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Autore: Chupacabra19    16/01/2015    1 recensioni
Le meduse sono animali che tutti scansano, perché di loro ci ricordiamo solo il dolore che ci lasciano. Ma se sappiamo guardarle, sono bellissime. Sono eleganti, quasi eteree. Non nuotano, ma si lasciano trasportare passivamente dalle correnti marine. Lei era esattamente come loro. Nessuno sapeva guardarla per quello che era davvero, tutti la scansavano per le sue risposte secche e i suoi silenzi che gridavano aiuto. Perciò viveva come loro, lasciandosi trasportare passivamente dal susseguirsi delle giornate.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 1

 

Le meduse sono animali che tutti scansano, perché di loro ci ricordiamo solo il dolore che ci lasciano. Ma se sappiamo guardarle, sono bellissime. Sono eleganti, quasi eteree. Non nuotano, ma si lasciano trasportare passivamente dalle correnti marine. Lei era esattamente come loro. Nessuno sapeva guardarla per quello che era davvero, tutti la scansavano per le sue risposte secche e i suoi silenzi che gridavano aiuto. Perciò viveva come loro, lasciandosi trasportare passivamente dal susseguirsi delle giornate. Giornate prive di sole, ma ricche di pioggia. Quella fu l’estate più fredda e grigia mai vista, niente ricordava di essere ad Agosto. Passeggiando si potevano già notare i vestiti pesanti, le felpe e i jeans avevano preso il posto degli shorts e dei top floreali, tanto in voga in quel momento. Il tempo lasciava a desiderare, costringendo spesso gli adolescenti a restare nelle loro abitazioni, con le cuffie alle orecchie, una tè caldo sul comodino e il cellulare in mano. Non che solitamente non fossero incollati a quello schermo, ma queste situazioni spingevano ancor di più verso questo comportamento. Oramai sarebbe impossibile vedere un ragazzo privo di smartphone. Così come la gente comune, la cosiddetta ‘massa’, anche Leah se ne stava in camera sua, sdraiata a letto, ma invece di messaggiare, preferiva osservare le piccole gocce di pioggia scontrarsi contro la finestra. Aveva spento l’ Ipod, decidendo di udire solo quel leggero ticchettio. I suoi occhi felini seguivano il percorso di quelle gocce, destinate a scivolare sul liscio vetro. Ogni tanto, qualche lampo illuminava la stanza, e i tuoni spezzavano la quiete che si era formata. Leah restava impassibile a quei rumori tanto assordanti, ma non si poteva dire la stessa cosa per Moka, il suo fedele compagno. Moka era un gatto, comune d’aspetto, ma non per comportamento. Il suo manto folto e grigio, presentava alcune striature più scure, mentre le zampe e il contorno occhi erano di un bianco immacolato. L’iride, color ghiaccio, era puntata nella direzione della padrona. Con le orecchie abbassate e la coda accotonata, Moka  tremava ad ogni tuono. All’improvviso, balzò sul ventre della ragazza, mordendole il mento.

-Ahia Moka!- disse ridendo – Scusa se non ti ho considerato.

Il gatto allora si appallottolò, sentendosi al sicuro, ed iniziò a far le fusa. Entrambi si appisolarono.

-Leah! Cosa ci fai a letto?

L’urlo la fece riemergere dal mondo dei sogni. Moka inclinò la testa.

-Dovevi andare a comprarti un vestito, domani dobbiamo andare al matrimonio di tuo cugino. Sei la solita pigrona, alzati su!

La madre corse alla finestra e la spalancò, permettendo a dei luminosi raggi di invadere la camera.

Le nuvole grigie erano state sostituite da uno splendido arcobaleno. L’aria era ancora fresca, ma almeno il pomeriggio era più gradevole.

-Sono già le cinque, quindi muoviti. Ti ho lasciato i soldi sul tavolo, io devo uscire.

Così se ne uscì, corse per le scale e sbatté forte la porta. Leah sospirò, pensando a sua madre come un piccolo uragano, capace di distruggere la quiete. Sbadigliando, scese dal letto e si cambiò. Indecisa fra un maglioncino color crema ed uno blu notte, optò però una felpa grigia. Prese il primo paio di jeans ed infilò ai piedi le sue nere converse basse, abbozzando un fiocco. Una folata di vento gelido la investì, ricordandole di aver fatto la cosa giusta ad indossare quella felpa pesante. Gettò le chiavi nel suo zainetto di pelle e si incamminò, cercando di evitare le pozzanghere sull’asfalto. Al suo fianco, Moka zampettava allegro, fissando una farfalla che svolazzava sulla siepe del vicino. Le sue ali blu cobalto brillavano al contatto dei raggi solari, rendendola forse più splendete di quanto fosse in realtà. Leah amava quel colore, era il suo preferito. Di certo nessuno lo avrebbe immaginato o potuto indovinare, dato che spesso vestiva di nero, nonostante avesse nel guardaroba altri abiti colorati, tenui ma comunque colorati. Data la sua timidezza, morbosamente legata a pungenti paranoie, non sapendo come tenere le mani per simulare una naturale e disinvolta camminata, le infilò in tasca, sfuggendo al problema. Come detto precedentemente, Moka non era il tipico gatto. Certo, aveva tutti gli atteggiamenti felini per eccellenza, come il poltrire per ore, inseguire qualsiasi cosa che si muovesse, sdraiarsi sui fogli di carta, infilarsi in spazi stretti, dormire nelle scatole, preferire le scatolette ai croccantini, avere il ruzzo, ricercare attenzioni ecc., ma sapeva comunque distinguersi. Per essere precisi, Moka era stato trovato da Leah, nel parco della città, tutto sporco e ferito. Aveva cinque mesi, fu curato e coccolato per un mesetto, ed alla fine i genitori si affezionarono, cedendo alla figlia. Moka divenne a tutti gli effetti parte della famiglia. Fin da subito, però, mostrò di avere una particolare simpatia per Leah, seguendola ovunque andasse, perfino in bagno. All’inizio era imbarazzante, lei sedeva sulla tavoletta e lui saliva sull’angolo della vasca da bagno, aspettando che Leah finisse, fissandola, ma col tempo si era abituata, o meglio, rassegnata alla sua ossessione. Oramai non ci faceva più caso, anzi, le piaceva avere quella palla di pelo sempre accanto, quel musetto dolce, quegli occhi furbi, non la facevano sentire sola. In principio, doveva essere un gatto d’appartamento, non volevano che uscisse per strada, temevano potesse accadere il peggio, ma quando un giorno Moka riuscì a scappare, stupì tutti. Leah si trovò il gatto davanti al cancello di scuola e decise di non prendere il pullman, ma di tornare a piedi. Moka la seguì per tutto il tragitto, stando al suo passo, senza distrarsi o correre dietro ai passerotti. Sembrava un cane e non aveva nemmeno bisogno di un guinzaglio. Da quel giorno, Leah provò ad andare in centro, al parco, in biblioteca sempre con quel micio a fianco e lui era felice delle loro passeggiate, spesso infatti era possibile sentire le sue rumorose fusa. Nei negozi in cui non accettavano animali, Moka aspettava fuori dalla porta. In paese ormai era conosciuto da tutti, dallo stupore iniziale si era passati alla totale indifferenza. Nessuno chiedeva se fosse stato addestrato, si limitavano ad accarezzarlo o a salutarlo, finalmente. Leah odiava le troppe attenzioni, ora invece poteva uscire tranquilla. Giunti al negozio di abiti eleganti, Moka si fermò alla soglia e lei entrò.

-Leah! Ti stavo aspettando, tua madre mi aveva detto che saresti passata.

La proprietaria spalancò le labbra pesanti di rossetto, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. Un sorriso abbagliante.

-Salve Marisol, scusa il ritardo.

In realtà avrebbe voluto essere in qualsiasi altro luogo. Odiava apparire, vestirsi con classe, indossare tacchi alti, truccarsi troppo ecc., Leah era una di quelle ragazze semplici, che al massimo si mettono un velo di eyeliner e mascara. Non sopportava impiastricciarsi il viso con fondotinta, terra e correttori. Era una di quelle ragazze silenziose, che al massimo abbozzano un sorriso e diventano subito rosse. Era fatta così, impacciata e non aggraziata, introversa e non estroversa, pacata e non euforica, topo di biblioteca e non festaiola. Insomma, era una di quelle ragazze che si ignorano.

-Non preoccuparti tesoro, ho già preparato qualche vestito che dovrebbe piacerti – disse mentre afferrava la mano della ragazza – tua mamma mi ha detto che ti piace il verde!

Sbuffò. Non conosceva proprio niente di sua figlia.

-Ehm veramente lo odio.

Detto ciò, Marisol si bloccò, l’afferrò per spalle e disse – Diamine, stai scherzando? Si intonerebbe benissimo con i tuo occhi grigio verdi.

-Sì, ma..-

-Uff, capito. Certo che sei testarda!

E scoppiò in una fragorosa risata. La strattonò fino ai camerini, dove la fece sedere su una poltroncina rossa e le mostrò i vari abiti selezionati. Mentre quella donna blaterava sul taglio e la stoffa dei vestiti, Leah si perse nei bellissimi ricci biondi di una ragazza, attenta a guardarsi allo specchio. Aveva un fisico perfetto, un fisico che invidiava.

-Allora, quale provi per primo?

L’attenzione tornò su Marisol, sui suoi grandi occhi nocciola, contornati da una matita azzurra.

-Il più semplice possibile.

-Ma Leah, devi essere bella domani. Magari fai qualche incontro interessante, no?

Disse ammiccando.

-Esco già con un ragazzo.

-D’accordo, hai vinto tu. Scegli quello che vuoi.

Si arrese, alzando le spalle. Leah le sorrise, pensando di essere davvero difficile a volte. Si guardò un po’ intorno, senza nemmeno alzarsi, e ne indicò uno.

-Che te ne pare di quello?

-Ma è un banalissimo tubino blu.

Restarono entrambe in silenzio, a fissare quell’abito appeso alla gruccia. Nel frattempo Moka balzò sulla finestra dell’edificio e miagolò.

-Capito, non facciamolo aspettare troppo. Vado a prenderti quel tubino.

Leah si alzò soddisfatta e fece l’occhiolino a quella splendida palla di pelo, ringraziandolo.

Nel camerino, si scrutò attentamente. Ovviamente, non si piaceva. Le gambe erano troppo grosse, il sedere troppo largo, le spalle troppo spigolose, il seno troppo piccolo, il viso troppo banale. In realtà, Leah non aveva niente da invidiare alle altre ragazze. Lei era giusta, aveva le gambe magre, un sedere normalissimo, le spalle morbide, il seno a mela e un viso delicato. Il suo fisico non aveva niente di sbagliato, era proporzionata e in forma. Certamente, non era ciò che desiderava. Avrebbe voluto un fisico da urlo, un volto fantastico. Voleva semplicemente essere bella e perfetta, secondo i canoni della moda. Un desiderio innocente, un desiderio comune. Lei era una ragazza standard, normale, tipica. Non le mancava niente, ma non era nemmeno speciale. Intanto, giocava con i capelli neri pece, cercando un’acconciatura adatta. Non le piaceva mostrare troppo il volto, ma con quell’abito andavano sicuramente raccolti. Lisci come seta, scendevano sulla sua schiena, facendo contrasto con la sua candida pelle. Si morse il labbro inferiore e si asciugò una lacrima. Era fragile, le bastava poco per cadere. Cadere nelle  sue fissazioni, nei suoi pensieri, nei suoi timori. Solitamente, non lottava, non cercava di fuggire alla tempesta che aveva dentro, ma tentava solo di restare a galla. Ogni tanto, però, annegava.

-Fatti vedere dai!- Incalzò Marisol.

Leah, finse un sorriso ed aprì le porte del camerino.

-Stai una favola, tua madre sarà contenta.. anche se aveva in mente altro.

Arrossì.

-Beh, grazie.

Trovati poi i tacchi adatti, quattordici centimetri, pagò e tornò dal suo micio. Una goccia d’acqua le cadde sulla guancia sinistra. Uhm, credo inizierà a piovere di nuovo, pensò. Moka si strusciò fra le gambe e si incamminò verso casa. Leah si strinse nella felpa e lo seguì. Gli alberi del viale si ergevano verso l’alto, ricchi di foglie larghe e luminose, con sopra ancora delle perle d’acqua. Le staccionate si susseguivano, differenziandosi per colore e altezza. Le villette facevano a gara per essere le più perfetta. Infondo alla via, invece, vi era un umile casa bianca. Un gelsomino ricopriva il terrazzo, rendendo il tutto più vivace. Superò il cancello ed infilò le chiavi nella serratura. Moka corse dentro e si posizionò su una sedia della sala da pranzo. Sapeva che la sua padrona si sarebbe fatta un caffè. Leah fece chiudere la porta alla sue spalle, accese le luci e lanciò la borsa sul divano, assieme al sacchetto di cartone, spiegando l’abito. Mentre il caffè fumava nella tazza di Starbucks, Leah fissava il cellulare, sperando che si accendesse una lucina blu, notifica di un messaggio arrivato. Passò tutto il giorno, ma quella luce non apparve mai.

  
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