Questa è la seconda fanfiction che scrivo su
Sherlock. Dato che mi sono molto divertita a scrivere la prima e che nessuno ha
avuto il coraggio di dirmi di non ripetere l’esperienza (ringrazio moltissimo
chi mi abbia fatto i complimenti e chi abbia letto il racconto), ho pensato di cimentarmi
con le conseguenze dell’ultimo episodio della 2^ stagione per John Watson fino
ad arrivare all’inizio della 3^.
I personaggi qui descritti non mi appartengono
minimamente, dato che sono stati inventati da Sir Arthur Conan Doyle e
rivisitati da Steven Moffat e Mark Gatiss nella serie BBC “Sherlock”.
Poiché le fanfiction su Sherlock sono più di 3300
solo in questo sito (io ne ho lette giusto una quarantina e per lo più brevi, però
me ne sono segnate una cinquantina per future letture fra quelle lunghe), non
leggo quelle in inglese perché la mia conoscenza della lingua non mi
permetterebbe di apprezzarle come meriterebbero, non ho proprio idea se qualcuno
abbia già affrontato la reazione di Watson alla morte di Sherlock ed il nascere
dell’amore fra John e Mary come è venuto in mente a me.
Se dovesse esserci qualcosa che potrebbe sembrare
un plagio, chiedo preventivamente scusa, ma sarebbe assolutamente e totalmente involontario.
Buona lettura e ringrazio anticipatamente chi
voglia lasciare eventuali recensioni e commenti.
Era seduto nel salotto del 221B di Baker Street.
Solo. John Watson si era lasciato cadere sulla sua poltrona. I piedi scalzi.1
Non sapeva come fosse tornato a casa. Non ricordava chi lo avesse accompagnato.
La casa era singolarmente silenziosa. No. Non così silenziosa. Un suono lontano. Si raddrizzò cercando di identificare
il rumore, improvvisamente attento ...
“Sherlock?” … No. Non poteva essere Sherlock. Il suono
che giungeva alle sue orecchie era troppo flebile. Sherlock era rumoroso,
qualsiasi cosa facesse. Che stesse salendo le scale, sempre di corsa, come se
la casa andasse a fuoco. Non stava mai fermo. Suonava il violino, ad ogni ora
del giorno o della notte. Faceva esperimenti assurdi, come se la cucina fosse
un laboratorio. Ed era meglio che non fosse annoiato! Poteva sparare alla
parete o far esplodere qualcosa. Sorrise. No. Non era Sherlock. Lui non sarebbe
stato così discreto. La signora Hudson stava piangendo. Perché piangeva?
“Sono un impostore.
Dillo a chiunque voglia ascoltarti: dì loro che ho creato io Moriarty, per i
miei scopi.”2
Il
sorriso scomparve. L’espressione si fece dura.
“No,
Sherlock. Non lo farò mai. Non crederò mai che tu fossi un imbroglione. Anche
se me lo hai detto tu, non lo crederò mai. Ci sarà una ragione, se hai fatto
quella cosa mostruosa. Ci sarà una ragione, se l’ultima cosa che hai fatto è
stato tentare di convincermi che tu fossi un imbroglione. Perdonami, Sherlock,
ho sempre creduto in te, nella tua geniale gioia di vivere che mi ha travolto,
sconvolto la vita, portato a fare cose che non avrei mai immaginato di poter
fare. Perdonami, Sherlock, davvero, ma stavolta non posso crederti. Stavolta so
che mi hai mentito. Non so perché tu lo abbia fatto. Noi siamo amici. E gli
amici non si mentono. Gli amici credono l’uno all’altro. Gli amici hanno
fiducia l’uno nell’altro. Perdonami, Sherlock, ma stavolta non ti credo.
Stavolta non ho fiducia in te. Perdonami, Sherlock, ma non crederò mai che tu
fossi un imbroglione. E non ti perdonerò mai per aver cercato di farmelo
credere. E di esserti ucciso.”
Fuga
dal 221B di Baker Street
Era mattina. Un’ennesima mattina. Era trascorsa una
settimana dalla morte di Sherlock. Il funerale era stato uno di quelli per
pochi intimi. Persino i genitori di Sherlock non si erano presentati. Possibile
che si vergognassero così tanto del figlio da non porgergli l’ultimo saluto?
Oppure erano così frastornati da ciò che era accaduto da non poterlo
affrontare. In fondo, è innaturale seppellire un figlio. Forse così potevano
far finta che fosse ancora vivo. Sì. Doveva essere così. Loro non lo avevano
visto lanciarsi dal tetto del Saint Bartholomew’s. Loro potevano credere che
fosse ancora vivo. John Watson si era preso dei giorni di ferie
dall’ambulatorio per mettere a posto l’appartamento di Baker Street. Doveva
impacchettare le cose di Sherlock. Cercare di capire a chi dare cosa. Anche se
pensava che nessuno avesse mire sulla strana collezione dell’unico consulente
investigativo del mondo. Decisamente troppe cose. Ed ad ognuna era legato un
ricordo. Il peso che sentiva alla bocca dello stomaco aumentava con il
trascorrere lento delle ore. Fu anche troppo facile decidere di alleviarlo con
un liquido ambrato che non era certo the.
“Solo un
goccio. – si disse la prima sera John – Giusto
per non ricordare a quale caso fosse legato quello stupido appunto: da
maneggiare mettendosi a testa in giù. Solo un altro goccio, per dimenticare
quanto avessimo riso quando un potenziale cliente si era presentato con la prova
dell’esistenza degli extraterrestri fra noi e tu lo avevi travolto con la tua
inesorabile logica, convincendolo che anche tu fossi un alieno.”
Quanta gente strana era passata per il loro
salotto! Sembrava quasi che ci fosse una calamita che attirasse chi avesse
problemi assurdi. Sherlock li ascoltava tutti, mostrando la stessa impazienza
sia verso quelli che avrebbe aiutato sia verso quelli che avrebbe liquidato con
quel suo modo di fare sgarbato ed irritante. Quando John Watson si trascinò a
letto, lasciò la bottiglia di whiskey vuota nel mezzo della stanza.
La mattina dopo si svegliò con un enorme mal di
testa. La luce lo infastidiva ed ogni suono era amplificato a dismisura dai
postumi di una delle peggiori sbornie che ricordasse di aver mai preso. Fino ad
allora.
“Io non sono
Harry. – si disse – Si è trattato di
un singolo episodio che non si ripeterà.”
La mattina seguente, la signora Hudson trovò
un’altra bottiglia di whiskey, completamente vuota, riversa sul pavimento e
John buttato sul divano.
Le parve strano entrare alla stazione di polizia.
Il suo passato non era proprio privo di macchie, ma doveva parlare con qualcuno
e Lestrade le era sembrato la soluzione più logica. La fecero attendere in un
corridoio per quasi mezz’ora, quindi, finalmente, le dissero che l’ispettore
poteva riceverla.
La signora Hudson si sedette davanti alla
scrivania, stringendo nervosamente i manici della borsetta.
“Come sta, signora Hudson?” chiese gentilmente
Lestrade.
“Bene, grazie. E lei?” rispose di riflesso la
donna.
“Sto bene anch’io.” Ribatté l’ispettore, rimanendo
in attesa che lei spiegasse il motivo della visita.
La signora Hudson, invece, rimase in silenzio,
mordicchiandosi il labbro inferiore. Lestrade aspettò un momento, poi mise fine
a quel silenzio imbarazzato:
“In cosa possa aiutarla?”
“Ecco, mi scusi, non volevo disturbarla. So che ha
tanto da fare …”
“Nessun disturbo, signora Hudson. – sorrise il
poliziotto – Sono sempre a sua disposizione.”
“Si tratta di John.” Disse velocemente la donna.
“John? Cosa
è successo?”
“Probabilmente mi sto preoccupando per nulla. –
tergiversò la signora Hudson – Sicuramente non c’è alcun motivo per allarmarsi,
ma … ecco … in due notti John si è scolato altrettante bottiglie di whiskey.
Non è da lui. Non con tutti i problemi che ha con sua sorella a causa del bere.”
Finalmente la donna alzò gli occhi e fissò il viso
del poliziotto.
“È già tornato a lavorare?” chiese lui.
“Non ancora. Si è preso dei giorni per inscatolare
le cose di Sherlock.”
“Signora Hudson, facciamo una cosa. Con quello che
è successo non possiamo stare troppo con il fiato sul collo di John. Questo
paio di sere potrebbero essergli state necessarie per superare dei momenti
difficili, ma, se dovesse esagerare anche stanotte od una qualsiasi delle
prossime sere, voglio che mi telefoni subito a questo numero e me lo dica, così
bloccheremo questa cosa prima che prenda il verso sbagliato.”
La donna fece un sospiro di sollievo e sorrise
riconoscente, stringendo il biglietto che l’uomo le aveva allungato: “Grazie,
ispettore, le farò sapere cosa succede.”
Silenzio. Sempre più silenzio. La casa sembrava
immensa e vuota. E troppo silenziosa. Possibile che Sherlock la riempisse così
tanto con la sua sola presenza? Possibile che rendesse intensa e piena l’esistenza
di John? Perché aveva messo fine alla propria vita? Perché aveva cercato di
convincerlo che lo avesse sempre ingannato? Perché non era riuscito a fermarlo?
Cosa avrebbe potuto dire per impedirgli di compiere quel gesto assurdo e privo
di ogni logica? In cosa aveva sbagliato? Cosa aveva detto o fatto per far
pensare a Sherlock che non avesse più fiducia in lui? Che razza di medico
incompetente era per non aver capito che il suo più caro amico, la persona con
cui condivideva ogni istante della giornata, era entrato in una fase depressiva
così acuta da fargli compiere un’azione così estrema? E si era pure dimostrato
essere un pessimo amico! Come altro definirsi? Sherlock, l’essere più
anafettivo che esistesse al mondo, capiva ogni suo stato d’animo e cosa
pensasse solo con una occhiata fugace. E John Watson, invece? Il grande dottore
comprensivo ed empatico cosa aveva fatto? Non era riuscito nemmeno a capire che
la persona più importante della sua vita era caduta in una spirale
autodistruttiva senza uscita. Sherlock lo aveva salvato da un’esistenza vuota e
solitaria. John lo aveva ricompensato abbandonandolo a se stesso nel momento
più difficile. Cosa aveva fatto per meritare l’amicizia di Sherlock? Perché
aveva miseramente fallito come essere umano? Tutte le domande e le
considerazioni vennero annegate nell’ennesima bottiglia di liquido whiskey.
La signora Hudson trovò John raggomitolato sul
pavimento del salotto abbracciato alla bottiglia vuota. Con le lacrime agli
occhi, sollevò il telefono e compose il numero che Lestrade le aveva dato:
“Ha bevuto anche stanotte.”
“Allora è tempo di intervenire. Ci vediamo
stasera.”
Lestrade si presentò al centro medico e si accomodò
pazientemente in attesa di essere ricevuto. La mora dottoressa lo notò in un
angolo e gli si avvicinò:
“Salve Greg. Devi fare una visita?”
L’uomo si alzò in piedi:
“No, nessuna visita. Ho bisogno di parlarti di
John.”
Sarah sospirò:
“Le cose stanno andando male?”
“Malissimo. – rispose l’ispettore – John ha
cominciato a bere.”
La dottoressa lo fissò incredula:
“No, non può essere. – scosse la testa – John non
lo farebbe mai.”
“Il John che conoscevamo prima della tragedia,
sicuramente no. – disse Lestrade – Quanto tempo è che non lo vedi?”
“Dal funerale. Non ha ancora ripreso il lavoro, ma
so che ne avrà bisogno e che tornerà. Cos’altro potrà fare quando capirà che Sherlock
se ne è andato per sempre?”
“Bene. Farò in modo che riprenda servizio in pochi
giorni. I primi tempi dovrete avere molta pazienza. Sai di qualche appartamento
in affitto qui vicino?”
“Sì, diversi. In bacheca ci sono degli annunci.
Perché?”
“Baker Street è la malattia che sta distruggendo
John. Portarlo via da lì sarà la cura.”
Era scesa di nuovo la sera. Aveva trascorso la
giornata in uno stato di confuso dormiveglia, decisamente utile per dimenticare
Sherlock ed alleviare il dolore per la sua perdita. La sera, però, con il suo
buio e le sue luci sgargianti, aveva riportato a galla l’angoscia. John si era
attaccato all’ennesima bottiglia. Era stato costretto a cercare a lungo, per
trovarla. Aveva rovistato in armadi e cassetti rovesciandone a terra il contenuto
senza preoccuparsi che qualcosa potesse rovinarsi. Tutto pur di alleviare il
dolore. Tutto pur di stordirsi per non ricordare. Mentre setacciava il salotto,
si era trovato davanti la pistola. Ora che aveva bevuto metà della bottiglia,
se la ritrovò fra le mani senza sapere nemmeno perché. La fissava affascinato,
come se la vedesse per la prima volta. Ricordava ancora quando la aveva usata
per impedire a Sherlock di prendere la pastiglia che avrebbe potuto ucciderlo.3
“Idiota.
– pensò – L’idiota più intelligente che
conoscessi.”
Bevve un lungo sorso. Poi tornò ad ammirare l’arma.
L’impugnatura. Il grilletto. La canna. Puntata verso se stesso. Il nero buco da
cui poteva uscire il proiettile che lo guardava invitante. Fu così che lo trovò
Lestrade entrando nel salotto: seduto sulla poltrona di Sherlock, con le gambe
raccolte, le ginocchia a toccare il mento, la bottiglia incastrata fra il
bracciolo ed il suo corpo, la pistola puntata verso il volto.
Lestrade rimase paralizzato sulla porta. Non
riusciva a capire cosa stesse pensando John, ma lo vide come ipnotizzato
dall’arma che stava impugnando. Il cuore gli martellava nel petto, ma sapeva
che doveva agire con molta calma: se John si fosse spaventato, avrebbe potuto
far partire un colpo accidentale e ferirsi gravemente, se non addirittura
uccidersi. Contando sul fatto che fosse troppo ubriaco per rendersi conto che
lui si stava muovendo per la stanza, Lestrade si avvicinò silenziosamente ed,
appena fu abbastanza vicino, disarmò John. Il dottore non oppose alcuna
resistenza. Anzi, fissò l’ispettore come se non si rendesse conto di cosa ci
facesse nel salotto di Baker Street. Lestrade mise al sicuro la pistola:
“Che ne diresti di andare a letto?”
John lo squadrava con uno sguardo spento e
distante:
“Sherlock? Sei tu? – strinse gli occhi ed avvicinò
il viso a quello di Lestrade – No. Tu sei … Greg!”
Il fiato puzzava di alcool e Lestrade arricciò il
naso:
“Sì, John, sono io. Ora ti porto a letto.”
Lo sollevò di peso, visto che Watson non faceva
nulla per aiutarlo, cingendolo con un braccio sopra la vita e lo trascinò per
le scale fino alla sua stanza. Lo posò delicatamente sul letto, poi gli sollevò
le gambe. John si addormentò di colpo. Lestrade sospirò e si sistemò, come
meglio poté, sulla poltrona.
La mattina dopo il sole, che faceva capolino dalla
finestra, svegliò John. Non ricordava come fosse arrivato a letto. Sentì
qualcuno muoversi in cucina. Pensando che la signora Hudson stesse preparando
la colazione, decise di scendere. Con sua grande sorpresa, vi trovò Lestrade, i
vestiti spiegazzati e la barba non rasata.
“Buongiorno John e ben svegliato.”
John lo fissò perplesso:
“Greg? Cosa ci fai qui?”
“Qui c’è del caffè. È forte e senza zucchero. Bevilo.
Poi ti fai una doccia e la barba. Io, intanto, ti faccio le valigie … “
“Cosa? – lo interruppe John irritato – Le valigie?
Io non ho intenzione di andare da nessuna parte!”
“Io faccio le valigie. – continuò imperterrito
Lestrade – Ieri ho visto un paio di appartamenti che possono andare bene. Li
andremo a vedere insieme e ne prenderai uno in affitto. Ti concedo un paio di
giorni per smaltire completamente tutto l’alcool che hai ingerito in questi
giorni. Lunedì tornerai a lavorare.”
John era furioso. Stringeva i pugni e sembrava sul
punto di saltare addosso a Lestrade:
“Come osi! – sibilò – Con che diritto vieni qui a
dirmi cosa debba fare?”
Lestrade non si scompose: appoggiò i pugni al
tavolo e ricambiò lo sguardo duro:
“Se non fai quello che ti dico, ti arresto.”
“E con che accusa? Una bevuta di troppo?”
“No: possesso di arma di fuoco e tentato omicidio.”
John era esterrefatto:
“Tentato … tentato omicidio? E chi avrei tentato di
uccidere?”
“Te stesso.”
Ad uno sempre più sconvolto Watson, Lestrade
raccontò nei minimi dettagli cosa fosse successo la sera prima:
“Capisco che tu stia soffrendo per quello che ha
fatto Sherlock, ma non hai il diritto di scaricare addosso a tutti noi anche il
tuo suicidio! Come pensi che potremmo superare anche questo?”
“Io … io non ho mai pensato … – balbettò John – Non
ho mai voluto suicidarmi.”
“Bene. Lascerai Baker Street oggi stesso e
riprenderai a vivere. Sherlock sarà stato speciale, non lo metto in dubbio, ma
non merita che tu ti lasci morire per lui. Non lo merita, chiaro? Ci sono
persone, là fuori, che hanno bisogno di te. C’è gente che ha bisogno che tu
torni ad essere un medico. Devi tornare a vivere! Non puoi seppellirti qui
dentro e rinunciare alla tua vita solo perché quello stupido bastardo egoista
ha deciso che era troppo difficile affrontare le accuse ed ha preferito farla
finita. Tu non sei lui! Non ti permetterò di autodistruggerti, chiaro? Non ne
hai il diritto! Non sei solo! Hai capito?”
Lestrade non si era reso conto che, mano a mano che
procedeva nel parlare, il tono di voce si era alzato sempre di più. Fissava
John, che si mostrava sempre più smarrito e vulnerabile. La signora Hudson
aveva fatto capolino sulla porta della cucina ed aveva le lacrime agli occhi.
Lestrade fece un respiro profondo per calmarsi, poi riprese a parlare con un tono
di voce più basso:
“Mi dispiace, non volevo urlare. Ho già perso un
amico, non posso perdere anche te.”
John fece cenno di sì con la testa. Bevve il caffè
e salì al piano di sopra a fare la doccia.
Salutare la signora Hudson fu la cosa più
difficile. Lestrade era stato chiaro: John doveva andarsene per il suo bene. La
donna era troppo affezionata al dottore per non capire che rimanere a vivere a
Baker Street non gli avrebbe mai permesso di andare oltre.
“Mi raccomando, John, – gli disse – prenditi cura
di te stesso, ma non ti dimenticare di me. Quando te la sentirai, vienimi a
trovare. Ti farò il tuo the preferito, va bene?”
“Lo farò, signora Hudson. – rispose John – Si
riguardi. Se dovesse avere bisogno, mi chiami.”
Lestrade aveva finito di caricare i bagagli
sull’auto ed era salito in auto al posto di guida. John si fermò sul
marciapiedi, studiò la facciata del 221B di Baker Street. Per un attimo, gli
sembrò che una figura alta e magra facesse capolino alla finestra del salotto.
Il cuore gli mancò un colpo: Sherlock era tornato! Ma la realtà gli precipitò
addosso con tutto il dolore che si portava sempre appresso negli ultimi tempi:
Sherlock se ne era andato per sempre e non avrebbe più fatto parte della sua
vita. Quello che aveva visto era solo un ricordo, un fantasma del passato che
una folata di vento si era già portato via. John salì sull’auto e non si voltò
mai indietro: non sarebbe più tornato al 221B di Baker Street per molto, molto
tempo.
Alcuni giorni dopo, John si presentò in ospedale. Sarah
lo accolse con un sorriso:
“Buongiorno, John. – esordì la donna – Sono felice
che tu sia tornato al lavoro.”
John non riuscì a ricambiare il sorriso. Sarah lo
prese sotto braccio e lo accompagnò nell’ambulatorio:
“Oggi ho fatto in modo che avessi una giornata
abbastanza tranquilla, giusto per non spaventarti troppo al tuo rientro, ma non
ti ci abituare, perché ho intenzione di sfruttare le tue straordinarie capacità
fino in fondo!”
John continuava a non parlare. Entrati nello studio
medico, c’era una donna che stava sistemando la scrivania e che si girò verso
di loro. Sarah le sorrise:
“John, vorrei presentarti l’infermiera che ti
assisterà: Mary Morstan. Mary, questo è il Dottor John Watson.”
I due si scambiarono una veloce stretta di mano.
Sarah li lasciò.
Era l’inizio di una nuova vita, per John. Una vita
senza Sherlock. Senza casi. Senza avventure e pericoli. Si guardò intorno,
sospirò.
“Faccia entrare il primo paziente.” Sussurrò.
E la vita monotona riprese.
Note
1 È l’unica scena di John nel salotto di Baker
Street dopo il suicidio di Sherlock nella 2x03 “The Reichnbach Fall”.
2 È una delle tante cose che Sherlock dice a John
mentre si trova sul cornicione del Bart nella 2x03 “The Reichnbach Fall” prima
di “suicidarsi”.
3 Si riferisce a quando Sherlock sta per prendere
la pastiglia offertagli dal taxista-serial killer nella puntata 1x01 “The Study
in Pink”.