The scientist
Science and progress
Did not speak as loud as my heart
Tell me you love me
Come back and haunt me
Se vivesse
ancora in New Messico, sua madre lo chiamerebbe patetico e poi gli picchierebbe
la testa con la sua borsetta. Gli farebbe una paternale sull’infrangere i cuori
delle giovani ragazze e sulla sua fobia per le responsabilità, sulla sua vuota
scemenza dell’essere scapolo. Si lamenterebbe che le sue sorelle sono già
sposate e hanno dei figli, e sarebbe troppo chiedere di avere finalmente dei
nipoti con il nome Bolton alla fine? Ispezionerebbe il perlopiù inutile
frigorifero nel suo appartamento e si dispererebbe alla mancanza di cibo da
‘relazione’: carne, vino, uova, e formaggio.
“Non puoi
vivere di birra per il resto della tua vita.” la immaginava dire, in quel modo
che le madri hanno “Devi andare avanti. Cresci.”
Non parla
più della birra ormai. È così dolorosamente ovvio di cosa sta parlando ora, e
lui pensa che lei si incavolerebbe se sapesse che sua madre la compara ai sei
pacchetti nel suo frigo, ma sua mamma non era mai stata una per l’astuzia.
Lui non
vive più in New Messico. Vive in uno Stato più impegnato in una città più
impegnata con persone più impegnate, che hanno i loro problemi. È stranamente
confortante, lui pensa, che le vite delle altre persone siano altrettanto una
merda come la sua.
La donna,
Sarah, di fronte a lui è ben vestita, sofisticata, trapelante del semplice
fascino della East Coast. Le sue labbra si increspano
mentre legge attentamente la lista dei vini: “Bordeaux?” suggerisce.
“Certo,”
lui sorride, fingendo che gli importi. L’invito a cena era un’idea di sua
madre, che lo minacciava di disconoscerlo se non le avesse fornito uno steccato
bianco, da due a cinque bambini e un cane di nome Spot. Lei ha buone
intenzioni, ma lui non può fare a meno di desiderare che rimanga nella bolla
del suo piccolo club del libro ad Albuquerque. Lei ha previsto un mondo di
felicità per lui e lui in davvero non ha il cuore di dirle, lui vuole essere
maledettamente miserabile.
Lui non
può smettere di pensare a qualcun altro, e il pensiero gli fa rivoltare lo
stomaco. Donne, innumerevoli donne, si appiccicano a lui come lucciole ad una
luce e lui vuole poter offrire loro un futuro. Ma non può. Non con lei andata. Non può vivere senza di lei.
Esistere, sicuro. Ma, non vivere. Perché questo è tutto. Un lavoro dalle nove
alle cinque, un appartamento vuoto, il fissare il fondo di una bottiglia di
tequila i venerdì sera. Un’esistenza. Duramente una vita, dalla misura di
qualcuno.
Sarah
ordina una bistecca, ben cotta. Lui caccia indietro il bisogno di fare una
battuta, ed ordina un’aragosta, benchè non abbia avuto appetito per otto anni.
Si chiede
come sarebbe se lei fosse ancora qui, con lui. Se starebbero insieme e fossero
felici. Se tornerebbe a casa da un letto caldo, foto sulle pareti e un
soffocato singhiozzo dalla camera da letto perché lei ancora una volta avrebbe
ignorato il suo opportuno avviso e si sarebbe seduta a guardare Titanic. Si chiede se non siano mai
stati destinati a stare insieme. O forse lo erano, ma solo per un breve
momento, e poi il tempo è andato avanti, il mondo ha continuato a girare e
quello è passato. Forse, un giorno lungo il cammino, loro si sarebbero ridotti
per sempre ad appuntamenti segreti quando i loro bambini sarebbero andati alla
stessa scuola elementare, o weekend insieme dietro la schiena di chiunque
sarebbe stato abbastanza stupido da sposare uno di loro.
Il loro
cibo arriva e lui guarda Sarah che mastica metodicamente la sua bistecca. Lui
spinge la sua cena attorno al piatto, irritato con se stesso per aver ordinato
una maledetta aragosta. Non è che non possa permettersela. Sarah non sembra
notare il suo essere di merda, e se lo fa, è un’esperta nel nasconderlo. Parla
di cose che importano come la salute, la crisi globale finanziaria, la guerra
in Iraq e il nuovo ristorante giapponese aperto a Tribeca.
Lui ascolta educatamente e provvede moderatamente a stimolare la conversazione.
Se lei potesse vederlo ora, riderebbe. Forse si soffocherebbe un po’ con la sua
insalata greca e il pollo grigliato. Certamente non
la bistecca.
Quando
arrivano i dessert, lui dice al cameriere di mettere la sua aragosta in un
contenitore. Sarah non dice niente e invece gli chiede se vuole un dessert.
“Non
proprio,” si tocca lo stomaco vuoto “Sono pieno per la cena.”
Lui non
perde il guizzo dei suoi occhi mentre il cameriere mette la sua aragosta intera
e intonsa in un sacchettino: “Tua mamma…” inizia, e lui chiude i suoi occhi per
un momento.
“Due ore,”
sospira “Abbiamo passato quasi due ore senza menzionare mia mamma. Ti ha
chiesto per favore di sposarmi, vero?”
Sarah ride
nel suo bicchiere di vino: “Potrebbe averlo menzionato,” ammette “Stavo solo
chiedendo se hai il suo numero perché sto pensando di trasferirmi ad
Albuquerque e avevo bisogno di un parere sui beni immobili là.”
“Oh,
giusto,” cerca nella sua tasca e le tende il suo cellulare “Ehm, è la chiamata
veloce quattro.”
Sarah gli
sorride velocemente e lui prende il bicchiere di vino. Non gli importa molto
del vino, ma ha bisogno del più alto livello di alcol nel sangue se deve
sostenere una conversazione con sua madre, cosa che accadrà inevitabilmente.
Abbastanza
sicura, Sarah scosta il BlackBerry dal suo orecchio
imbarazzata e gli allunga il telefono: “Sembra arrabbiata,” si morde il labbro
per scusarsi “Scusa.”
Lui
abbassa il vino e avvicina il telefono all’orecchio.
“Quattro?” sibila sua madre attraverso
trentatre stati “Sono la chiamata veloce quattro?”
Lancia
un’occhiata fulminante attraverso il tavolo a Sarah che sta fingendo di essere
interessata ai brutti dipinti del ristorante.
“Ciao,
mamma.”
“Sono tua madre, giovanotto!” borbotta “Ora puoi
anche non vivere a casa e puoi non parlarmi più di tutto…”
“Più? Vuoi
dire mai. Non ti parlo mai di niente!”
“…ma sono
ancora tua madre. Non dirmi di stare
calma, Jack! Mi ha messo sul quattro!
Quattro! Sono tua madre e sono un quattro? Un travaglio di quindici ore e
sono un quattro?”
Lui fa un
respiro profondo e prende la bottiglia di vino, stappandola con i denti e
prendendo una lunga sorsata. Durerà un bel po’.
“Chi è il
tre?” domanda improvvisamente lei “Vorrei davvero sapere chi è più importante
della donna che ti ha dato la vita.”
“Uhm,”
prende tempo, sapendo che non le piacerà la risposta “Il ristorante cinese take
away sotto casa?”
C’è un
lungo silenzio.
“Quindici ore di travaglio!” strilla a pieni polmoni e lui
allontana il telefono dall’orecchio “Quindici
ore! Mi ha quasi rotto la vagina e sono ancora piazzata sotto un
contenitore di riso fritto?”
“Il
miglior riso fritto nell’area di tre Stati, mamma.”
“Chi è il
due, Troy? E se rispondi la pizzeria, ti farò volare qui per il Ringraziamento
e mi aiuterai a farcire il tacchino.”
“Il mio
capo.”
C’è una
lunga pausa, come se la matriarca dei Bolton stia
considerando se il suo unico figlio possa essere perdonato per mettere la
carriera sopra sua madre. Infine, lascia andare un lungo sospiro: “E chi è
l’uno?”
Lui può
quasi sentire la cena che non ha mangiato risalirgli in gola: “Nessuno.” risponde.
“Bruciava
quando facevo pipì per nove mesi, giovanotto. Tu me lo dirai.”
“Mamma.”
“Incredibile.
Quattro.”
“Mamma.”
“Jack, tuo
figlio è un asino.”
“Mamma.”
“Dimmelo,
Troy!”
Lui non
dice niente. Guarda in basso, le sue scarpe, il telefono ancora attaccato
all’orecchio, sentendosi di nuovo un diciottenne, seduto sul pavimento del
bagno, che piange sulla spalla della madre. Non sente niente tranne che
staticità all’altro capo, e sa che lei ha capito. Sa che sta per dire qualcosa,
qualcosa imbevuto di pietà: “Mamma, no.”
“Oh,
Troy.” sospira lei.
“No.”
“Troy.”
Sarah sta
girando le pagine di una rivista, ma lui sa che sta ascoltando. Si gira sulla
sua sedia, cercando di parlare attraverso la gola infiammata. La sua voce esce
bassa e gutturale, come se stia per vomitare sul pavimento: “Solo non sono…
pronto. Non sono ancora pronto, okay?”
“Sarai mai
pronto?” lei chiede, nel modo in cui le madri chiedono “Sarai mai pronto,
Troy?”
Lui cerca
di pensare ad una risposta soddisfacente: “Devo andare ora, mamma.” risponde
infine.
“Troy.”
“Ci
vediamo per il Ringraziamento.”
“Tr…”
Lui
termina la chiamata.
Sarah
chiude la rivista, sorridendo come un albero di Natale, come se davvero abbia
appena letto i 365 oggetti da non perdere per l’inverno: “Va tutto bene?”
domanda.
Lui alza
lo sguardo. Ed annuisce: “Sì. Solo… le mamme, lo sai.”
Quando
l’appuntamento finisce, accompagna Sarah a casa. Rimangono fuori, tremando
nella notte stranamente fredda. La bacia educatamente sulla guancia e le dice
che dovrebbero farlo di nuovo qualche volta, anche se sa che questa è l’ultima
volta che la vedrà. Lei gli dice che ha passato una bella serata e che lo
chiamerà. Lui dice okay, scrive una sequenza di numeri a casaccio sul palmo
della sua mano e finge che lei sia l’unica, la chiamata veloce uno.
Ma lei non
lo è, e nessuno lo sarà mai.
E lui si
sente davvero dispiaciuto per la povera ragazza che sarà abbastanza stupido da
sposarlo.
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Se vivesse
ancora in New Messico, andrebbe a visitare la tomba di Gabriella Montez.
Andrebbe
là con dei gigli bianchi ogni notte e si stenderebbe sulla zolla d’erba di
fianco alla sua pietra tombale e guarderebbe le stelle. Le parlerebbe come
erano soliti, con la speranza nelle loro vene, come se fossero ancora al liceo
con scintillanti visioni del futuro. Essendo i padroni dei loro destini.
La vita
non è accaduta esattamente come avevano progettato.
Lui non
vive più in New Messico. Vive in uno Stato più impegnato in una città più
impegnata con persone più impegnate, che hanno i loro problemi. È stranamente
confortante, lui pensa, che le vite delle altre persone siano altrettanto una
merda come la sua.
Quindi
invece, è seduto a casa. La TV lampeggia sullo sfondo. È seduto, una birra in
una mano, il cellulare nell’altra.
Preme i
tasti sul telefono lentamente, deliberatamente. Infine, la schermata che vuole
compare.
Cancellare chiamata veloce uno?
Il suo
pollice indugia sul tasto ‘sì’.
Sono
passati otto anni. È tempo di lasciare andare.
È pronto.
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“Mamma?
Ciao, sono io. Grazie per le quindici ore di travaglio… lo apprezzo. Ti sto… ti
sto chiamando con la chiamata veloce. Chiamata veloce uno.”
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this hard
Oh, take me back to the start
Fine
Eeeh
lo so, solo cose tristi in questi giorni XD Ma che ci volete fare, va così XD
Spero
che vi sia piaciuta, a me almeno ha colpito molto X3
La
canzone usata è, appunto, The scientist dei Coldplay.
Ringrazio
anche chi ha commentato Falling into you:
Angels4ever, Titty90, Angel_R, lovely_fairy, KissMe e Tay_.
Prometto
che la prossima sarà molto più allegra!
Un
bacione a tutte,
Hypnotic Poison