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Autore: EmmaStarr    05/01/2015    6 recensioni
Mi chiamo Rosie Cresta. No, per favore, non fate quelle facce: guardate che non sono pazza come mia sorella Annie. Non la conosco nemmeno: ero troppo piccola quando è stata estratta per partecipare agli Hunger Games, avevo appena compiuto due anni. Quindi vedete, non trattatemi diversamente. Non ridete, non scappate, non fate finta di essere pazzi quando mi vedete per strada.
Io non sono mia sorella.

* * *
«Mamma...»
«Sì?» fece lei, continuando a camminare con passo spedito.
«Non l'ho ringraziata» confessai, avvampando di vergogna.
Lei parve non capire. «Come, scusa?»
«Massì, Annie» spiegai, mordendomi il labbro. «Mi ha aiutata, ed io non le ho detto grazie» rivelai con espressione cupa. «Sono scappata via, e...»
«Hai fatto benissimo» disse spiccia la mamma. «Non devi mai avvicinarti a lei per nessun motivo, Rosie. È pazza.»
* * *
«A proposito, volevo dirti, uhm... grazie... per ieri, sai...» proseguii, imbarazzata come non mai. «C-cioè, se non ci fossi stata tu...»
Annie sorrise, uno di quei sorrisi che spodestano il sole e le stelle del cielo. «Ma figurati! È così che si fa tra sorelle, no?»
* * *
Partecipa al 7° turno del contest "1 su 24 ce la FA" di ManuFury
Genere: Fluff, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annie Cresta, Finnick Odair, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Mi chiamo Rosie Cresta. No, per favore, non fate quelle facce: guardate che non sono pazza come mia sorella Annie. Non la conosco nemmeno: ero troppo piccola quando è stata estratta per partecipare agli Hunger Games, avevo appena compiuto due anni. Quindi vedete, non trattatemi diversamente. Non ridete, non scappate, non fate finta di essere pazzi quando mi vedete per strada.

Io non sono mia sorella.

 

* * *

 

– Bisogna fare qualcosa.

– E che cosa? Tuo marito non può certo andare in piazza e dire: “Fate attenzione, oggi io rinnego pubblicamente Annie Cresta, non è più mia figlia.” Non funziona così.

– Ma hai letto la letterina di Rosie? Ha solo otto anni, per l'amor del cielo! I suoi compagni la odiano per via di... di quella là.

Quella là è anche tua figlia, oltre che mia nipote, casomai te ne fossi scordata. E se invece permetteste a Rosie di conoscerla?

– … Ti sei bevuto il cervello, per caso? Si aggrappa sempre al fatto che “non la conosce nemmeno, Annie” per cercare di farsi accettare dai suoi amici, e tu...

– Perché, credi che le cose cambieranno da sole? Rosie dovrà convivere per sempre col fatto di essere la sorella minore di Annie Cresta, è un dato di fatto.

– Non mi interessa quello che dici tu: mia figlia non entrerà mai in contatto con quella... con quella pazza.

 

* * *

 

Stavo ascoltando, quel giorno. Quando lo zio ha proposto alla mamma di farmi conoscere Annie, ero dietro la porta ad ascoltare. Non sapevo bene neanch'io cosa volessi: se incontrare Annie o tenermi bene alla larga da lei. La verità, probabilmente, era che lei mi spaventava da morire.

Non che non l'avessi mai vista, eh: ogni tanto passava a salutare mamma e papà. Per pochissimo tempo, in realtà, perché nessuno dei due voleva farsi vedere insieme a lei. Ora ho il sospetto che avessero paura. E poi, la vedevo spesso vicino alla piazza, quella con il parapetto che dava sulla scogliera. Stava sempre lì, nei giorni di vento, a guardare il mare.

Ricordo che la trovavo bellissima, e allo stesso tempo ne avevo una paura terribile. Come se da un momento all'altro potesse voltarsi, prendermi per il polso e trascinarmi con lei davanti a quel parapetto, il vento tra i capelli, il rombo del mare nelle orecchie, l'infinito negli occhi. Avevo paura di vederla sorridere misteriosamente vicino a me, con quegli occhi dello stesso colore del mare, dello stesso colore dei miei. Avevo paura di morire.

 

* * *

 

– Ehi, Rosie! Lo sai che tua sorella è ancora alla scogliera?

– Connie ha detto che se ne stava lì, gli occhi spalancati, a fissare il mare! E sai cosa faceva, nel frattempo?

– Diglielo, Randall, diglielo!

– Sorrideva come una scema! Più pazza di così non si può, vero, Rosie?

– Chissà se la pazzia è una cosa contagiosa? Ehi, Rosie, per caso senti qualche strano impulso?

– Oh, no, adesso si mette a piangere anche lei, guarda!

– Buon sangue non mente, eh! Tale sorella...

– State zitti! Io non sono mia sorella!

Ma una piccola parte di me, quel giorno, si chiese perché Annie stesse sorridendo. E una parte ancora più piccola si chiese se non sarei dovuta andare da lei a scoprirlo.

 

* * *

 

Oltre l'orizzonte {quello che vedo}

 

 

Mi chiamo Rosie Cresta, e questa storia risale a quando avevo undici anni. Fino ad allora non avevo mai prestato veramente attenzione a Annie, perché ne avevo paura. E allo stesso tempo la trovavo bellissima, in un modo tutto suo. Oggi ho finalmente deciso di parlare di lei perché, per quanto possa sembrare scomodo, assurdo, imbarazzante, è mia sorella.

Tutto è cominciato nella stagione della neve, quando ha fatto così freddo che tutte le barche da pesca sono rimaste incastrate nel porto. Ero felice, perché significava che non sarei dovuta andare a intrecciare le reti con la mamma, ma avrei avuto la giornata libera: nonostante fossi in vacanza dalla scuola, infatti, normalmente passavo le giornate insieme ai miei a lavorare. Inoltre in quel periodo stavo iniziando a legare con i miei compagni di classe -soprattutto con Connie Davis, con cui condividevo la passione per i libri- e non vedevo l'ora di passare una giornata intera con loro.

Quando sono passata vicino al molo non ho saputo resistere alla tentazione: allora mi sono seduta sul bordo lasciando dondolare le gambe fin quasi a sfiorare l'acqua, come facevo sempre. L'aria era fredda, pungente, e le gambe formicolavano nei pantaloni troppo leggeri, ma non volevo andarmene subito. Fissare l'orizzonte mi era sempre piaciuto, specialmente quando il cielo era grigio scuro e il mare di un blu quasi nero come quel giorno.

Improvvisamente sentii una voce dal tono eccitato che mi chiamava: «Non ti muovere!»

Guardai poco lontano da me, lungo la sottile linea di sabbia che neanche i più arditi di noi avrebbero osato definire “spiaggia”, e la vidi. Era indiscutibilmente lei, i capelli scarmigliati e gli occhi strabuzzati, intenta a fissare qualcosa poco lontano da me. Ero così terrorizzata che mi immobilizzai come una statua di sale, osando appena respirare. «Vedi quei cerchi nell'acqua?» sussurrò lei, avvicinandosi piano al molo e arrampicandocisi sopra. Si muoveva come un essere a metà tra un uccello e un gatto, etereo e sinuoso al tempo stesso. Mi dava i brividi. «Mags dice che, quando era piccola, Capitol City usava quelle bestie per sedare le rivolte. Tira su i piedi» consigliò poi, senza distogliere lo sguardo dall'acqua. Era tranquillissima, ma il modo in cui parlava mi faceva accapponare la pelle. Visto che rimanevo immobile mi posò una mano sulla spalla, e io scattai come se mi avesse dato la scossa: allora obbedii, gattonando velocemente indietro sul molo, che scricchiolò leggermente. Annie rise, frugando nella sua borsa ed estraendone poi un pezzo di pane secco. «Guarda!» ordinò, e sempre continuando a sorridere lo lanciò nell'acqua dove fino a poco tempo prima stavano le mie gambe.

Improvvisamente si udirono dei gorgoglii, poi dalle profondità dell'oceano emerse una figura nera come la notte e dagli occhi giallo-verdi. Fu questione di un istante: inglobò il pezzo di pane insieme a una considerevole quantità d'acqua e si rituffò nelle profondità dell'oceano, non prima di averci lanciato uno sguardo come di disapprovazione.

Io ero pietrificata dalla paura, il cuore che batteva a mille. Lei invece sorrideva, come affascinata. «Hai visto?» chiese, la voce emozionata. «Li chiamavano Serpi dell'Abisso, reagiscono al movimento appena oltre la superficie dell'acqua. Mags dice che ai tempi non era più sicuro nemmeno fare il bagno, tanti ce n'erano... Non credevo che ne esistessero ancora, sarebbero dovuti essere estinti! Dovrei avvisare il sindaco?» mi chiese, inclinando la testa.

Io la fissai e basta, terrorizzata. «D-devo... devo andare a casa» biascicai alla fine, e senza un'altra parola fuggii via. Quando mi voltai, ansimante, mi stava ancora fissando. Sorrideva appena, come se fosse a conoscenza di un segreto da cui dipendeva la sua intera esistenza.

Deglutii e girai l'angolo, cercando con tutte le mie forze di cancellare dalla mente la sensazione del suo tocco gentile sulle spalle.

 

* * *

 

«Rosie, sei tornata presto, va tutto bene?» mi salutò mia madre quando mi sbattei alle spalle la porta di casa, il respiro affannato.

«Sì, io...» iniziai, cercando le parole per esprimere quanto era successo. Non ne avevo, era impossibile. «Hai mai sentito parlare delle Serpi dell'Abisso?» chiesi alla fine, mordendomi le labbra.

Le mani della mamma si immobilizzarono, il mestolo sospeso a mezz'aria. «Cos... ne hai vista una?»

«Sì, cioè, io sto bene, però...» iniziai, ma non feci in tempo a finire che lei fu subito da me, guardandomi con un'espressione atterrita. «Raccontami tutto, presto! Come stai, sei ferita?»

«No, no, voglio dire, ero sul molo che facevo dondolare le gambe, e c'erano degli strani cerchi nell'acqua...» iniziai, senza sapere come continuare. La mamma non apprezzava Annie, era un dato di fatto. Anzi, forse la sopportava ancora meno di papà, il che era tutto dire. Come avrebbe reagito sapendo che le avevo parlato?

«Rosie, è una faccenda molto seria. Quegli esseri sarebbero dovuti essere scomparsi più di vent'anni fa! Non ne dovrebbero più parlare nemmeno a scuola, come...»

«C'era anche Annie, sul molo» rivelai alla fine, tutto d'un fiato, fissandomi le scarpe. «Mi ha detto di stare ferma immobile, poi mi ha fatta allontanare. A quel punto ha gettato un pezzo di pane nell'acqua ed è uscito quel... quella specie di serpente gigante, tutto nero!» raccontai, concitata, allargando le braccia per evidenziare l'enormità dell'animale. Ancora non mi ero del tutto ripresa dall'emozione: quello che avevo visto era davvero incredibile!

Le labbra della mamma si ridussero a una linea sottile. «Dobbiamo avvisare il sindaco» disse alla fine, senza guardarmi. Si voltò e aprì la porta senza degnarmi di uno sguardo. Io le trotterellai dietro, preoccupata.

«Mamma...»

«Sì?» fece lei, continuando a camminare con passo spedito.

«Non l'ho ringraziata» confessai, avvampando di vergogna.

Lei parve non capire. «Come, scusa?»

«Massì, Annie» spiegai, mordendomi il labbro. «Mi ha aiutata, ed io non le ho detto grazie» rivelai con espressione cupa. «Sono scappata via, e...»

«Hai fatto benissimo» disse spiccia la mamma. «Non devi mai avvicinarti a lei per nessun motivo, Rosie. È pazza. E ora muoviamoci: conoscendola, se ne sarà tornata a casa senza pensarci più, e ora è un problema nostro se nelle nostre acque circola una Serpe degli Abissi! Ma pensa te...» borbottò, affrettando ancora di più il passo.

Eppure, continuavo a sentirmi in colpa. Aveva dei begli occhi, Annie: anche cercando di pensare ad altro, non riuscivo a smettere di vederli nella mente mentre mi sorrideva.

 

* * *

 

Il giorno seguente le barche erano ancora bloccate nella baia: gli uomini parlavano di far arrivare da Capitol City un rompighiaccio adeguato, ma per il momento ero di nuovo libera.

Dopo quasi un'intera notte passata a rivoltarmi nel letto, avevo preso una decisione: sarei andata da Annie, a casa sua, per ringraziarla. Sentivo che era una cosa che dovevo fare, un bisogno impellente che non mi lasciava scampo.

Trovare casa sua non fu difficile, tutti sapevano che viveva da sola in quella villetta dal tetto azzurro poco lontano dal paese. Mi ero sempre chiesta perché non vivesse al Villaggio dei Vincitori come ci si aspettava che facesse, ma ormai avevo accettato che Annie non fosse una ragazza convenzionale.

Esitai per qualche minuto davanti a casa sua, guardandomi intorno. Il piccolo giardino era curato e in ordine: un vialetto bianco divideva in due il praticello imbiancato di neve, e da dietro la casa spuntavano alti abeti dalla corteccia spessa e scura. C'era anche una siepe che girava tutt'intorno alla casa. Mi feci coraggio e avanzai lungo il vialetto, lo sguardo fisso sulla porta in legno pitturata di celeste. Dalle finestre si intravedevano sagome luminose protette da sottili tendine bianche.

Cercavo il coraggio di suonare il campanello da almeno dieci minuti, quando la porta mi si spalancò davanti, e per poco non fui investita da una piccola furia castana. «Oh, ciao!» esclamò Annie, fermandosi giusto un istante prima di cadermi addosso. Sorrise, radiosa, e probabilmente fu per via di quel sorriso che non fuggii a gambe levate: sembrava seriamente felice di vedermi. «Come va?»

Paonazza, balbettai qualcosa che solo con ampie doti intuitive si sarebbe potuto interpretare con un “bene, grazie”, ma lei non sembrò curarsene troppo. «Se mi dai cinque secondi raccolgo un rametto di rosmarino e sono da te» mi informò, dirigendosi spedita verso il retro della casa. Non avevo idea di cosa fare, quindi le corsi dietro. C'era un angolo del giardino libero dalla neve, un piccolo quadratino di terra in cui crescevano delle piante dalle foglioline raggrinzite. «Sai, con questo freddo si sono addormentate quasi tutte...» spiegò Annie, recidendo alcuni gambi con aria esperta, «Ma appena sarà primavera fioriranno di nuovo!» concluse, allegra. Poi si voltò e tornò di gran carriera verso casa. Appena arrivò sulla soglia, però, si fermò di botto. «Scusa, non è molto ordinato» si schermì con un risolino che per la prima volta tradì un velato nervosismo. «E stavo cucinando, quindi c'è un po' di confusione in cucina, ma... Oh, fa niente» concluse agitando una mano, ed entrò.

 

* * *

 

Per tutto quel tempo non avevo quasi aperto bocca. Il cuore mi batteva fortissimo, ed ero seriamente terrorizzata: Avevo passato tutta la vita ad avere paura di Annie, come si ha paura del mostro sotto il letto o di un incubo spaventoso. I suoi modi di fare, quella sua aura strana di mistero ed energia, quell'espansività, quel sorriso... Metteva sottosopra in meno di un istante tutte le mie certezze.

Senza contare che parte della mia infanzia era stata rovinata anche dal fatto che i miei compagni la prendessero come vittima dei loro scherzi e insulti. Però, insomma, ero davanti a casa sua, e lei aveva appena fatto una cosa terribilmente normale come raccogliere un rametto di rosmarino, e mi stava invitando a entrare. Dopotutto, dovevo ancora ringraziarla, no? Così feci un respiro profondo, presi il coraggio a due mani e varcai quella soglia.

La prima cosa che notai furono i quadri. Ce n'erano dappertutto: alle pareti, contro i mobili, sui cavalletti. Erano bellissimi, non riuscivo a distogliere lo sguardo: vedevo infinite riproduzioni del mare, della foresta, del molo o della piazza del paese. Molti ritraevano una stessa persona, un ragazzo dalla pelle abbronzata e dai capelli rossi, che sorrideva con un'espressione a metà tra l'affettuoso e il malizioso.

«Li faccio io» spiegò Annie, agitando una mano con aria vaga. «Solo che non so mai dove metterli, quindi sono un po' in disordine. Ah, guarda qui!» esclamò, trascinandomi per mano verso il cavalletto più vicino. «Che te ne pare?» Il quadro era ancora a metà, ma avevo riconosciuto benissimo la Serpe dell'Abisso del giorno precedente. Aveva addirittura il suo sguardo penetrante, come se stesse rimproverando l'osservatore per averlo disturbato.

«È... è bello» balbettai, confusa. «A proposito, volevo dirti, uhm... grazie... per ieri, sai...» proseguii, imbarazzata come non mai. «C-cioè, se non ci fossi stata tu...»

Annie sorrise, uno di quei sorrisi che spodestano il sole e le stelle del cielo. «Ma figurati! È così che si fa tra sorelle, no? Oh, mi sa che è pronta la torta, mi dai una mano?»

La seguii come camminando su una nuvola, senza mai lasciare la sua mano.

 

* * *
 

Il giorno dopo le barche furono finalmente libere dai ghiacci, e dovetti tornare a lavorare. Però nel pomeriggio passai di nuovo a casa di Annie. Lei non parve sorpresa di vedermi, come se avesse sempre saputo che sarei venuta. Iniziò a parlare del più e del meno, e mi trovai così bene che tornai anche il pomeriggio seguente, e quello dopo ancora. Ovviamente non era possibile che andassi laggiù tutti i giorni della settimana, specialmente quando ricominciò la scuola: però trovavo sempre un paio di giorni a settimana per fare un salto a casa sua, aiutarla nel cucinare una torta o osservarla mentre dipingeva, chiacchierando come due vecchie amiche.

Man mano che passava il tempo cominciavo a capirla: non era pazza. Quella fu probabilmente la rivelazione più incredibile della mia esistenza: era come se improvvisamente mi fossi resa conto che il cielo e la terra si fossero invertiti, o che gli alberi fossero azzurri e il mare viola acceso. Annie, la ragazza di cui avevo sempre avuto paura... era umana, viva, vera. Più vera di molte persone perfettamente sane di mente che conoscevo.

E poi, cantava. Canticchiava canzoni allegre, spigliate. E se non si ricordava le parole, inventava. Aveva una bella voce, e a volte si metteva addirittura a ballare. Capisco che questi comportamenti possano apparire da pazza, ma c'era una tale dolcezza in tutto quello che faceva, una tale vitalità mista a timidezza... Oh, sarei rimasta ore a fissarla mentre cantava e danzava col suo cavaliere immaginario.

A proposito di questo, verso la fine di Febbraio terminò il Tour della Vittoria, e fece il suo ritorno al Distretto 4 il bellissimo Finnick Odair.

 

* * *

 

Quando Annie me l'aveva accennato nel suo chiacchiericcio continuo, io l'avevo ascoltata solo per metà. Lo sapevano tutti, al Distretto 4, che Finnick Odair era innamorato di Annie Cresta. È per questo motivo che la maggior parte delle ragazze grandi la detestavano, e voltavano la testa quando la vedevano per strada. Da parte mia non è che lo vedessi troppo spesso, visto che papà si rifiutava di conoscerlo e di parlargli. Sospettavo che l'affascinante vincitore nemmeno sapesse della mia esistenza.

«Vedrai, ti piacerà da morire» assicurò Annie, le mani infilate fino ai gomiti nell'impasto. «È gentilissimo con tutti -mi passi il latte?-, e sicuramente sarà entusiasta di conoscerti -grazie-, visto che... Ah, ne ho messo troppo!» constatò, abbattuta.

«Aggiungiamo un po' di farina» proposi io, avvicinandomi un po'. Effettivamente ora l'impasto sembrava fin troppo liquido, anche se io non me ne intendevo troppo: a casa mia le torte erano un lusso che non potevamo permetterci.

Lei mi sorrise, e anche se fuori pioveva era come se il sole stesse splendendo più che mai. «Buona idea! Senti, questa che ne dici di portarla a casa? A papà piacevano le torte al cioccolato, se non sbaglio» disse con noncuranza.

Io esitai. «Mmh... mamma dice che le torte fanno male alla salute» temporeggiai, insicura.

«Ti stai mordendo il labbro» notò lei, inclinando la testa. «Fai così quando sei nervosa, sai?»

Strabuzzai gli occhi: nessuno se n'era mai accorto prima. «D-davvero? No, non...» balbettai, ma lei scrollò le spalle.

«Mamma e papà non accetterebbero mai niente fatto da me, lo so» sospirò, continuando a mescolare. «Mi odiano.»

«Non è vero!» protestai con scarsa convinzione. «È che non...» esitai un istante. «Sai, credo che abbiano paura» buttai fuori tutto d'un fiato.

«Paura? Di me?» chiese lei, interessata. Un'altra cosa bella di Annie era che mi prendeva sempre sul serio, mi trattava come una sua pari. Non usava mai quel tono che sta a significare: “ma cosa dici, figurati se è vero, sei troppo piccola per capire”. Quando dicevo qualcosa, mi credeva. Anche se faceva fatica a capire, come in quel caso. «Ma io non faccio paura. Anzi, di solito sono gli altri che fanno paura a me» confessò, ridacchiando nervosamente.

«Beh, non ti conoscono» spiegai, fissandomi i piedi. «Cioè, non ti capiscono più, non ti riconoscono, e -ti serve il lievito?- e hanno paura di vederti così diversa» continuai, un po' più convinta.

«Anche quand'ero piccola non gli andavo molto a genio -sì, grazie-, credo che mi trovassero strana già allora» rivelò Annie con un sorriso triste. «Mi ricordo che quando sei nata non mi permettevano nemmeno di tenerti in braccio! E sì che avevo già tredici anni!»

Inclinai il capo, confusa. Non avevo ricordi di quando Annie viveva ancora a casa nostra, ma lei sì: me ne rendevo conto solo in quel momento. «E com'ero da piccola?» chiesi in uno slancio di curiosità.

«Eri minuscola, tutta rosa, e ridevi sempre» ricordò lei, l'ombra di un sorriso sul volto. «La notte piangevi in continuazione, ed io o la mamma dovevamo cantare finché non ti addormentavi. Capitava spesso che lo lasciasse fare a me, e mi piaceva. Mi sentivo così fiera» sbuffò, allegra, osservando con vaga soddisfazione l'impasto della torta perfettamente amalgamato.

Era davvero brava, pur non avendo mai seguito nessun tipo di corso per pasticcera o cose del genere. In realtà sapevo che era così brava perché quello era l'unico modo in cui Annie occupava le sue giornate: pitturando o cucinando. D'estate si aggiungeva anche il giardinaggio. Realizzai solo allora che probabilmente lo faceva per non sentirsi troppo sola. E per non impazzire del tutto.

«Quando sei nata, è stato l'anno in cui sono sbocciati tutti quegli alberi di pesco» continuò Annie, lo sguardo perso. «Me lo ricordo bene, non ne sono mai sbocciati tanti tutti insieme. Ero andata a passeggiare nel frutteto ed era come se piovessero petali rosa, era uno spettacolo bellissimo. Poi sono venuti a chiamarmi dicendo che eri nata, e sono corsa fino all'ospedale ancora piena di petali nei capelli» ridacchiò. «Il giorno dopo si è messo a piovere e i fiori sono caduti tutti a terra, è stato un peccato. Ma non ero triste: tanto, eri più bella tu».

 

* * *

 

Alla fine arrivò Finnick, e conoscerlo fu l'ennesimo passo avanti nel mio rapporto con Annie. A volte mi ritrovavo a pensare a come da perfette sconosciute stessimo gradualmente passando a conoscerci meglio. Voglio dire, capitava spesso che scherzassimo o che ci prendessimo in giro: dopo le prime settimane avevo abbandonato ogni tipo di timore o di balbettamento, per passare a un atteggiamento più spigliato, naturale. «E così tu saresti la famosa Rosie? Annie, credevo che non me l'avresti presentata più» si lamentò Finnick dopo avermi stretto la mano con fare maturo.

«Ma che spiritoso!» rise lei, colpendolo scherzosamente a un fianco.

Da allora anche Finnick fu più o meno una costante durante le mie visite a Annie: a volte ridevamo e scherzavamo tutti insieme, e nonostante loro avessero ventiquattro anni e io solo undici, mi sembrava davvero di poter parlare di tutto, in loro compagnia.

Capitava però che Finnick non ci fosse, e devo ammettere che i momenti passati da sola con Annie erano i miei preferiti. Iniziai a confidarmi con lei anche nelle piccole cose, come le mie amicizie o i miei litigi, e lei aveva sempre una risposta buffa e allegra per tutto. Mi sentivo come se avessi ritrovato una parte di me che non sapevo nemmeno di aver perso.

L'inverno passò velocemente, e iniziarono i primi temporali primaverili. Un giorno, mentre entravo in casa di Annie, la vidi tutta vestita e pronta per uscire. «Che fai, esci?» chiesi, confusa. L'aria era fredda e vibrante, il cielo minacciava di scoppiare in un potente temporale da un momento all'altro.

«Vado alla scogliera! Vuoi venire?» rispose lei, allegra.

Mi ci volle solo un secondo per decidere. «Certo!»

 

* * *

 

Le onde sbattevano feroci contro gli scogli neri come ossidiana, e il vento mi sferzava feroce il viso, facendomi pizzicare gli occhi e mozzandomi il fiato. Alcuni schizzi ghiacciati mi raggiunsero il naso, facendomi strizzare gli occhi. Stringevo la balaustra con entrambe le mani, le nocche bianche dallo sforzo. «Tutto bene?» chiese lei, quasi gridando per sovrastare il rumore del mare. Non mi guardava nemmeno, gli occhi catturati dall'orizzonte.

Annuii vigorosamente: era tanto che volevo chiederle di portarmi con lei alla scogliera. Forse addirittura da prima che la conoscessi, quando la vedevo di sfuggita e papà mi diceva di camminare più veloce. A quei tempi avevo così paura, ricordai con vago stupore. Ora invece capivo: era solo in quel momento, protesa verso il cielo, che comprendevo veramente cosa significasse essere liberi.

Avevo sempre cercato qualcosa, nell'orizzonte. Ricordo di come passassi interi quarti d'ora sul molo, da piccola, lasciando penzolare le gambe e fissando quella linea sottile che unisce mare e cielo. «Annie...» chiamai.

«Sì?»

«Cosa guardi?» chiesi di slancio. «Voglio dire, lo so cosa guardi, ma... intendo, cosa vedi davvero?» chiesi, esitante.

Come avevo immaginato infinite volte quando ero piccola, lei si voltò a guardarmi con quei suoi occhi mozzafiato, e sorrise. Il vento si fermò, il mare smise di rombare, il cielo e la terra scomparvero finché non rimasero soltanto i suoi occhi, misteriosi e ridenti, esattamente come me li ero immaginati. «Potrei dirtelo, ma non sarebbe più bello se lo scoprissi da sola?» chiese, una sorta di gioia selvaggia nella voce.

Sospirai. «Sapevo che l'avresti detto. E, Annie...»

«Sì?»

«Quando avrò la risposta te lo dirò, va bene?» proposi, lo sguardo colmo di determinazione.

Lei sorrise e mi scompigliò i capelli già arruffati dal vento. «Va bene» disse, complice. «Torniamo a casa?»

Annuii, e mentre mi staccavo dal parapetto sentivo come se mi fosse esploso un piccolo sole all'altezza del cuore.

 

* * *

 

«Annie, c'è il temporale!» esclamai, sorpresa. D'accordo, quando ero uscita di casa il cielo era scuro, ma certo non mi aspettavo una tale tempesta!

Lei mi fu subito vicino, quasi eccessivamente preoccupata. «Un... temporale?» chiese, nervosa. «Con lampi, tuoni e fulmini?»

Annuii, distratta. I temporali mi erano sempre piaciuti, mi piaceva restare a casa leggendo un libro su una poltrone mentre fuori il vento turbinava feroce. «Dovresti tornare a casa adesso» mormorò lei, lo sguardo distante. «Rischi di non riuscire a tornare indietro, se il vento si fa troppo forte.»

Non ci avevo pensato, e impallidii: nessuno sapeva che andavo a casa di Annie, e se non fossi tornata a casa mamma e papà si sarebbero preoccupati a morte. «Okay, allora vado» esclamai, ma appena spalancai la porta venni investita da una tale quantità d'acqua che barcollai indietro, spinta dal vento impetuoso. Tentai di nuovo, ma stavo quasi per essere sbattuta contro il muro esterno della casa quando Annie mi afferrò al volo per un braccio e mi riportò dentro, chiudendosi bene la porta alle spalle. «È troppo tardi, ormai» mormorò, mordendosi il labbro. «Come facciamo? Io ho un telefono, ma non credo che a casa ce l'abbiate, giusto?»

Scossi la testa. «No, però il sindaco ce l'ha. Magari mamma e papà andranno a cercarmi là, visto che sono amica di suo figlio Terry» proposi, incerta. Annie fece un respiro profondo e annuì. «Vado a chiamarlo, allora. Nel frattempo, tu... non lo so, aspetta qua.» Agitò una mano e volò verso il piano di sopra.

Mi girava la testa: come avrei spiegato a mamma e papà dove mi trovavo? Mi avrebbero messa in punizione a vita, e sicuramente non mi avrebbero più permesso di vedere Annie. Solo in quel momento realizzai quanto avrebbe fatto male. Da lontano sentii la sua voce al telefono. «No, sul serio, sta bene. Se passano a chiedere... perché non potevo immaginare che sarebbe scoppiato un temporale simile, e non... ma certo che no! No, io... è lei che è venuta, sul serio... no, è la verità, non... sì, sì, certamente! D'accordo. Grazie, grazie mille. Sì... Sì, gliel'ho detto, sicurissima! D'accordo. Sì. Gli dica di non preoccuparsi. Domattina, certo. Se smette, ovvio che... No, non ne ho i mezzi, non... sì, certo. Grazie, grazie mille.» Sospirò e riagganciò.

Le venni incontro. «Cosa facciamo?» domandai, preoccupata.

«Il sindaco ha detto che ci penserà lui ad avvisare mamma e papà... Cioè, suppongo che gli dirà che ti ho rapita e sto per ucciderti o qualcosa del genere» ridacchiò nervosamente, una risata che non le raggiunse nemmeno gli occhi prima di spegnersi. «Dovrei... prepararti un posto per dormire. Sì. E la cena! E poi non so se riesco a trovarti un pigiama, andranno bene dei miei vecchi vestiti? Oh, Rosie, scusami: sono un disastro con queste cose» confessò, sospirando.

Sorrisi. «Ma no, figurati! Sistemeremo tutto» le assicurai, sentendomi improvvisamente grande e orgogliosa di me per quelle parole.

Lei parve apprezzare, e mi diede un buffetto sulla guancia. «Cous cous o lasagne?»

 

* * *

Si potevano dire molte cose di Annie Cresta, ma era innegabile che fosse un'ottima cuoca. Quando glielo dissi, rise di cuore. «Oh, adesso dici così, ma avresti dovuto vedere cosa combinavo all'inizio! Finnick è stato male una settimana di fila, una volta. E cinque o sei anni fa ho dato fuoco alla cucina» ricordò con un sorriso furbo. La tempesta infuriava forte fuori dalla finestra, e con lei la paura per cosa sarebbe successo il giorno successivo. Ma per ora non avevamo tempo per preoccuparcene, intente com'eravamo a ridere e chiacchierare come se niente fosse. Finimmo di mangiare senza quasi accorgercene, guardammo un film e alla fine giunse l'ora di andare a letto.

Ammetto che mi sentissi seriamente emozionata: non è che mamma e papà fossero poveri, voglio dire, avevano entrambi un lavoro e il cibo non mi era mai mancato, così come i vestiti puliti e le cure mediche necessarie. Però non eravamo neanche ricchi, non come lo era Annie: avevamo una piccola televisione che usavamo solo per vedere gli Hunger Games com'era obbligatorio che fosse, non certo per vedere film. Mangiavo dolci solo al mio compleanno e a Natale, e la mia stanza era grande come uno sgabuzzino. Annie invece era ricca, ricca come solo una Vincitrice senza nessun interesse nel comprare vestiti all'ultima moda di Capitol City poteva essere. Non se n'era vantata neanche una volta, ma era chiaro che fosse così: mangiare così tanto, guardare un film in quell'enorme casa, salire le scale e frugare nel suo armadio alla ricerca di qualcosa di comodo per dormire... non posso negare di essermi sentita come sul cominciare di un'avventura.

«Mmmh... Ci sarebbe la stanza degli ospiti, ma è un po' lugubre» rifletté Annie, mordendosi il labbro. «E poi non la pulisco mai, perché tanto non ho mai ospiti, e già faccio fatica a fare le pulizie... Preferisci il divano?» propose, torturandosi le mani.

Io allungai il collo dietro di lei, spiando nella sua stanza. «Hai un letto enorme» notai, leggermente sorpresa.

Lei tossicchiò nervosamente. «È per quando viene Finnick» spiegò, guardando ovunque tranne che verso di me.

Ridacchiai, entrando nella stanza. L'avevo già vista un paio di volte, e mi piaceva molto: le pareti azzurro chiaro davano l'impressione di trovarsi sott'acqua, e tutti i mobili dalle forme morbide e delicate sembravano fatti apposta per lei. «Allora, dove dormo?» chiesi dopo un po'.

«Divano?» propose lei. «Se no posso riordinare la stanza degli ospiti, anche se è un po' tetra...»

Scossi la testa. «Il divano va bene» decisi, un po' delusa dal fatto che non mi avesse chiesto di dormire con lei, nel suo letto. Non sapevo se avrei accettato, anzi, forse sarei morta dall'imbarazzo. Ma avrei voluto che me lo chiedesse comunque.

Prese delle coperte e si diresse traballante verso il salotto del piano di sotto. Io la seguii, iniziando a provare un vago senso di disagio. Quella casa era così grande...

«Okay. Uhm... buonanotte, allora. Vuoi che faccia qualcosa?» si propose subito, gentilmente.

Io scossi la testa. «Di solito mamma e papà lavorano fino a tardi, non hanno tempo di raccontarmi storie o cose del genere» le ricordai.

Annie sospirò. «Lo sapevo, ma pensavo che magari con te avrebbero fatto un'eccezione» spiegò. Poi si chinò su di me e mi posò un bacio sulla fronte. «A domattina» sussurrò dolcemente prima di voltarsi. Aveva un profumo fresco, buono, sorprendentemente familiare: sapeva di mare e di vento, quasi di tempesta. Sorrisi, molto più tranquilla, e iniziai a sprofondare nel sonno.

 

* * *

 

Non furono i tuoni a svegliarmi, ma la sete. Mi bruciava la gola, così decisi di alzarmi in punta di piedi per fare una puntata in cucina. Quando arrivai esattamente sotto alla tromba delle scale, però, sentii un gemito soffocato. Un tuono terrificante scosse la casa dalle fondamenta, e i gemiti si fecero più intensi. «Annie?» azzardai, senza ovviamente ricevere alcuna risposta.

Cautamente, salii le scale a piedi nudi fino a raggiungere la porta della sua stanza. La socchiusi piano, e sbirciai all'interno: il letto era vuoto. Eppure, avevo sentito la sua voce... Ci furono altri due tuoni, uno dopo l'altro, e fu così che individuai Annie: era rannicchiata a terra, le mani premute contro le orecchie con aria disperata, le guance bagnate di lacrime.

Non avevo la minima idea di cosa fare, e rimasi a fissarla senza aprire bocca. A un certo punto i suoi gemiti si trasformarono in parole dal senso compiuto, pronunciate con tono lamentoso. «No, no, no, no.» Prima sussurrate, poi sempre più forti. «No, non è colpa mia, non è colpa mia, non li ho uccisi io!» gridò, disperata. Si udì un altro tuono, e Annie si premette ancora più forte le mani sulle orecchie, singhiozzando.

A quel punto non riuscii più a stare lì, nascosta, senza fare niente. Quella era la sofferenza che doveva aver provato Annie ogni giorno dopo gli Hunger Games. Sapevo pochissimo dei suoi Giochi, dal momento che non riesco a ricordare assolutamente nulla di quando li ho guardati alla televisione. Lo zio ogni tanto mi raccontava qualcosa, ma niente di troppo approfondito. Papà una volta mi ha detto che lei ha vinto per puro caso, senza ammazzare nessuno. La cosa mi aveva lasciata abbastanza sorpresa, dal momento che era piuttosto strano, ma non ci avevo dato poi molto peso. Invece solo in quel momento realizzai che per lei doveva essere un peso insostenibile.

Mi avvicinai impacciata e mi sedetti vicino a lei. Annie non diede segno di avermi notata, continuando a singhiozzare e a dondolarsi avanti e indietro. «Annie» mormorai.

Lei sollevò lo sguardo, esitante. «R-Rosie?»

«Va tutto bene» dissi col tono più rassicurante che mi uscì. «Non hai ucciso nessuno, va tutto bene» proseguii, senza sapere bene come continuare.

«Ma sono morti!» gemette lei, nascondendo di nuovo il volto fra le mani. «Anche la sorella di Neil. Si chiamava Naara» singhiozzò. «Erano gemelli. Dal Distretto 6» spiegò, e ricominciò a piangere. Un altro tuono. Conoscevo quella storia, almeno vagamente: lo zio me ne aveva parlato, una volta. Pare che alla stessa edizione di Annie avessero partecipato anche questi due gemelli, di cui uno si era offerto volontario per proteggere l'altra. Verso la metà dei Giochi si erano alleati con Annie e il suo compagno di Distretto. Poi però la ragazza era morta, credo ammazzata da un Ibrido, e l'altro, impazzito dal dolore, aveva cercato di uccidere Annie e il suo alleato.

«Ma non è stata colpa tua» insistetti, indecisa se toccarla o meno. Alla fine le misi una mano sul braccio, impacciata.

«Neil diceva di sì» disse lei, tirando su col naso. «Ha detto che non ero stata abbastanza... abbastanza veloce» singhiozzò. «Non ce l'hai una sorella? Mi ha chiesto. Come ti sentiresti se morisse a causa di una ragazzina troppo lenta?», e giù a piangere di nuovo. «E a quel punto cos'avrei potuto fare, eh?» domandò, gli occhi spalancati rivolti verso di me. «Avevo una sorellina. Aveva appena due anni, l'avevo lasciata a casa, al sicuro» continuò. Praticamente ormai stava delirando. «E se le fosse mai successo qualcosa, io...» Ci fu un altro tuono. «Il cannone faceva questo rumore» mormorò a mezza voce, premendosi più forte le mani contro le orecchie.

«Non siamo nell'Arena» affermai con decisione. «E io... tua sorella sta bene, non devi preoccuparti per lei» continuai, e una piccola parte di me si sentiva sorprendentemente felice per quello che aveva sentito.

«Non ho una sorella» mormorò però lei, scuotendo freneticamente la testa. «Mamma ha detto che non ho una sorella, e papà le ha dato ragione. A volte la vedo per strada, ma loro la trascinano subito via. Se provo ad andare a trovarla, mi mandano via» continuò, gemendo. Per poco non mi prese un colpo. Io ero sempre vissuta credendo che Annie, da brava pazza qual era, nemmeno sapesse di essere mia sorella, nemmeno mi riconoscesse quando ci vedevamo per strada. E invece...

«Non sono mamma e papà a decidere se hai o non hai sorelle» affermai con un sorriso timido. «Sono io. E io dico che ne hai una proprio qui.» Non avevo mai pronunciato parole più vere di quelle.

Lei sollevò lo sguardo e mi fissò, un raggio di luce in quegli occhi così verdi, così provati, così dolci. «Grazie» sussurrò appena, e, per la prima volta da quando ero entrata in quella stanza, sorrise.

Io le sorrisi a mia volta. «Ma figurati! È così che si fa tra sorelle, no?»

Non ci fu bisogno di aggiungere più nulla. Annie si alzò e mi prese per mano, quindi ci coricammo insieme nel suo enorme letto che profumava di mare e di sogni.

Ci furono altri tuoni, quella notte, ma Annie dormì serena, la mano intrecciata saldamente alla mia.

 

* * *

 

La mattina seguente mi svegliai con un profumo di pancakes e sciroppo d'acero nelle narici. Incapace di resistere, scesi le scale due gradini per volta e sbucai in cucina. «Buongiorno!» salutai, allegra.

Lei mi sorrise, uno di quei sorrisi che facevano passare la fame, o la tristezza, o la paura. «Buongiorno a te! Hai fame?» Io annuii, e ricevetti in cambio un'abbondante porzione di pancakes inondati di sciroppo. Mi buttai allegramente sulla colazione, e avevo già quasi finito quando Annie parlò. «Senti, per ieri sera...»

Alzai una mano. «Non preoccuparti» dissi subito, la bocca piena. «È... È più che comprensibile» proseguii, deglutendo.

Annie ridacchiò, nervosa. «Mi succede ogni volta, con i temporali. Cioè, all'inizio mi succedeva sempre, indipendentemente dal tempo. Per questo, sai, dicevano che ero pazza. Mi sa che lo ero davvero. Però Finnick era sempre con me, e poco a poco...» allargò le braccia, con aria quasi di scuse. «Non avrei voluto che assistessi, mi spiace» concluse.

Io scossi la testa. «Dico sul serio, Annie. Sono felice di aver potuto aiutare» ribattei.

«Non sei... non lo so, terrorizzata? Scandalizzata?» mi incitò lei, ma si vedeva che stava sorridendo.

«Nemmeno un po'» assicurai. «Piuttosto...» finii di mangiare e mi alzai. «Temo che ci sia qualcosa di peggio da affrontare, ora.»

Lei si incupì. «Mamma e papà?»

«Mamma e papà» confermai, cercando di mantenere un tono sicuro di me, mentre dentro tremavo come una foglia. Temevo seriamente che non ci avrebbero permesso di restare insieme, di vederci ancora.

Annie dovette aver capito, perché mi si avvicinò e mi strinse delicatamente in un abbraccio che sapeva di sole. «Non riusciranno a tenermi lontana da te, sorellina» promise. E se esiste una via per la felicità, deve passare per forza attraverso un abbraccio come questo.

 

* * *

 

Non fu tutto semplice, ovviamente. Vi lascio immaginare i litigi, i pianti, le sfuriate. E ancora i castighi, le punizioni, le lacrime. Ma Annie sfoderò un'energia e una forza che non credevo potesse avere, e anch'io non avevo nessuna intenzione di cedere.

Persino Finnick fu d'aiuto in questa battaglia, e quando anche lo zio ci mise una buona parola, beh, mamma e papà furono costretti a cedere.

Ora non mi vergogno più del mio cognome, e non me la prendo quando Randall e gli altri bambini mi prendono in giro per via di Annie. Anzi, quando mi dicono che le somiglio lo prendo per un complimento.

Ho cominciato ad andare alla scogliera anche da sola, ogni tanto, alla ricerca di quella risposta che ho promesso a mia sorella: cosa vedo, quando guardo l'orizzonte? A volte mi sento vicinissima alla soluzione, a volte invece la trovo ancora ben distante. Forse la verità è che continuerò a cercare senza mai scoprire il segreto del mare e del cielo; forse arriverò a una soluzione e poi cambierò idea innumerevoli volte fino a trovare quella giusta; forse ancora sarà la stessa a cui era arrivata Annie tempo fa. Fatto sta che, da quando ho deciso di intraprendere questa ricerca, non sono più la stessa.

«Ehi, Rosie!»

«Annie!» sorrido, sollevando la mano per salutarla. Lei si porta vicino a me in silenzio, il vento che le scompiglia i capelli, e rivolge lo sguardo lontano, oltre i Distretti, oltre le rivolte, oltre la paura.

Rimaniamo così per un po', perse nell'infinito segreto dell'orizzonte, felici di esistere. All'improvviso, lei si volta e mi guarda. «È bellissimo, vero?»

Non ho bisogno di vedere per capire. «Già» commento, rapita. La sua mano cerca la mia e la stringe delicatamente.

E questa, signore e signori, è mia sorella. Non è perfetta, ma non è pazza. E quando mi guarda in quel modo, quando distoglie lo sguardo dall'orizzonte e da qualunque altra cosa stia vedendo solo per incatenare i suoi occhi dolci e profondi ai miei, allora capisco di essere veramente importante.

E non c'è niente che mi possa rendere più felice di così.




















Angolo autrice:
Okay, eccomi qua. Allora, non ho un granché da dire: per questo turno del contest dovevamo lasciare che fosse un parente a presentare il nostro Tributo, e così mi sono inventata la piccola Rosie (perché, come i più temerari che seguono le mie storie sanno, ho una leggera tendenza a prediligere i rapporti fraterni, e mi sarebbe piaciuto tentare anche con Annie).
Spero che questa storia vi sia piaciuta, che i personaggi vi siano sembrati IC e che abbiate la carità di lasciarmi una recensione per farmi sapere cosa ne pensate!
Un bacione, vostra
Emma <3
  
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