Con
le braccia conserte sullo stomaco, Molly Hooper guardava gli scatoloni e si
chiedeva se non fosse tutta una pazzia, o peggio, un errore di dimensioni
mastodontiche.
Non
c’era più tempo, pensava intanto, non ci sarebbero state altre occasioni.
Questa era l’ultima licenza di paranoica esitazione, di rimpianto e sfiducia
che era pronta a concedere a se stessa.
Dopo
non ci sarebbe stato più tempo per il dubbio; si sarebbe trattato di vivere
quello che solitamente seguiva, qualunque cosa esso fosse, di prendere le cose così
come sarebbero venute per poi affrontarle di conseguenza.
Il baule dei ricordi
Tredici
scatoloni erano disposti sul pavimento, distribuiti in quattro pile ordinate. Dei
tredici uno soltanto recava la scritta FRAGILE, in pennarello nero e stampato
maiuscolo. Al suo interno, Molly aveva sistemato i pochi articoli di
cristalleria che possedeva, i servizi da tè in porcellana e la lampada da
tavolo in art noveau.
C’era
anche un baule da trasportare, appartenuto al nonno Oliver, riempito degli
oggetti di famiglia. Era il baule consacrato ai ricordi, quello, alla nostalgia
di tutto ciò che lei non aveva mai conosciuto direttamente, ma soltanto per
bocca di altri, tramite le cronache che suo padre le aveva raccontato quand’era
stata poco più alta di un soldo di cacio, uno scricciolo dal sorriso pieno di
riserve e gli occhi perennemente spalancati.
Molly
si piegò ad accarezzare le pelle usurata del baule in punta di dita,
trattandolo con la cautela che avrebbe riservato a una bestiolina spaventata e
abbandonata sul ciglio della strada.
C’era
il vestito da sposa di sua madre, lì dentro; i dischi in vinile di suo padre -
band dai nomi impronunciabili che suonavano canzoni di pura poesia e amare
verità, in un paradosso che le faceva venire la pelle d’oca ogni volta che le
ascoltava; l’occorrente per cucito di sua nonna e la sua collezione
enciclopedica di romanzi rosa; c’era il minuscolo cofanetto di palissandro in
cui custodiva le fedi dei suoi genitori e quello in cui conservava i gioielli
di sua madre; c’era tutta la sua vita, i frammenti della sua adolescenza e
della sua infanzia e della prima giovinezza; c’era Molly, la bambina con gli
occhiali dalle lenti troppo larghe nel resto del viso minuto e poi c’era Molly,
la ragazzina con l’apparecchio per i denti, le scarpe ortopediche e la sua
timidezza trincerante; c’era Molly universitaria, affamata del mondo e di tutto
ciò che esso aveva da offrirle, brutto o bello che fosse e c’era Molly
patologa, che combatteva un sentimento esageratamente complicato per riuscire a
definirlo con proprietà di linguaggio.
C’erano
altre versioni di sé, ancora, perché in fondo ogni persona era se stessa
innumerevoli volte, tante riedizioni quante erano le possibilità di
ricominciare che si era sempre disposti ad accordarsi.
Quante
volte lo aveva fatto, lei? Bruciare gli errori del passato come peccati, ad
ogni passo falso ripromettersi di ricominciare dal principio, tentata di
emarginare quel lato vulnerabile e sensibile che per primo l’aveva indotta allo
sbaglio.
Senza
la sua solitudine, cosa sarebbe stato di lei? Cosa sarebbe diventata?
Sfogliò
le alternative come pagine di un album di fotografie. Sarebbe potuta essere una
ballerina classica o una giornalista, una documentarista, un’insegnante di
scuola materna, un architetto, una flautista.
Era
il passato a renderli chi erano? O erano piuttosto le scelte passate? Era un
discorso che travalicava ogni ragionamento.
Si
guardò intorno e i suoi occhi si soffermarono su tutto e niente, osservarono
ogni dettaglio, senza indugiare a catalogare il sentimento che provava, che le
faceva battere il cuore all’impazzata e divampava come fuoco sotto la pelle,
attraverso i tendini e i nervi.
Era
casa sua, quella. Era stata casa sua per quasi dieci anni; nove anni e otto
mesi, per amor di precisione.
Ricordò
il giorno in cui aveva avuto le chiavi, la sensazione di essere padrona di uno
spazio unicamente suo, la felicità dell’indipendenza, del sapersi autonoma.
Ricordò quello in cui aveva staccato la vecchia carta da parati e quello in cui
aveva cambiato la moquette. Ricordò quando aveva ridipinto le pareti dei suoi
colori preferiti: blu polvere e rosa cipria, giallo crema e una tonalità
lievissima di indaco. Ricordò l’impegno e la cura con cui lo aveva arredato,
pezzo dopo pezzo, setacciando i negozi di antiquariato nel primo finesettimana
di ogni mese per quasi tre anni, facendo restaurare i suoi preferiti: la
credenza cinese in legno ebano, lo sgabello laccato, lo specchio a muro in
stile vittoriano, la lampada Poulsen, il basso tavolino di fronte al divano.
Molly
accarezzò con lo sguardo la scrivania nell’angolo, il paravento, i cuscini, i
tappeti, i quadri, i manifesti e le pitture ad olio appesi, le mensole un tempo
riempite con i libri e i souvenir di viaggi non suoi, regali di amici. (Invece
di affittare un box in cui riporli, aveva deciso di seguire il consiglio
dell’agente immobiliare e di lasciare i mobili. Un appartamento in quella zona,
per di più arredato, aveva buone, se non ottime prospettive di vendita.)
Passò
di camera in camera, sfiorando la ruvida consistenza delle porte e dei battenti.
La
cucina con i pavimenti a quadretti bianchi e rombi neri. Il bagno, a pianta
quadrata, con la vasca in ghisa e le quattro piastrelle stilizzate sopra il
lavabo datato.
Era
un appartamento che le aveva dato, nel corso degli anni, non pochi grattacapi.
Pieno di spifferi e problemi di ogni sorta, dalle tubature troppo vecchie alla
caldaia che lei era stata costretta a cambiare, ai fornelli che funzionavano
ancora con le bombole a gas.
C’era
stato quell’incidente, poi, quello di cui lei e Sherlock non parlavano mai.
Riguardava le finestre del salotto.
L’appartamento
di Molly si trovava all’ultimo piano di un edificio risalente al dopoguerra e senza
ascensore. In origine era stato un’enorme veranda ad uso condominiale.
Apportati i debiti aggiustamenti, era stata trasformata in un’abitazione, ma
rimanevano, a testimoniarne i retroscena, alcune caratteristiche peculiari: i
soffitti pendenti, l’assenza di rifiniture nella struttura e, per l’appunto, le
tipiche finestre basculanti orizzontali che Molly, personalmente, adorava da
sempre.
Su
quelle stesse finestre, ad un certo periodo del suo rapporto con Sherlock,
c’era stato un breve – non indolore – scambio di vedute.
Molly
non lo aveva mai affrontato e Sherlock non lo aveva mai ammesso, l’argomento
insomma non era stato approfondito tra loro, ma quando un pomeriggio,
rincasando dopo un turno di quasi quattordici ore, lei era entrata in salotto,
l’odore vago di vernice e stucco che proveniva dalle finestre le aveva colpito
il naso. Le finestre erano uguali, perfettamente uguali, ma non il chiavistello
che le chiudeva, che ad occhio nudo appariva nuovo, di un nuovo che, però, non
stonava con l’intelaiatura di ferro circostante; e così le lastre di vetro,
assai più spesse e resistenti. Vetro antiproiettile.
Era
stata ad un passo dal panico, prima di ricordarsi della conversazione avuta il
giorno prima con Sherlock, del commento di lui che ne era stato chiusura.
Molly
avrebbe potuto, dovuto arrabbiarsi per
quel sopruso, lo sapeva.
Ciò
nonostante, se l’artefice era Sherlock, la prepotenza di quell’angheria andava
analizzata in un’ottica di tutt’altro genere e Molly doveva darle una chiave di
lettura più profonda.
Quando
Sherlock Holmes ti cambiava gli infissi e rinforzava i punti deboli della
sicurezza del tuo appartamento, aveva ragionato, era il suo modo personale – non per questo meno discutibile - di
dimostrarti la sua preoccupazione e che sì, forse era il caso di iniziare a credere
a quello che ti aveva già detto due volte. Tu
contavi.
Non
sapeva da dove le venisse tutta quell’ansia, all’improvviso, da cosa derivasse
quello smarrimento confuso.
Tom,
Janine, Magnussen erano soltanto nomi di persone andate, sussurri nella notte.
Aveva deciso che non si sarebbe più lasciata frenare dai fantasmi, lo aveva
giurato a se stessa.
Ed
eccolo, il problema. Perché lasciarsi il passato alle spalle, alla fine, risultava
ben più difficile di quanto avesse creduto.
*
Sherlock
la trovò esattamente dove si era aspettato: a gambe incrociate sul tappeto del
salotto, con un vecchio baule aperto alle sue spalle e un’accozzaglia di
oggetti sparsi intorno a lei come soldati sui due fronti di un campo di
battaglia.
“Molly,”
la richiamò piano. Non che fosse necessario, pensò. Lei doveva aver sentito il
rumore della porta, come doveva anche averlo sentito avvicinarsi, dal momento
che non aveva fatto mistero della propria presenza. Lo stesso non si era
voltata ad accoglierlo con uno dei suoi sorrisi più onesti, quelli riservati a
lui soltanto e composti di giochi di luce e quel sentimento
palpabile su cui aveva preferito sorvolare convenientemente per anni.
Sherlock
ne studiò la figura, prendendo atto con una semplice occhiata di due fattori
principali: che lei avesse pianto e che, per qualche ragione, questo non
l’avesse resa giù di corda, ma ne avesse provocato uno stato di irritazione.
Sherlock
si sfilò il Belstaff e lo posò sulle spalle di Molly, in un gesto del tutto
irragionevole (la temperatura nella stanza era tiepida), ma che lei diede
mostra di apprezzare visto che si degnò di sollevare il volto dai libri di
poesia per rivolgergli l’ombra di un sorriso tremulo.
Aveva
gli occhi gonfi di lacrime, constatò subito, le guance chiazzate di rosso e per
forza di ragione lui non avrebbe dovuto trovare nulla di attraente in quello
che stava osservando, ma la logica della bellezza era sempre sfuggita alla sua
comprensione, né seguiva paradigmi schematizzati e oggettivi, o perlomeno non
nel suo caso.
Pertanto
sì, poteva ammettere senza ripercussioni di alcun tipo di trovare Molly Hooper
graziosa e desiderabile, anche se in quel momento aveva un aspetto stravolto e
il naso gocciolante.
Molly
si strinse i bordi del Belstaff al petto con una mano e si passò con discrezione
il dorso dell’altra sulla bocca.
Disgustoso,
ma incoerentemente adorabile.
Sherlock
prese un pezzo di stoffa da una delle mensole e glielo porse con uno schiocco
della lingua. “Prendi.”
Tra
le ciglia, Molly gli rivolse uno sguardo singolare, sconcertato e divertito
allo stesso tempo, ma accettò e si soffiò il naso un paio di volte. “Grazie,”
disse con voce nasale, “anche se non credo che fosse lo scopo a cui Carol mirava
quando mi ha regalato questo foulard.”
“Dettagli.”
Molly
strinse le labbra nel movimento caratteristico di quando tratteneva una risata
o un sorriso. Un’applicazione vana. Lui poteva vedere l’eco di quel sorriso
espandersi negli occhi scuri di lei, ingentilirli fino all’inimmaginabile.
“Sherlock,
sai cos’è un foulard, vero?”
Lui
trovò più prudente mascherare la sua ignoranza e roteò gli occhi enfaticamente.
“Inconcepibile,”
ripose lei, usando lo stesso tono di John quando smascherava i suoi bluff.
Similmente a John, però, anche utilizzati da lei quelle parole e quel tono non
gli risultavano sgradevoli. Ai suoi occhi, di fatto, Molly Hooper aveva smesso
di suonare seccante da molto tempo e in misura maggiore di quanto gli fosse
piaciuto accettare in prima battuta. (Una parte di lui non l’aveva mai ritenuta una seccatura, non seriamente.
Da sempre, ben prima che ne diventasse cosciente, Molly era stata la voce che
trovava parole ai suoi pensieri quando neppure lui sapeva di averli.)
Molly
non sembrava intenzionata ad alzarsi dal pavimento e così lui si piegò sulle
gambe e sbirciò la causa di quell’umore uggioso. Tutto quello che vide furono cianfrusaglie
varie prive di alcun valore, se non quello specificatamente sentimentale che
aveva spinto Molly a conservarle.
Gli
piaceva pensare di conoscerla abbastanza bene da anticiparne le reazioni e
riuscire a comprendere le riflessioni che le turbinavano negli occhi senza la
didascalia cicalante dei suoi chiarimenti.
Non
si trattava di semplice malumore, né di un’arrabbiatura causata sul posto di
lavoro dall’incompetenza degenerativa dei suoi cosiddetti colleghi. Per
esclusione doveva dunque ipotizzare che la causa riguardasse lui.
Di
nuovo, Sherlock rivolse lo sguardo alla confusione che li circondava,
riconoscendola finalmente per quello che era davvero: memorie e testimonianze
della vita di Molly fino a quel momento.
Ovvio,
considerò. Doveva essere quella, la ragione. Non poteva essere altrimenti.
“Al
modo in cui amo Baker Street,” disse, “amo questo appartamento, proprio come
te.”
Molly si era girata a guardarlo, facendo tanto d’occhi e Sherlock arcuò un
angolo di bocca verso l’alto, prima di prendere a fissare la griglia di
protezione posta davanti alla bocca del camino. Un ricordo gradevole gli
sovvenne, uno che non si era dato pena di cancellare.
“Qui è dove ti ho baciata
la prima volta.”
Molly
non sorrise, ma i suoi occhi tradirono quello che provava. Era qualcosa di
sciocco da pensare, ma nella penombra della stanza il suo sguardo assumeva una
sfumatura carica, degna dell’acqua regia. (Era accettabile. L’acqua regia, l’unico
composto in grado di distruggere il re dei metalli, altrimenti inattaccabile. Soltanto
un altro chimico avrebbe intuito l’esatta portata della metafora o forse lei,
se gliela avesse detta usando il giusto tono di voce.)
Il
profilo di Molly si ammorbidì al ricordo condiviso.
“È uno dei pochi bei
ricordi che ho, di quel periodo.” Una pausa. Chiuse e
riaprì gli occhi, come se la luce fosse diventata
all’improvviso troppo forte. “Ero terrorizzata,”
mormorò.
“Apparivi
calma ed efficiente.”
Lei
scosse la testa brevemente, arricciò le labbra prima di parlare. “Quello che mi
spaventava era l’idea che, una volta partito, tu non saresti tornato. Avevo fiducia
in te, nelle tue capacità, sempre avuta e sempre ne avrò, ma sembrava tutto
così simile a tre anni fa.”
Sherlock
le prese la mano e gliela strinse, in silenzio. Non le disse quanto la sua
paura era stata vicina alla realtà, quanto il loro addio era apparso definitivo,
almeno per lui. Soltanto la prospettiva della morte lo aveva convinto a
baciarla. Egoista, non pensando a quello che sarebbe stato di lei quando non
sarebbe tornato, l’aveva baciata ancora e ancora. Se Molly aveva intuito
qualcosa, allora, non aveva fatto parola dei suoi timori e l’aveva stretto
soltanto con appena più forza del necessario, tremando un poco. Non gli aveva chiesto di
tornare perché lei lo sapeva, capiva che se fosse dipeso da lui, avrebbe fatto
a pezzi il mondo pur di tornare a casa.
Provare
emozioni era arbitrario e irrazionale, non conosceva altre ragioni se non
quelle del cuore. Sherlock lo aveva sempre saputo con cognizione di causa; la
differenza, rispetto al passato, stava nel fatto che ora lo sapesse per averlo imparato a
proprie spese.
“Non
importa cosa io faccia,” proseguì Molly, “o cosa dica. Rimango una sciocca
emotiva e non volevo diventare quel tipo di persona che davanti alla perdita e al
dolore si aggrappa all’unica cosa che le è rimasta.” Lei incrociò i suoi occhi
e Sherlock scorse la paura e lo sgomento che le avevano dilatato le pupille. Nonostante
quello, la voce di Molly rimaneva salda, il suo viso pallidissimo. “Non volevo che
il ricordo di te fosse l’unica cosa da conservare.”
Sherlock
intraprese la linea di azione che gli sembrava ragionevole. Avvicinò il
volto al suo e la baciò. Molly gli posò le mani ai lati del collo e rispose con
identica urgenza.
“Se
il problema è il trasferimento –” lui prese a dire tra un bacio e l’altro. Lei lo
interruppe con un “no” energico.
I
baci si fecero abbastanza insistenti e i vestiti divennero un intralcio quanto
mai fastidioso, tanto che entrambi decisero di spostare il tutto alla camera da
letto.
*
“Non
sei costretta a darlo via.”
Aveva
creduto che dormisse. Ovviamente si era sbagliata.
Sherlock
era di fronte alla porta della cucina, con i capelli sparsi alla rinfusa sulla
fronte e a ricadergli sugli occhi. A Molly prudevano la dita per il desiderio
di scostarglieli.
“Non
sei costretta a darlo via,” ripeté una seconda volta, evidentemente assumendo
che non lo avesse sentito e che per questo non gli avesse risposto. Non era
così.
La
proposta di trasferirsi a Baker Street non aveva mai previsto, agli occhi di
lui, la derivante messa in vendita del suo appartamento.
Quando
lei aveva accettato, invece, l’aveva subito messa in cantiere come unica
opzione coerente. Molly non aveva intenzione di vivere a Baker Street senza
contribuire alle spese e mantenere due appartamenti, anche se le spese di uno
erano dimezzate, non le era parso consigliabile, oltre che fattibile.
“Contribuirò
alle spese, Molly.”
Lo
guardò, stupita. “Perché dovresti? Non devi farlo.”
“Perché
non dovrei farlo?” ribatté lui per tutta risposta. “Questo rimane uno dei miei
nascondigli, d’altronde.”
“Un
nascondiglio?” domandò Molly, scettica.
“Non
uno dei miei migliori dal momento che la nostra relazione è ormai di dominio
pubblico,” ammise lui.
“Allora
perché –”
“Perché voglio,” la interruppe, annoiato.
“Ti sembra una risposta soddisfacente, Molly?”
Non
lo era neppure remotamente, ma Molly sapeva leggere i silenzi di Sherlock, le
parole che lui sceglieva di non pronunciare dietro quelle di facciata che
articolava affettatamente.
Non
era solo per lei, sembrava sincero.
Con
la gola stretta e la voce pericolosamente incrinata dalla commozione, ripose: “D’accordo.”
N/A:
Non so se ha molto senso. Probabilmente dovrei inserire tra le nomenclature
quella di ‘nonsense’, su questo mi rimetto al vostro giudizio e ai vostri
consigli.
Ambientata
qualche mese dopo la fine della terza stagione, Molly e Sherlock iniziano
una relazione (nella mia testa bacata c’è questo missing moment nel terzo
episodio, sempre della terza stagione, in cui Sherlock ha il permesso di
incontrare Molly per salutarla e di cui vorrei scrivere, in futuro. Come nel caso dei Watson, però, non le racconta
nulla sul reale finale che lo attende in missione. Molly, perspicace, capisce ugualmente che c'è qualcosa che non va)
Sperando
come sempre di non avervi annoiati e che la lettura sia stata almeno godibile
(Sherlock è pericolosamente teso all’OOC, temo), vi lascio con un abbraccio
forte :)