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Autore: Shirokuro    09/01/2015    1 recensioni
{ mary centric | one-shot di 3180 parole circa | angst; introspettivo }
Non sapeva come si calcolava il tempo e forse tra le ombre attorno a lei non importava seriamente, ma pensava che fossero passati almeno vent’anni e nonostante tutto, la sua linfa vitale, l’unica cosa della quale si nutriva, della quale aveva fatto la sua ragione d’esistenza, era quell’affetto radicale, profondo ed innaturale che provava nei confronti di chi l’aveva creata – non era mai nata, esisteva e basta –, aggrappandosi ciecamente alle immagini offuscate nel remoto della sua memoria riflettendole nelle proprie iridi blu e sorridendo alle sensazioni che sperava non sparissero mai anche dopo tanto.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Garry, Ib, Mary, Weiss Guertena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vreau să zbor: învațămă!
   La bellezza del colore che si intravedeva così di rado sulla tela, originariamente bianca ed accecante nel suo innaturale candore impuro e frutto di meccanico artificio, risiedeva nel non essere visto eppure essere indispensabile. La bambina si chiese come sarebbe potuto apparire il dipinto senza le quasi assenti pennellate giallo grano. Avvicinò la mano sporgendo l’indice e lasciando le altre dita alla gravità di quel Mondo, senza toccare il quadro, mimandone solo il gesto. Papà si sarebbe potuto arrabbiare se la pittura fresca si fosse rovinata a causa di Mary. Ritrasse d’istinto l’arto.
   «Papà?»
   Le parve di udire passi. Forse erano solo l’eco delle sue lontane memorie, ma volle comunque controllare. In fondo, nessuno le aveva mai insegnato ad arrendersi all’evidenza – non aveva avuto nessuno che le insegnasse nulla –, di rinunciare alla meraviglia della dolce ed invitante, dolorosa illusione.
   I corridoi grigi dove erano appesi i suoi amici – oggetti dei quali servirsi nei momenti di noia e solitudine – parevano vuoti come sempre, immersi in desolata quotidianità. I capelli biondi danzavano, obbligando singoli fili del Sole ad intricarsi fra loro, rendendoli sempre più intrattabili. Gli occhi oceanici vagarono per la stanza delle Lady, senza trovar altro che busti ben vestiti ed ingioiellati fino a dove era possibile intravederle strisciare come morti in agonia in giro. Quella visione era abitudine, per questo si sbrigò a raggiungere il suo obiettivo senza perdere il calmo sorriso – nessuno le aveva insegnato la premura per i meno fortunati che in quel caso non avevano ricevuto un ritratto che le riprendesse fino alle loro snelle gambe nivee, non aveva avuto nessuno che l’insegnasse nulla del genere.
   «Papà, amavi la mamma?» La voce di Mary, impastata dal sonno la cui causa erano lunghe notti senza chiudere occhio, fece eco tra le mille bambole. Accarezzò le loro testoline di pezza senza degnarle di uno sguardo. La sensazione che riceveva a contatto con quelle era piacevole; erano probabilmente gli unici regali del padre che fossero così delicati, fragili, soffici, che le ricordassero tanto il profumo di Weiss – aveva così sentito si chiamasse, durante una conversazione con se stesso nello studio; purtroppo aveva rimosso il ricordo delle parole che aveva detto per qualche motivo, forse semplicemente non ne necessitava. «Hai sempre detto che voleva bene a Mary, ma non le hai mai detto il suo nome» provò ancora, scegliendo un’altra delle tante bambole e stringendola forte al petto. «Papà, dove sei?
   «Sono giorni che Mary ti aspetta, papà». Sorrise. Gli occhi nascosti dalla penombra della frangia lasciavano intravedere solo un lieve ma evidente luccichio e per un attimo le parole non riuscirono ad uscire e fiorire dalle labbra della bambina. «Mary ti ha promesso che avrebbe fatto la brava!» Alzò il tono, cercando di non tradirsi. Aveva ripetuto il proprio nome tante di quelle volte, realizzò mentre si strofinava il dorso della mano sull’occhio sinistro. Non avrebbe dormito fino all’augurio di buonanotte del genitore. Se lo ricordava quando, tanto tempo prima, le disse che le figlie aspettano i padri anche fino alle ore più tarde per sentirsi dare il bacio di consuetudine o solo per sapere che stavano bene e che anche domani sarebbero tornati per ripetere la serata. Se si fosse addormentata e Weiss fosse tornato allora, scoprendola fra le braccia del Morfeo ora malevolo e tentatore?
   «Pa–Papà!»
   «Mary sarà obbediente, porta Mary con te, per favore! Non lasciarla sola, Mary ha paura... è buio... Mary non sopporta il buio... se non c’è papà non può resistere!» gli aveva gridato dietro. Il costoso vestito scarlatto la intralciò, facendola rovinosamente cadere e dando all’uomo il tempo di saltare nella cornice dell’informità dell’altro Mondo – quello “vero”, aveva insinuato l’artista, ma Mary ignorava il significato di quella parola –, inducendola successivamente a distruggere il regalo, usando il coltello che aveva nascosto nel cassetto quando lo trovò per caso una mattina d’autunno. Se ne fece un altro costringendo determinati quadri a darle il materiale necessario. Tutta la stoffa color passione a pezzetti la usò come coriandoli quando una qualunque Lady – di quelle vestite in blu, giallo, verde, ma mai rosso – asseriva di compiere gli anni e nel giro di tre giorni la finì. Certo che aveva tante amiche.

 
La storia che vi racconto è una storia triste, sapete?
Parla di una bambina, anzi, no, di un quadro gentile ed educato,
inciampato nel dolore e caduto nel baratro della tristezza poco distante.

   La noia era una preziosa amica per Mary. Era l’unica cosa che la spingesse ad abbandonare il suo perenne stato di inanimata contemplazione, l’unica che l’obbligasse a lasciare il buio del suo angoletto ed alzarsi, l’unica che aveva imparato a domare. Eretta, si guardò attorno, ora conscia della desolazione che doveva esserci in quel luogo freddo e cupo – non lo sapeva né lo capiva, lo immaginava, d’altronde era un quadro: era la cosa in cui riusciva meglio e nessuno glielo doveva insegnare. Strinse il proprio quaderno tra le dita e con un cerello color grano, quello che amava tanto disperatamente, stretto tra il medio e l’indice si incamminò verso la propria galleria.
   «Saresti fiero di Mary, papà?» sussurrava mentre i suoi passi decisi e grandi riecheggiavano nei corridoi spogli, odorosi di muffa e di anni passati a piangersi addosso. La vernice sbiadita era fastidiosa secondo la bambina, le ricordava che qualcosa stava marcendo, che nessuno avrebbe più risolto quei problemi banali eppure essenziali. L’aria era viziata, si sentivano il chiuso e la costrizione. Era passato troppo tempo, tanto che quasi non la ricordava più, quell’unica persona che aveva amato ed amava – perché solo questo le era stato realmente insegnato d’importante. Non sapeva come si calcolava il tempo e forse tra le ombre attorno a lei non importava seriamente, ma pensava che fossero passati almeno vent’anni e nonostante tutto, la sua linfa vitale, l’unica cosa della quale si nutriva, della quale aveva fatto la sua ragione d’esistenza, era quell’affetto radicale, profondo ed innaturale che provava nei confronti di chi l’aveva creata – non era mai nata, esisteva e basta –, aggrappandosi ciecamente alle immagini offuscate nel remoto della sua memoria riflettendole nelle proprie iridi blu e sorridendo alle sensazioni che sperava non sparissero mai anche dopo tanto.
   S’abbracciava da sola, stringendo le maniche del vestito e stropicciando le pagine di un quaderno distrutto nel tempo. Sentiva spesso le lacrime sul punto di rigarle il viso, di sciogliere la tempera diafana, ma si ripeteva sottovoce e nel mezzo del nulla «Tornerà, papà ama Mary, lei lo sa, lo sa!» ed alzava il volto verso l’alto, permettendo alle lacrime di percorrere la palpebra e tornare da dove erano venute. Credeva di sentirsi meglio dopo averlo fatto, in genere – nessuno le aveva mai insegnato cos’era il sollievo. Il fresco invadeva gli occhi gonfi e la testa era pesante. Espirò con decisione, quando capì che il rischio di cominciare a piangere era passato e strappò uno dei tanti fogli. Lo osservò prima di avvicinarlo alla finestra di quella casa che pareva più uno scarabocchio; ci volle qualche istante prima che lo assimilasse e quando il foglio scomparve, apparì sulla facciata un rettangolo che evidentemente doveva rappresentare la porta mancante. Probabilmente la lentezza nella quale apparve e come dal bianco quei contorni divennero rossi, sfumando dal rosa all’arancione prima di ciò, ad occhi di altri sarebbe potuto sembrare magico se non onirico e la calma nella quale compiva quel gesto avrebbe perfettamente potuto rendere, sempre all’osservatore silenzioso, la bambina una fata – od una strega. Eppure non provava nulla facendolo. Quell’incantesimo che si realizzava ogni volta per lei non era nulla. Era qualcosa che aveva imparato a considerare come normale.
   Spinse con la mano delicata, per niente consumata nonostante l’ovvia usura ed oramai stinta, quella che si era convinta potesse essere la porta di quella bizzarra abitazione; la si poteva definire uno stupido stereotipo, ma per Mary quella era l’unica idea esistente di casa.

 
Qualcuno che vive senza nessuno con cui confidarsi,
vuole segretamente fuggire da tutto quello che lo rende ricco
e raggiungere quello che si ama indipendentemente dai mezzi.
Anche il nostro quadro, non desiderava altro.

   «Sacrificio?» fece eco la bionda, interrompendo l’uomo.
   «Sacrificio, Mary» confermò Weiss. «Per lasciare questo posto, la tua casa,» specificò «bisogna sacrificare qualcuno. Non deve per forza essere un sacrificio carnale, basta che anche lui voglia uscire da qui. E si può uscire in più persone, indipendentemente dal numero di abbandonati, che invece dovranno restare qui» continuò a spiegare sorridente. Ricordarlo le faceva venire in mente solo una cosa, ma preferiva non pensarci troppo perché avrebbe reso qualcosa di doloroso solo peggiore, l’avrebbe trasformato in una macchinazione crudele che non credeva possibile. Un’idea talmente fredda e triste che sentiva brividi percorrerla ogni volta che l’anticamera del cervello sfiorava il pensiero, prima di bloccarlo ed impedire che venisse elaborato – prima che potesse apprendere la verità.
   Girava per le innumerevoli stanze della galleria d’arte – arte, eh? – come era solita fare. Ormai aveva ripetuto gli stessi percorsi tante volte negli ultimi cinquant’anni che si riusciva a notare il pavimento consumato e se si aguzzava lo sguardo, erano distinguibili le impronte delle piccole scarpette del quadro pallido e sempre più spento. Avrebbe continuato a farlo per sempre se non avesse sentito qualcosa – una sensazione, una stretta al cuore. In qualche modo, dopo decenni, aveva percepito un cambiamento.
   Fermò i propri passi, sorridendo e spalancando gli occhi oceanici. Una scintilla li percorse mentre i denti si facevano sempre più in vista – tutti e ventotto, come volessero essere testimoni di un grande avvenimento. Non sapeva cosa potesse provocarle una simile reazione – nessuno le aveva mai insegnato nulla sul proprio corpo, in realtà –, ma sapeva che era cambiato qualcosa. Rimase immobile per qualche minuto, sperando di avvertire nuovamente quella stessa palpitazione. Aveva ancora qualche brivido che percorrevano la pelle delicata, accrescendone il desiderio. Era stato qualcosa che non percepiva da anni, lo sapeva bene, ma ricordava vivamente quello che era appena accaduto anche se oramai era tutto passato. Sapeva che avrebbe potuto sentirla di nuovo, quella sensazione.
   Seguendo l’istinto, si mosse verso ovest. Prima di incontrare un ostacolo qualsiasi, si imbatté in un fiore. Non si interrogò poi molto sul se raccoglierlo o meno, lo prese e mossa da quella frenetica curiosità se lo portò appresso mentre si dirigeva verso il punto ignoto che stava cercando. Lo rigirava fra le mani, lo osservava sorridente e finalmente le sue iridi erano vive – dopo tanto tempo vedeva una speranza più nitida delle sue fantasie –, canticchiava melodie discostanti che per lei avevano una certa musicalità, anche se non poteva sapere che non era così nel suo la la la si la sol. Con lo sguardo sui petali gialli non notò le spine sullo stelo che, seppur finte, erano lì.

 
Speravate di trovarci altro nel pacco regalo? Anche il dipinto.

   «Insegna a Mary a leggere». Il silenzio si riempì di un semplice ordine, rivolto verso il ragazzo in un momento di pausa. Lui la guardò con la coda nell’occhio con quel sorriso nervoso stampato in faccia. Li aveva di un intenso viola, gli occhi, un colore talmente denso che parevano blu; decise che erano indaco, dato che non sapeva bene in che altro modo definirli e visto che l’unico termine che in quel momento che riprendesse sia il viola che il blu che le veniva in mente allora era quello. Doveva andare bene. Inoltre, se ci pensava bene, il blu dei propri occhi ed il rosso degli occhi di quella bambina così carina, insieme formavano un colore simile a quello degli occhi del diciottenne. Sorrise mentre attendeva la risposta dovutale. Non credeva che avrebbe mai incontrato qualcuno che non fosse il padre né che esistesse qualcun altro all’infuori di loro. La cosa l’aveva resa dannatamente felice, ora che non era più sola. Avevano parlato del lasciare assieme la galleria ed in quel momento non ricordava affatto le parole di Weiss – magari quella volta sarebbe riuscita ad imparare cosa significava “libertà”. Continuava ad osservarli, entusiasta di averli scoperti. «Che giorno è?» aveva domandato, vogliosa dell’indesiderabile – di sapere qualcosa dell’Universo nel quale Weiss si era rifugiato. Garry ed Ib l’avevano guardata perplessi, dopodiché il ragazzo la informò che era il sette Aprile dopo essere mentalmente arrivato alla conclusione che essendo così piccola aveva il diritto di non ricordarselo. Avrebbe voluto far loro un sacco di domande e raccontare ogni storia che aveva sentito dalle opere del padre, ma capì che erano terrorizzati dai suoi amici. «Perché?» aveva chiesto, apprendendo che le creazioni tanto buone con lei avevano tentato d’ucciderli in qualche peculiare modo. Le spiegarono, inoltre, come erano legati a quei fiori chiamati rose che avevano trovato – e che la sua fosse falsa, una volta compresa la sua importanza, lo tenne per sé.
   «Credi ci voglia così poco? Non ci sei mai andata a scuola?» Non voleva apparire scontroso, Garry, lo capiva da come cercasse di distogliere lo sguardo. Mary li aveva studiati attentamente, imparando – almeno in parte – come erano fatti. Il ragazzo era gentile, interessato ai quadri inanimati, un fifone. La bambina invece era apatica, indifferente. Sembravano i colori sbagliati finiti non si sa come su una tavolozza destinata a dipingere qualcosa di semplice, di usuale, ma pieno di sfumature. Loro erano trasparenti invece e nella loro tinta priva di chiari e di scuri erano il necessario per dipingere una tela intera; non si potevano paragonare alle invisibili tinte grano che aveva sempre ammirato e si perse di nuovo nel fissarlo vaga. Era bello, tanto quanto tutto quello che aveva creato Weiss ed era vero come quello che aveva inseguito l’artista – forse quella era la perfezione che nessuno le aveva mai insegnato.
   Per la prima volta da quando aveva iniziato a respirare – quell’aria chiusa nonché l’unica che avesse mai conosciuto – si rese conto che forse il motivo per cui il padre l’aveva lasciata lì era proprio lei, che si muoveva, che parlava, che faceva rumore nonostante fosse solo una proiezione. Nonostante fosse figlia di se stessa. Nonostante fosse solo una copia fatta di tempera e carta. Le sue pupille dilatate e la frangia che le copriva, la bocca in cerca d’aria. «Mary?» Era sempre stato così ovvio, in quelle decadi vissute a tremare e convincersi di essere l’amata genita del caro genitore, che qualcuno l’amava.

 
Il momento in cui un quadro capisce di essere solo quello è il momento in cui un fantasma realizza di essere la propria morte. Ed il nostro dipinto educato e gentile realizza di essere la morte di chi aveva amato.

   Nero.
   Nessuna sfumatura, nessun disegno, nessuna matita, nessun pittore, nessuna sensazione, nessuna impressione. Solo il più pesto dei colori, la tonalità più densa, tenue. Per la bambina era strano, sognare. Si rendeva conto di star sognando, di non essere in grado di controllare le sue azioni e di dover seguire le leggi della sua mente senza opporre resistenza. Era pronta, davvero – aveva imparato a credere in lei.
   Una luce argentea ed impura invase i suoi sensi, circondando quella che doveva essere il suo gracile corpicino oramai spento, la sua pelle chiara ora pallida ed i suoi capelli dorati ora tinti di senape. I suoi occhi prima oceanici, ora cerulei e per niente convincenti, in quell’espressione determinata ma timorosa, consapevole di come si ritroverà ancora ad abbracciarsi percorsa dal freddo di una rassegnazione inevitabile, senza possibilità di combattere ancora – e questa volta non sapeva se sarebbe riuscita a non piangere. 
   Non era cresciuta, aveva imparato.
   Quando finalmente il bagliore sparì, senza disturbare la sua vista in alcun modo nemmeno per un secondo, si trovava nei pressi del Fabricated World. C’era Garry e c’era Ib. Il diciottenne s’era adagiato sulla testa della castana rosso in viso, cercando di nascondere quell’emozione spaventosa riparandosi dietro le proprie braccia conserte sul capo di Ib, che lasciava scorrere una lacrima sorridendo. «Usciremo da qui» sussurrava, rivelando a Mary la sua voce femminile ma profonda e matura nonostante i nove anni, poco abituata a venir usata e che cercava di essere melliflua solo per quell’ammasso di cappelli viola. E poi c’era la bionda, che piangeva senza ritegno osservando una rosa gialla appassita – di carta, lo stelo fatto di morbido tessuto, eppure morente, come fosse mai stata viva. Gli stivali di pelle interamente in vista, in disparte dalla coppia che si consolava e s’infondeva forza. I capelli contro la giacca del ragazzo del quale si era innamorata – lei aveva cento anni, lui solo diciotto e si ridicolizzava da sola, puntandosi il dito addosso, nella sua ingenuità, cresciuta come eterna neonata, credendosi crudele mentre si poteva definire solo infantile. «Lo so» singhiozzava in risposta l’altro. Il quadro non gridava, si limitava ad ascoltare – ad imparare – e nel suo silenzio, si godeva il calore di un affetto non suo e non rivoltole, ma illudendosi che qualcuno potesse mai provare per lei qualcosa di così costretto, naturale e vero.
   Ah, se Garry era un bravo ragazzo. In quel momento, assistendo alla scena di quella patetica e sincera se stessa, si ricordava come le avesse insegnato a scrivere fiore in kanji. Era un simbolo semplice, avrebbe potuto apprenderlo anche un infante. Ma lei ne era felice, aveva finalmente capito come si indicava per iscritto qualcosa di tanto bello e tanto spontaneo. «Comunque, si pronuncia hana» disse, correggendo la sua pessima dizione da ignorante del giapponese. Avrebbe voluto amare cosa amava lui – Ib. Si costrinse a volerle bene, a volerla per sé, ad accrescere il desiderio d’abbandonare il giovane per emulare i suoi sentimenti.
   La bambina continuava a piangere, lacrime sempre più rapide e sempre più dense di evidente realizzazione.
   Mary sarà sempre sola, anche se con lei ci sono queste persone. Mary non è come loro! Sapeva e sentiva quelle parole. Un continuo ripetersi che sbatteva contro le pareti della testa, del cervello, della mente, del cuore, dell’anima. Voleva abbracciarla, voleva esaudire il suo desiderio. Ma non era il momento.
   Mary è solo un sacrificio. Mary è stata abbandonata da papà. Mary non sarà  mai altro che questo per chiunque! Mary non lo sopporta! Mary ora capisce, ma non è giusto! Ed ancora una scossa al suo interno: scomoda verità. Voleva cingerla nelle proprie braccia. Inspirò.
   Mary vi odia! Ora.

 
Non aveva dormito per oltre cinquant’anni, il nostro quadro.

   «Ib! Garry!» gridò. «Insegnate a Mary a sognare, a volare!» e le sue ceneri caddero sul pavimento appena risvegliata da un secondo di solitudine estrema e caduta nella follia di un desiderio irrealizzabile, spinta a chiudere gli occhi dall’afa delle fiamme.

   Una macchia nera, polvere si sarebbe potuto dire, si stendeva sulle piastrelle di cera rossa e delle impronte impresseci. Attorno le si radunarono alcune bambole, manichini privi di teste e quadri tristi come tutti gli oggetti puntati sulla chiazza irregolare. «Tu non sei un sacrificio», «Volevamo solo impedire che tu li incontrassi», «Desideravamo proteggerti!», «Non volevamo che ci lasciassi!» ed altre frasi indecifrabili si sentivano a stento. Nessuno le ascoltava. «Addio, piccola Mary» era l’unica cosa che ognuno dei presenti diceva chiaramente ed in concordanza cogli altri; una frase in cerca di qualcuno che potesse accoglierla come preghiera remota.
   La rosa gialla sparita con la proprietaria, entrambe diverse dalle altre; solitaria rosa canina in un giardino pieno di ortensie.




Non mi sono mai lamentataSoundtrack(s); Setsuna Trip (GUMI), Orange (Rie Kugimiya, Yui Horie, Eri Kitamura). Ci sono. Non so in quale altro modo esprimermi. Ho tantissime cose da dire, centinaia, forse migliaia. Voglio solo essere esaustiva ed ordinata, quindi inizierò spiegando quanto questa one-shot sia importante per me.
In questa storia ho messo tutto il mio impegno. Tutta me stessa. Mi sono raccontata. Ho messo la mia infanzia a pezzi ed i miei sentimenti attuali nei confronti non solo di mio padre, ma anche dei miei amici. Non sto dicendo che tutto quello che ho scritto qui sia mio, sia io, ma che è stata... l'ispirazione, diciamo. Dall'inizio di questo autunno Duemilaquattordici spesso mi sono ritrovata a pensare ad un po' tutta la mia vita, quella che ho vissuto e quella che sto vivendo, alla situazione di continuo disagio e solitudine nella quale mi immergono, a volte volontariamente preferendola a quello a cui non sono abituata. Vediamo come la fan fiction si ricollega a me? 
Analisi personale del mio operato; skippabile
La scena maggiormente rappresentativa è proprio quella all'inizio, dalla quale poi si dirama il resto della one-shot, quando Mary scaccia il sonno perché vuole aspettare il ritorno del padre. Qui mi fermo un attimo a raccontare. L'ho scritta così per il semplice motivo che ricordo, fino ai miei undici anni, il fatto che mio padre tornasse ad ore molto tarde, quasi tutte le sere dopo l'una di notte ed io lo aspettavo e solo quando gli davo la buonanotte me ne andavo a dormire. A volte non dormivo per un paio d'ore dopo il suo arrivo, mettendomi a pensare a dove potess'essere stato e la cosa peggiore è che me ne rendevo conto di dove poteva essersi cacciato in quelle ore dopo il lavoro. Ma nonostante tutto, ero profondamente innamorata di papà, lo adoravo. Ci siamo sempre molto somigliati. Poi iniziò a tornare a casa alle otto, alle nove e ritardava solo quando partiva in Austria od a Udine per lavoro od altro. Poi, nell'estate del Duemilatredici, dopo l'ennesima litigata con mamma, è uscito di casa e non è più tornato. Quella stessa sera andai a dormire presto, senza che nessuno mi dicesse che non sarebbe tornato. L'avevo capito. Ricordandolo ora, sento un groppo in gola, forse ne vado fiera. Quella scena, per quanto insignificante possa sembrare, in realtà è fondamentale. Infatti alla fine il narratore lo dice, che Mary non aveva chiuso mai occhio da allora. A differenza mia, non aveva mai conosciuto il retroscena del genitore né i suoi obiettivi, portandola a credere che per lui esistesse solo lei. Principalmente, comunque, ho pensato di poterlo scrivere per gli occhi di Mary: stanchi. La prima impressione che ho avuto vedendola è stata questa. Esausta.
Il secondo paragrafo credo rappresenti la mia situazione scolastica e sociale. La pressione della situazione familiare che fa in modo che l'unica cosa a smuovermi sia la noia. La porta è lo studio, la casa i miei voti, lo "stereotipo" quello che la gente si aspetta da me e l'abbracciarsi da sola potrebbe essere la mia consapevolezza di non essere all'altezza delle aspettattive riposte. ...mi sto analizzando da sola, se ci penso. Comunque.
Il terzo è la mia speranza. Quella che riponevo nell'inizio delle Medie o che ripongo in quello del Liceo. Non saprei. Ma al tempo stesso, sono consapevole che non sarà tutto rosa e fiorito (le spine, signori). In tutto questo però, mi sfogo sulla musica (LA LA SI LA SOL è infatti l'inizio di Happy Hour di Ligabue suonata col flauto dolce, una delle mie canzoni intramontabili) e le mie passioni. Un po' così. Penso.
Il quarto paragrafo è come grazie a recenti eventi abbia immaginato come sarebbe stato tutto senza la mia nascita. Ovviamente nella storia è tutto elevato alla milionesima potenza, io non sono un quadro.
Il sogno. Ho da dire che quando dico che Mary si è innamorata di Garry non mi riferisco all'amore tra uomo e donna, ma di come cerchi in qualcuno la figura paterna che ha capito di dover dimenticare e di aver scelto Garry come padre. Il resto, semplicemente, è il mio osservare e studiare gli altri, divenendo un mite spettatore e come, alle volte, vorrei intervenire. Poi inizia l'ultima scena, che è come non possa cambiare a causa di agenti esterni (Ib e Garry fan da cattivoni, sssì).
La scena finale è discostante da me, perché ho voluto concentrarmi solamente su Mary, lasciandomi stare. In generale, parti del testo che vengono spiegate nella storia non mi riguardano (come quel "amavi la mamma?" poi chiarito col "figlia di se stessa").
Note sul testo; preferibilmente da leggere
Innanzitutto, il titolo. Molti sanno che sono rumena e dato che ne vado abbastanza orgogliosa, ho voluto scrivere anche il titolo nella mia lingua natia. Essendo il rumeno una lingua piena di regole ed al contempo una lingua molto istintiva, ci ho messo un po' a decidere come scrivere il titolo (inoltre mia madre parla quasi sempre il dialetto del suo paesino (esempio: vino in rumeno è vin, lei dice ghin. Eh). Significa, abbastanza letteralmente, "Voglio volare: insegnami!", il piccolo grido di un dipinto.
Inizialmente volevo scriverla sotto forma di racconto per bambini, narrato da qualcuno di scherzoso ma realista che poi sarebbe dovuto essere Guertena. Ma alla fine, eh, alla fine tutto quello che ne è rimasto sono i pezzettini lì a destra. Lo scopo era un lento riepilogo del viaggio di Mary, ma di quello è rimasto... questo. Però! Rileggendola /almeno quattro volte/ ho notato un certo climax nel tutto. Ovvero. All'inizio è tutto molto, molto lento. Ma andando avanti il ritmo va crescendo, fino alla fine quando vengono descritte solo le azioni dando più un'idea grafica del tutto per poi tornare per un poco lenti e descrivere un post!Ib nel piccolo Mondo di Mary. ...cazzo, sarebbe stato un titolo figo. Ne vado abbastanza orgogliosa.
Tutto si concentra sull'imparare. Il motivo per cui certe persone fanno qualcosa è perché hanno imparato a farlo da qualcun altro o nessuno ha mai insegnato nulla loro e sono entrati in contatto solo con chi la pensava in un determinato modo. Mary non è mai entrato in contatto con nessuno, non si è potuta confrontare e non ha capito l'importanza di certi comportamenti. Io amo profondamente Mary, ho voluto un po' giustificarla, credo.
Ora entriamo un po' nel dettaglio.
"Certo che aveva tante amiche" si riferisce ad "oggetti di cui [...]", per il fatto che in quel momento stava sfogando la sua tristezza su di loro. "[...] per Mary quella era l'unica idea di casa esistente", de n'ovo, perché non conosce il Mondo esterno. Forse era abbastanza chiaro leggendo la fine, ma quando Weiss parla di sacrificio, mente; è sadico, ecco. "seppur finte, erano lì" ...mi andava di citarlo. "in quelle decadi": decadi significa dieci giorni, quindi è un po' per enfatizzare il tempo trascorso. "I capelli contro la giacca del ragazzo del quale si era innamorata – lei aveva cento anni, lui solo diciotto e si ridicolizzava da sola, puntandosi il dito addosso, nella sua ingenuità, cresciuta come eterna neonata, credendosi crudele mentre si poteva definire solo infantile": ripeto, non parlo di amore in senso chessò Romeo/Giulietta (vedi sopra), e quello che viene dopo significa che sarebbe più grande del padre che vuole vedere in Garry. "Insegnate a Mary a sognare, a volare!": insegnate all'angioletto ad essere libera e felice.
Infine: "solitaria rosa canina in un giardino pieno di ortensie". Il mio fiore preferito è la rosa canina che è la rosa spontanea più comune in Italia e nella mia terrazza ne abbiamo solo una che sboccia in primavera e muore dopo poco. Per il resto abbiamo solo ortensie e quattro, cinque calle. Ma un sacco di ortensie. Troppe. Questa frase significa che fuori dal suo piccolo mondo ci potranno essere milioni di bambine come lei, ma nel suo mondo ci sono un sacco di opere tutte simili fra loro e lei è diversa da loro, è speciale.

E nulla. Ho finito. Sono soddisfatta del risultato, mi sono impegnata, me ne sono innamorata direi. Grazie mille per aver letto, anche solo per aver aperto la pagina! Sayonara, chibi!
   
 
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