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Autore: GangsterPrincess    09/01/2015    1 recensioni
«Perché sono qui?»
Immediatamente rifletté sulla frase. “Perché sono qui?”. Un classico da film americano.
Era strano che avesse fatto quella riflessione, perché non si ricordava di aver mai visto alcun film.
La riposta si fece attendere qualche minuto, e gli fu data come come chissà quale verità dolorosa, ma non lo sorprese affatto. «Hai avuto un trauma, e sei rimasto in coma per molti giorni; nove, per la precisione». «Tuttavia, non è il trauma che ti ha portato qui; dopo esserti svegliato, sei stato subito cosciente, e per una parte della riabilitazione sei migliorato, ma dopo circa un mese ti hanno fatto smettere di assumere uno dei tuoi due farmaci. Nessuno poteva immaginare che questo creasse uno scompenso in te e ti portasse qui». Fece una lunga pausa. «Ti trovi in un ospedale psichiatrico».
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Percy Jackson
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non seppe rispondere alla domanda che, dallo sguardo di chiunque fosse la persona davanti a lui, gli era stata posta. Non seppe rispondere unicamente perché non conosceva la domanda. Non conosceva niente.

Doveva aver subito incidente, perché quello attorno a lui sembrava un ospedale. Cercò di fissare lo sguardo sulla figura che gli si trovava davanti, nera per l'effetto della luce alle sue spalle. Si arrese all'idea che quello dovesse essere un medico o un infermiere.

Ma perché era la? Cosa voleva da lui? O da lei? Non aveva idea neanche di quello.
Studiò per un secondo la stazza del suo corpo, le sue mani e le sue spalle, e dopodiché si convinse di essere un lui, ma non si diede più di sedici anni.


Rivolse allora la prima domanda al medico: «Perché sono qui?»
Immediatamente rifletté sulla frase. “Perché sono qui?”. Un classico da film americano.
Era strano che avesse fatto quella riflessione, perché non si ricordava di aver mai visto alcun film.


La riposta si fece attendere qualche minuto, e gli fu data come come chissà quale verità dolorosa, ma non lo sorprese affatto. «Hai avuto un trauma, e sei rimasto in coma per molti giorni; nove, per la precisione».


Non ne fu affatto sorpreso, se l'era immaginato già dal contesto, abbastanza particolare di suo. La sicurezza che gli era stata data dall'aver indovinato la causa del male lo fece sentire autorizzato a spostare gli occhi dal dottore.


Fece caso alla stanza; non era grigia, era colorata. Corrugò la fronte. E, cosa ancora più inquietante, gli sembrava di esserci già stato; era piena di mobili: che fossero stati suoi, in passato? Ma in nessun ospedale normale si portano i mobili del paziente. Solo in un altro tipo, quello in cui, dal tono dell'unica frase del medico, gli si stava parando il dubbio di trovarsi.


«Tuttavia, non è il trauma che ti ha portato qui; dopo esserti svegliato, sei stato subito cosciente, e per una parte della riabilitazione sei migliorato, ma dopo circa un mese ti hanno fatto smettere di assumere uno dei tuoi due farmaci. Nessuno poteva immaginare che questo creasse uno scompenso in te e ti portasse qui». Fece una lunga pausa. «Ti trovi in un ospedale psichiatrico».


Già, si era immaginato anche questo; ma fu diverso da prima – dal trauma – perché ora aveva la sicurezza di essere pazzo. O di essere ritenuto tale.


Il medico, ormai chiaramente definito e senza più l'aspetto nero dato dalla luce, fece per uscire, ma rimase sulla soglia, e mosse un gesto stanco verso delle persone fuori dalla porta, dicendo, o almeno sembrava, di attendere cinque minuti per entrare. Corrugò nuovamente la fronte; significava che qualcuno lo attendeva all'esterno della stanza. Chi poteva essere? Guardò fuori dalla finestra per capire che ore fossero; era notte.


Con lo sguardo scorse il paesaggio, alla ricerca di qualche dettaglio che riconoscesse come familiare; rimase deluso, anche se lo aveva previsto. Indugiò solo su una torre, alta, e, con un grande orologio nel centro. Qualcosa da dentro gli suggerì che doveva essere il Big Ben. Era a Londra. Non ricordava di esserci mai stato; per la verità non ricordava nessun luogo in particolare; ci rifletté. Uno c'era. Long Island.


Tornò a concentrarsi su chi poteva essere fuori al momento; il medico stava intrattenendo una conversazione con lui. O lei. O loro.


Cercò di riflettere con lucidità, ma sapere che si trovava in un ospedale psichiatrico non lo aiutava. Arrivò comunque alla conclusione che a quell'ora della notte non potevano che essere parenti; spostò nuovamente lo sguardo verso la finestra. Non aveva voglia di vedere i suoi parenti, chiunque essi fossero. Voleva uscire fuori; si vedevano zone di Londra imbiancate da una spessa coltre di neve; era inverno. Gli sembrò ironico che certe informazioni, come il nome della torre, o che stagione fosse se ci fosse la neve erano immediate in lui ma non il suo nome.


Già, il nome. Si rammaricò di non averlo chiesto prima al dottore. Poco male, stava terminando la sua conversazione, e a quel punto sarebbe tronato da lui, ma un moto di rabbia gli suggerì di non chiedere al medico, ma semplicemente sforzarsi di decifrare la targa che stava dietro di lui, e che aveva notato prima.

Dovevano essere passati una decina di minuti. Rapido, pensò che per una persona internata in quel posto non doveva essere troppo strano addormentarsi in un lasso di tempo così breve; dunque chiuse gli occhi, si rivoltò di lato e fece finta di dormire, fino a quando non sentì il passo cadenzato del vecchio medico - vedendolo di spalle gli avrebbe dato non meno di sessantacinque anni, nonostante la stazza – portare lontano chiunque fosse fuori per lasciarlo riposare.


Con un movimento pigro del capo si voltò per leggere il nome su una targhetta vicina suo letto, quasi alle sue spalle, perché immaginava dovesse essere il suo. Ci impiegò molto tempo e si sforzò davvero tanto.

Perseus Jackson.

Non gli diceva davvero niente. Anche se immaginava che sarebbe accaduto il contrario, sperava che in qualche modo il suo nome gli ricordasse qualcosa, ma non accadde niente. Al contrario, si sentiva disorientato: Perseo era un grande eroe greco.

Si stupì di saperlo.

Si alzò, e non avendo niente da fare di meglio provò a dare un occhiata fuori dalla stanza, sbirciando verso il corridoio, ma vide delle figure di schiena che non aveva voglia di incontrare. Allora andò alla finestra e diede un'occhiata ad un altra camera vicina alla sua, che aveva le finestre che davano verso la sua parte. Osservò la stanza; era di una ragazza, suppose. Individuò la targhetta, che fortunatamente non era sopra il letto, stavolta; era sufficientemente grande perché si potesse leggere da quella distanza, anche considerate le difficoltà che poco prima aveva avuto nel leggere il suo.

La targa recitava un nome piuttosto particolare, Annabeth Chase. Si sentì più disorientato di quanto non lo fosse quando, poco prima, aveva scoperto il suo, così volse lo sguardo al Tamigi, che scorreva davanti ai suoi occhi con una lentezza esasperante. Per un attimo la corrente accelerò, e Perseus sentì un fremito, come se il suo essere esasperato per la lentezza del fiume lo avesse fatto muovere; di colpo stanco, si sdraiò sul letto, chiuse gli occhi e attese di essere trascinato via dal sonno.


 

So che è una fanfiction brutta, ma sto tipo delirando per la febbre, capitemi çuc
   
 
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