure privi di quell’antica luce divertita. Nei loro recessi, ora, si poteva scorgere solo rancore e ferocia.
Ambarussa, così profondamente cambiato dalle ombre raggrumatesi nelle loro esistenze. Ed era doloroso ricordarlo fra i giardini del Valinor, poiché inevitabile giungeva il ricordo di Ambarto.
Infine Curufinwë, il viso contratto in un perfetto calco della maschera di fredda alterigia indossata da loro padre. Levigate erano le crepe entro cui, un tempo, si poteva scorgere il giovane che sapeva ancora stupirsi delle bellezze della forgia, un fratello solidale, un genitore apprensivo.
E lui, dinnanzi a quegli animi inariditi, si chiese se potesse esserci ancora un barlume di speranza. Se quella guerra si fosse conclusa, avrebbero davvero saputo riscoprire il tepore della felicità?
Abbassò il capo, muovendo un passo indietro. No, non ci sarebbe stata nessuna gioia ritrovata. I secoli trascorsi alle luci di Laurelin sarebbero rimasti un ricordo profanato dal sangue.
L’Avversario aveva piantato in loro un seme oscuro che germogliava, avvelenando pensieri e parole con il proprio miasma: il suo ipotizzare una possibile resa ne era la prova più evidente. A causa di quel ladro sobillatore aveva scoperto il significato della morte, il dolore della perdita, arrendersi ora alla sua volontà avrebbe vanificato ogni sacrificio.
Ma decidere di tentare un salvataggio, attaccando Angamanda quando le loro schiere non si erano ancora ristabilite, avrebbe portato alla stessa conseguenza. Altri fratelli sarebbero stati ghermiti dagli artigli impietosi dell’ombra.
Forte di un simile pensiero incontrò gli sguardi che guizzavano verso di lui.
Attenderemo, disse e la sua voce suonò simile al basso mugghio del vento. I suoi fratelli rimasero in silenzio per qualche istante, pervasi da uno stupore che ben presto si tramutò in rabbia.
Cosa vai dicendo, Makalaurë? Proruppe Carnistir, incedendo nella stanza. Come puoi chiederci di attendere quando Russandol giace nelle immonde mani dell’Avversario?
Non un giorno, gli fece eco Curufinwë, avremmo dovuto lasciare a Moringotto affinché assaporasse la propria vittoria.
Lui li guardò entrambi: volti severi e animi fiammanti, come Russandol che con la morte di loro padre nel cuore si avventurava a Nord dell’Ardh-calen8.
Attenderemo, ripeté alzando il proprio tono.
Allora anche Tyelkormo si fece avanti, solamente i suoi occhi tradivano un bagliore irato.
L’attesa non è mai fine a se stessa, disse. Dunque cosa attenderemo noi, mentre nostro fratello, sangue del nostro sangue, viene umiliato nelle profondità di Angamanda?
A simili parole lui vacillò. Immaginare Russandol sottoposto alle torture di Moringotto lo riempì di quell’angoscia vischiosa a cui tentava faticosamente di sottrarsi.
Non v’è speranza alcuna: il suo pensiero divenne verbo sulle labbra di Ambarussa. Una sentenza che radicò nell’oscurità dei loro animi, lasciandoli attoniti.
Poi Curufinwë parve riscuotersi. Badate a voi, mormorò. Siamo tutti impegnati dal giuramento che pronunciammo e la rinuncia non è contemplata.
Allora lui alzò il proprio sguardo così da incontrare quello del fratello: le sue parole gli avevano fornito l’impulso per giustificare la propria decisione.
Il tuo monito è saggio, Curvo. Proprio in ragione del giuramento non possiamo lasciarci avvincere dalla sventatezza. Tentare un salvataggio, ora, porterebbe solo alla rovina e nessuno di noi rimarrebbe a perpetrare la volontà di nostro padre.
Non furono parole sincere, le sue. Seppure il giuramento gli fosse caro e indirizzasse parte delle sue azioni, era stata la paura a determinare la sua scelta. La paura di perdere altri fratelli, per quanto induriti dal fato avverso fossero divenuti. La paura di dover rinunciare anche al vago ricordo dei fanciulli che erano stati fra i bianchi palazzi di Tirion. Perché se solamente ceneri erano rimaste della sua famiglia, avrebbe almeno impedito che il vento della morte gliele strappasse dalle mani.
Attenderemo, ripeté ancora una volta e con il richiamo al giuramento nel cuore, nessuno dei suoi fratelli lo contraddisse.


Passò un tempo in cui solo l’oscurità sembrò accogliere i suoi pensieri. Si confessò ad essa e fu terribile, quasi si fosse prostrato dinnanzi all’ Avversario, soffocando preghiere sul suo grembo.
La luce delle torce costringeva le ombre negli angoli delle stanza, là dove giaceva abbandonata anche la sua arpa: un oggetto ormai alieno alla musica.
Nella sua mente bruciava l’immagine di Russandol preda del nemico. I suoi capelli di fiamma a rischiarare antri di prigioni. Il suo viso candido e perfetto, simile ai ritratti statuari di loro madre, dilaniato dagli artigli degli orchi. Le sue membra possenti, spezzate dalle catene. Russandol che per primo si era levato al fianco di loro padre, pronunciando il giuramento, ma che pure, sulle sponde di Losgar, aveva parlato in favore delle schiere abbandonate. E ancora, alle pendici degli Orohaldar10, aveva sorretto il suo corpo ferito, accogliendone l’odio per Moringotto con la stessa riverenza con cui, secoli addietro, aveva accolto l’amore per sé e i propri fratelli.
Ma né Russandol né loro padre, uniti e divisi in quel modo controverso eppure struggente, erano più al suo fianco.
Così il tempo iniziò a dilatarsi, a fluire sulla sua pelle come acqua, indegno di alcun interesse. E un giorno fra i tanti che si susseguivano in quella notte perenne, da Est sorse un improvviso chiarore.
Filamenti di luce, simili ad una raggiera incastonata nel cielo, salirono i pendii dei monti per valicarne le cime in un’ondata splendente. Allora tutti, dimentichi del proprio destino maledetto, si riversarono sulle sponde del Mithrim e osservarono quella creazione, che altro non poteva essere se non opera dei Valar. In loro si acuì il ricordo di Laurelin, e quando quell'astro dorato iniziò a veleggiare fra le volte celesti, incendiandole di striature rossastre che andarono incupendosi nella notte, un’altra stella si innalzò allo stesso modo, andando a coronare il manto di Varda. Aveva in sé parte dei riflessi argentei di Telperion, ma brillava di toni più pallidi.
Poi il vento si levò da Nord, mormorando d’una battaglia gloriosa: le schiere tradite di Ñolofinwë e Findárato erano arrivate in Endorë, scortate da quella luce ritrovata.










 
Note finali:
1 (Q) - “Figli di Fëanáro”
2 (Q) - Lett. “centro del mondo” nome Quenya della Terra di Mezzo e variante di Endor (di cui una forma arcaica era Endór).
4 (Q) - “Giuramento della Casa di Fëanáro”
5 (Q) - Lett. “Coloro che parlano”, termine che indica gli Elfi in quanto “razza”. A differenza di Eldar che fa riferimento agli Elfi non Avari, “Quendi” dovrebbe avere una portata più generica.
6 (Q) - Lett. “prigione di ferro”, Angband in Sindarin.
7 (Q) - “Erede/principe”
8 (N) - Lett. “regione/reame verde”, Ard-galen in Sindarin. Qui, per coerenza, ho deciso di usarne l’equivalente Noldorin (essendo che manca una traduzione Quenya del termine).
10 - Questa è una mia traduzione del Sindarin "Ered Wethrin”, in quanto - del suddetto termine - non ho trovato né un equivalente Quenya né uno Noldorin. Basandomi sulla parola “Orocarni” (lett. “montagna rosse”), ho pertanto provato a tradurre “Ered Wethrin” con oror “montagne/alture” e  haldar “ombreggiate”/“in ombra”.




The Minstrel, di cui i versi introdutti fanno parte, è una breve e meravigliosa canzone dedicata a Maglor, e costituisce il “sunto” più esplicativo della visione che io stessa ho del personaggio.


   
 
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