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Autore: Ruta    05/01/2015    7 recensioni
Sherlock si concentrò.
Cosa sapeva, lui, di Molly? Molly, Molly Hooper, la sua patologa di fiducia, il suo accesso facile ai laboratori del Bart’s. La più giovane specializzanda dell’ospedale, durante il suo tirocinio; l’unica donna del dipartimento di patologia; la sola tra gli addetti che non avesse reagito ai suoi commenti sprezzanti trincerandosi dietro una riserbata nota di biasimo o le definizioni superficiali del caso.
Disprezza ciò che è diverso da te, bandiscilo e mettilo all’angolo.
Genere: Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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DIECI

Era stata un’idea di John, naturalmente. Idee all’apparenza innocue, dai risultati ben più impraticabili e tendenti al disastroso, erano senza eccezione frutto di una mente predisposta a pensare limitatamente, a guardare in una sola direzione: la più probabile.
Anche quell’anno John aveva organizzato uno di quegli sciocchi party di Natale, coadiuvato nei suoi sforzi dalla sollecitudine di Mrs. Hudson, sempre disposta a dare una mano ai suoi ragazzi e dal senso pratico di Mary.
Nello sfaccendare logistico dei tre, Sherlock aveva subito trovato di che ridire, prima di tutto nei suoi esperimenti che era stato costretto a lasciare incompiuti per permettere il riassetto della cucina. Non che ce ne fosse bisogno, ma qualcuno gli aveva forse dato ascolto? Certo che no!
Con un diavolo per capello e masticando il beccuccio della pipa che Mary gli aveva fatto trovare in uno sprazzo d’umorismo – non che fossero sporadici nel loro manifestarsi - la settimana precedente sulla mensola del camino, Sherlock si dispose di traverso sul divano, osservando con occhi funebri gli strati di polvere che venivano sbatacchiati via dalle scansie e dai ripiani dei mobiletti, il ghigno di Billy che riacquistava parte del suo macabro smalto dopo essere stato lucidato a dovere.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dieci cose che (non) sai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sherlock si era rassegnato alla prospettiva di avere ospiti in casa propria, si era perfino rassegnato al diventare anfitrione di uno sgradito intrattenimento in un giorno che continuava ad essere privo di alcun significato celebrativo per lui.
Si era rassegnato perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso, gli era mancato tutto quello. Per due anni aveva guardato al passato, lottando nell’orizzonte del presente e nel frattempo aveva pensato soltanto alla maniera più rapida per tornare a casa - non ad una che fosse indolore, ma che fosse la più veloce.
Ora che era tornato, non riusciva ad osservare con gli stessi occhi di una volta quanto lo circondava: il cicaleccio inesauribile di Mrs. Hudson, il repertorio pressoché illimitato di storielle sconce di Garret Lestrade, il rossore soffuso sulle guance di Molly Hooper al suo quarto bicchiere di vino e più di tutti John Watson. John che distribuiva cocktail con l’espressione di chi non abbia un pensiero al mondo, di chi abbia toccato il fondo e ne sia uscito immacolato.
Mary gli si affiancò, offrendogli un bicchiere panciuto, riempito con due dita di scotch liscio, senza aggiunta di ghiaccio o acqua.
Sherlock accettò e le rivolse un cenno, continuando ad osservare il quadro familiare della stanza affollata dal riflesso dello specchio.
Lui e Mary erano dirimpetto al camino, di spalle e un poco discosti dagli altri che, se pure lo avevano notato, non sembravano farsene cruccio, quasi fosse qualcosa di naturale.
Con uno sguardo penetrante dedusse per l’ennesima volta la donna che gli stava accanto, apparendo del tutto a proprio agio in sua presenza e annuì tra sé, approvando quel che altri ‘vedevano’, ma non ‘osservavano’.    
Mary intrecciò le mani dietro la schiena e si sporse in avanti. “Un penny per i tuoi pensieri.”
Sherlock avrebbe sbuffato, invece inarcò un sopracciglio, accostando di nuovo il bicchiere alle labbra. “I miei pensieri non valgono così poco.”
Mary scoppiò a ridere e Sherlock si ritrovò a sorriderle di rimando. Si voltarono e gli sguardi di entrambi, come richiamati, si spostarono per incrociare quelli di John che fece una smorfia ridicola e mimò con due dita un ‘vi tengo d’occhio’.
“Idiota,” dichiararono simultaneamente e celebrarono la verità inconfutabile del loro giudizio con un brindisi.
“Ma un idiota che amiamo,” aggiunse Mary e Sherlock non avrebbe potuto essere più d’accordo.

 
*

 
“Quest’anno abbiamo organizzato qualcosa di diverso dal solito,” annunciò John, prendendo Mary per mano. “Una caccia al non-detective che è in noi.”
Sherlock fece una smorfia eloquente e Mary gli strizzò l’occhio.
A Lestrade andò di traverso quello che stava bevendo e si limitò a fissare John come se gli fossero spuntati zoccoli e coda. “Ho capito bene?”
“Perché non lasciamo che John ci spieghi, prima?” intervenne Molly. Era seduta sul divanetto, Mrs. Hudson a un fianco e il suo ragazzo/fidanzato sull’altro. Alla sua sinistra - Tom? - Tom annuì energicamente.
“Le regole sono semplici.” John rivolse un sorriso grato a Molly e prese il cappello a cilindro che Mary gli stava porgendo. “Ognuno di noi pesca un biglietto su cui sono scritti i nomi dei presenti e deve scrivere dieci cose che sa di quella persona. Non che ha dedotto,” lanciò un’occhiata inequivocabile nella sua direzione e Sherlock roteò gli occhi, “ma di cui è a conoscenza perché gli sono state raccontate.” Raddrizzò le spalle e tirò su col naso, una cattiva abitudine che denotava nervosismo, quindi fece vagare lo sguardo sui presenti, strofinandosi la fronte. Si schiarì la voce. “Sono trascorsi due anni  e be’, non sono stati esattamente i migliori della mia vita. Scusa, tesoro,” John si rivolse a Mary. “Non esattamente i migliori della mia vita quindi, ma neppure i peggiori e questo per valide e ottime ragioni. Una valida e ottima ragione, in effetti. Sono trascorsi due anni nei quali ci siamo allontanati e inevitabilmente persi di vista e se ora ci ritroviamo di nuovo qui, è in onore dei bei vecchi tempi, oltre che grazie al colossale idiota in mezzo a noi. Credo che sappiamo tutti a chi mi riferisco, sì, Sherlock, parlo di te, grazie. Perciò ci tengo soltanto a farvi sapere che rinunciare a tutti voi è stato come perdere una famiglia e anche se due anni sono poca cosa rispetto al tempo che ci rimane da trascorrere insieme, di sicuro non sono bastati a renderci degli estranei e questo è lo scopo del gioco.” 
“Oh, John!” Mrs. Hudson si asciugò gli occhi con uno dei fazzoletti di carta che avevano guarnito i vassoi degli stuzzichini.
“Mi sembra un’idea deliziosa,” convenne Molly, passandole un braccio dietro le spalle e i suoi occhi, brillanti e non lucidi come ci si sarebbe aspettati dall’empatica Molly Hooper, incrociarono per un attimo quelli di Sherlock. Lei non abbassò i propri e lo scrutò senza la soggezione e il timore che avevano contraddistinto in ampia parte i primi anni della loro conoscenza. Gli sorrise e non c’era traccia di imbarazzo nei suoi modi, solo trasparente dolcezza e calore.  
Probabilmente parte del disagio che lui provò dovette evincere dalla sua espressione, perché il sorriso di Molly si incrinò agli angoli e lei aggrottò le sopracciglia, confusa.
Nello stesso momento, Lestrade levò il bicchiere in alto. “Che altro dire, allora? Ai vecchi tempi!”
Lo imitarono tutti, Sherlock distolse con un attimo di ritardo lo sguardo dal volto radioso di Molly.

 
*

 
C’era un timer e una porzione del suo cervello, quella che stava contando i secondi rimanenti, gli comunicò l’approssimarsi della scadenza.
Sherlock non se ne curò. Fissò il foglietto che aveva pescato e il nome che vi era scritto.

Molly Hooper
Dieci cose su Molly Hooper da scrivere sul retro, informazioni ottenute non per averle dedotte, ma perché doveva essere stata lei stessa a raccontargliele.
Non avrebbe dovuto risultargli difficile, posto che non le avesse buttate durante una delle numerose incursioni di pulizia capitanate da Mrs. Hudson.
Sherlock si concentrò.
Cosa sapeva, lui, di Molly? Molly, Molly Hooper, la sua patologa di fiducia, il suo accesso facile ai laboratori del Bart’s. Aveva un gatto di nome Toby, un randagio che aveva adottato alla Casa del Cane. Era orfana di madre dall’età di undici anni e di padre dai ventidue.
La più giovane specializzanda dell’ospedale, durante il suo tirocinio; l’unica donna del dipartimento di patologia; la sola tra gli addetti che non avesse reagito ai suoi commenti sprezzanti trincerandosi dietro una riserbata nota di biasimo o le definizioni superficiali del caso. Disprezza ciò che è diverso da te, bandiscilo e mettilo all’angolo.
Non Molly, non Lestrade, non John. Non loro.
Sherlock si era aspettato il vuoto o al massimo mensole riempite per metà, non la caterva di informazioni che trovò a portata di mano, una pioggia di ricordi che gli piombarono addosso con la caducità della neve appena caduta e già sul punto di trasformarsi in acquerugiola.
La quantità di informazioni lo sconvolse, tuttavia non quanto la loro sfarzosa inutilità.

 

* 


Una scelta, due possibili binari da percorrere. Sherlock odiava abbandonare un’opera in itinere e ancora di più i compromessi. Quelli li lasciava volentieri agli indecisi. Da scartarsi non-scelte, dunque, o scelte a metà.
Su un binario, quello bianco e candido come il sorriso luminoso che Molly gli avrebbe rivolto, lui avrebbe dovuto riempire il retro del foglietto, facendo facilmente appello ai ricordi che non aveva eliminato dalla sua memoria, tanto meno estirpato alla maniera in cui si sradicano le erbacce. 
Le conseguenze, in quel caso, quali sarebbero state?
Perfino a lui non era dato saperlo, soltanto scoprirlo, nel caso in cui avesse scelto quella strada.
Sherlock la scartò, al bianco aveva da sempre preferito sfumature meno chiare.
Si avviò con passo sicuro sull’altro binario, il secondo tracciato per lui dalla propria mente e colorato appositamente di un nero carbone.
Se provò rimorso, nel compiere quella scelta, stabilì di rimandarlo a dopo, ad un momento in cui l’appartamento si sarebbe liberato del coro di voci che lo riempiva.

 
*

 
Arrivò il suo turno e Sherlock porse a John il biglietto con un gesto da prestigiatore, tenendolo tra l’indice e il medio.
John lo prese e lo voltò e l’espressione sul suo volto si rabbuiò un attimo in una di esplicito rimprovero, un acciglio rapido a dileguarsi dalla sua fronte, prima che si sforzasse in una risata obbligata. “Vuoto,” comunicò agli altri e in fretta nascose loro la vista del nome scarabocchiato sul davanti.
Gesto inutile, pensò Sherlock annoiato, dal momento che il semplice conto finale avrebbe portato all’esclusione diretta del fortunato che gli era capitato in sorte.
John passò oltre e cominciò a leggere il successivo.
Gerry Lestrade gli diede una pacca sulla schiena. “Non è facile come sembra, vero? Non quando non puoi ricorrere a quel tuo cervello iperbolico!”  
Sherlock piegò la bocca all’ingiù, fingendo di fremere per il fastidio e si mosse verso la finestra.
Era quello che ci aspettava da lui, in fondo e quelle aspettative, per una volta, gli pesarono sulle spalle come non erano mai riuscite a fare in precedenza, provocandogli un dolore nuovo e più acuminato, uno che spingeva poco alla volta con una pressione persistente, ma senza oltrepassare la soglia di male tollerabile e trasformarsi in qualcosa di lancinante.
Si sforzò di non notare lo sguardo di Molly che lo seguiva né il modo pensieroso in cui, mentre lo fissava, si sfiorasse il labbro inferiore col dito.
Finse di non accorgersi delle onde morbide in cui lei aveva acconciato i capelli e che le ricadevano graziosamente sulle spalle, della catenella dorata che portava al collo e che scompariva nella curva del seno, nascosta dal maglioncino d’angora che indossava. Il verde le donava, così come la semplice eleganza del vestito che portava al di sotto e il trucco naturale che le ammorbidiva la linea delle labbra sottili e le ingigantiva lo sguardo.

Oh, di certo era assurdo. Eppure rappresentava l’unica opzione sensata. Aveva assurdamente senso e lui avrebbe già dovuto capirlo mesi orsono, nell’immediatezza del suo ritorno, quando lei gli aveva fatto da assistente.
Stava nevicando fuori e sulla strada il vento faceva compiere alla neve già depositata volteggi degni di un contorsionista.
Aveva nevicato anche quel giorno, ricordò.
Osservò la neve e pensò a cosa sarebbe successo se invece di incamminarsi, allora, lui si fosse voltato.  

 
*

 
“Sei stato molto scortese stasera.”
Dopo aver assistito ai riti della buonanotte senza avventurarsi a prendervi parte, Sherlock aveva impugnato il violino e aveva ripercorso mentalmente le note dell’orchestra di Praga ad accompagnarlo nel suo concerto.
Tra la fine del primo movimento e poco prima che attaccasse il secondo, John era piombato a sedere sulla sua poltrona. Mary, invece, in un permesso che Sherlock non le aveva mai concesso, non a parole quanto nei fatti, si lasciò cadere nella propria.
John li squadrava e qualcosa, nel comportamento di entrambi, sembrava aver provocato la sua disapprovazione.
Sherlock sospirò, spense il suono dell’oboe e lo mise in pausa. “Non capisco a cosa ti stai riferendo.”
Mary risollevò la testa per rivolgergli l’ombra di un sorriso smaliziato. “Nel dettaglio?”
“Voi due,” John indicò le loro teste come se non sapesse cosa volesse farci, se sbatterle una contro l’altra o aprirle e vederne il contenuto, “tra voi due non so chi sia il peggiore, dico davvero.”
“Pensavo di essere io la tua preferita,” replicò Mary.
“Arrivi con quattro anni di ritardo,” la avvertì Sherlock.
“Ah, ci rinuncio,” disse John, “è come avere a che fare con due bambini.”
Una pausa che si protrasse abbastanza a lungo da fargli sperare che la questione sarebbe stata lasciata cadere, irrisolta. Sfiorò i piroli e il ponticello e riposizionò il manico del violino contro il collo, flettendolo di conseguenza. Pizzicò le corde con l’archetto -
“Non che ti importi o ti interessi saperlo, ma sei stato atroce nei confronti di Molly.”
- e produsse un suono stridente.
“Atroce,” ripeté, atono, rimanendo immobile nella sua posizione. “Atroce, John. Spiegami in che modo e per quale ragione sarei stato atroce nei riguardi di Molly.”
John non fu scalfito dai suoi toni né dal suo sorriso sarcastico. Di nuovo quell’acciglio trovò posto sulla sua fronte. “Un biglietto vuoto, Sherlock, sul serio? Anni che lavori con Molly Hooper e non sei stato capace di ricordare dieci cose di lei? Anche cinque o sei sarebbero state sufficienti.”
“Perché?”
John batté le palpebre, come se fosse sorpreso dalla sua domanda. “Come dici?”
“A quale scopo?” domandò Sherlock, secco.
“A quale scopo essere gentili?” ritorse John, alzandosi di scatto e il fastidio, ora, era diventato acrimonia e rabbia. “A quale scopo mostrare un briciolo di gentilezza a qualcuno che lo è sempre stato con te, anche quando ti saresti meritato di essere mandato al diavolo! Ma dimenticavo con chi sto parlando. Sherlock Holmes, l’uomo che –”
“John,” lo richiamò a bassa voce Mary, sfiorandogli il braccio. Bastò perché un barlume di ragione e fredda lucidità ritornasse negli occhi di John.
“John,” insistette Mary, “è la Vigilia.”
John non si scansò, ma dopo poco sciolse con delicatezza le dita di lei dalla loro presa e si avviò verso il basso tavolino per versarsi qualcosa di forte.
Mary seguì i suoi movimenti e senza girarsi ad osservarlo, disse: “Sherlock, perché non ci racconti quello che pensi realmente?”
Al che lui avrebbe potuto dare numerose risposte, tutte dannatamente banali: ‘Non vedo perché dovrei’, ‘i miei pensieri sono affare mio’, ‘non capireste’.
Invece, straordinariamente, decise di farlo, di raccontare quello che pensava, quello a cui aveva pensato per quasi tutta la serata, o perlomeno per una buona fetta di essa.
Parlò di Molly Hooper e di tutte le cose che sapeva di lei, piccoli o grandi che sembrassero, superflue o importanti che fossero, raccontò loro ciò che aveva scoperto di sapere, che aveva conservato senza che ne fosse stato cosciente, non fino a quel momento. 

Molly Hooper aveva una predilezione per le cose dolci. Preferiva il vino rosso a quello bianco. Le piaceva l’odore della colla acrilica e del legno lavorato, delle pareti ridipinte di fresco. Adorava i film in bianco e in nero e quelli americani del decennio 50’-60’. Si commuoveva guardando Vacanze Romane e la sua attrice preferita era Liz Taylor.
Non sapeva andare in bicicletta perché nessuno le aveva mai insegnato.
Ogni anno, a novembre, rileggeva il libro preferito di suo padre; era 1984 di Orwell.
Le piacevano le anticaglie e aveva una collezione di vecchie cartoline di estranei, comprate sulle bancarelle dei mercati delle pulci. Adorava i cappelli e anche il colore nero che trovava elegante, ma non indossava mai perché lo associava alla tristezza e alla perdita. Conservava in una scatola decorata in découpage gioielli di famiglia ereditati da sua madre; odiava portarli.

Parlò e parlò, il violino dimenticato e poggiato sul davanzale, l’archetto che sembrava scivolargli tra le dita scarne allo stesso modo delle sue confessioni. Ne aveva a centinaia, avrebbe potuto continuare per l’intera nottata e per quella successiva, impiegare le sue scorte senza completarle. Ad un certo punto, tuttavia, tacque e il suo silenzio trovò altro silenzio a scortarlo.  
Alla fine fu Mary a spezzare l’incantesimo. “Oh, Sherlock. Ora è troppo tardi, lo sai questo, vero?”
Lo guardò con dolore, quasi fosse suo il rammarico di quello che non era successo, ma che in un’altra dimensione sarebbe potuto succedere.

Non mi sono accorto di cosa stessi perdendo finché non l’ho perduto.
“Cosa? No!” esclamò John, guardandoli con aria sconvolta. “Ma insomma, conquistala! Se questo è ciò che provi, va’ da Molly e diglielo chiaramente.”
“Per offrirle cosa, John? La mia vita è il mio lavoro e nel mio lavoro c’è spazio per la mia patologa, non per Molly Hooper.”
“Queste sono scuse,” replicò John duramente. “Ti ci aggrappi per non affrontare la realtà e cioè che hai paura, una fottuta paura del diavolo. Sei dovuto morire per capirlo, ma pensavo che lo avessi accettato: tenere a qualcuno non è uno svantaggio. Ti rende migliore. Molly Hooper può renderti un uomo migliore, Sherlock, potrebbe, se tu glielo lasciassi fare.”
Sherlock fece un verso di scherno. “Cosa ti fa credere che glielo permetterei?”
“È il tuo orgoglio a parlare.”
“No, è tutto ciò in cui credo, a cui ho dedicato la vita a farlo.”
John scosse la testa e la sua voce era come era stata due anni prima, carica di qualcosa che era supplica e implorazione e altro impossibile da spiegare. “Non precluderti questa possibilità.” Non aggiunse: potrebbe essere l’ultima. Non occorreva farlo e lui capì ugualmente.
Sherlock si concesse tre secondi.
John non poteva saperlo, non poteva vederlo né seguirlo in quei tre secondi. E come avrebbe potuto?

Tre secondi.
Lui e Molly Hooper e il mondo ai loro piedi. Lui e Molly Hooper, il mondo ai loro piedi e un cane, una vita a Londra e una in campagna al momento del suo ritiro dalle consulenze investigative.
Tre secondi.
Sherlock inspirò a fondo e diede loro le spalle. Riprese il violino. “L’ho già fatto.”
La sua di voce suonò simile a una sentenza. Irrevocabile.

 

 


 N/A:

Tutta la storia nasce da un’idea semplice che io ritengo di non aver reso adeguatamente né bene o almeno ‘abbastanza bene’. L’idea è appunto quella del gioco che John ha spiegato.

È il primo Natale dopo il ritorno di Sherlock (quello che trascorrono a casa dei suoi genitori è il secondo perché rivedendo la terza stagione si capisce che tra il primo e il secondo episodio trascorrono sei o sette mesi e tra il primo e il terzo un anno intero), il primo che tutti loro trascorrono a Baker Street e John, da uomo sentimentale quale io reputo che sia, decide di organizzare questo gioco: tu generico peschi un biglietto su cui c’è scritto un nome, poi scrivi dieci cose che sai di quella persona, ma, ehi, attenzione, deve essere qualcosa che sai perché è stata quella stessa persona a raccontartelo!

Per Sherlock sarebbe facile o risulterebbe complicato? Forse entrambi. Io gli ho reso le cose ancora più ostiche. Non soltanto gli risulterebbe semplice scrivere dieci cose su Molly Hooper, ma talmente semplice che Sherlock ne risulta giustamente spiazzato e disorientato e bam!- capisce. Cosa? Che è troppo tardi. Ha capito che tiene a Molly, questo lo sapeva già da prima, ma non aveva compreso fino in fondo la portata di quel ‘tenere a lei’. Ora lo ha capito, ma non intende fare niente perché le ha già detto addio, appena pochi mesi prima, nella scena che viene mostrata nel primo episodio.

Sono cattiva e sadica? Ne sono cosciente, ma questo è l’effetto che mi fanno le feste: malinconia e angst a palate. Spero di scrivere qualcosa di più allegro prossimamente e che questa storiella, nel frattempo, sia stata un passatempo passabile. Bacioni :)

  
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