Capitolo 1
-Ahia Moka!- disse ridendo
– Scusa se non ti ho
considerato.
Il gatto allora si
appallottolò, sentendosi al sicuro,
ed iniziò a far le fusa. Entrambi si appisolarono.
-Leah! Cosa ci fai a letto?
L’urlo la fece riemergere
dal mondo dei sogni. Moka
inclinò la testa.
-Dovevi andare a comprarti un
vestito, domani dobbiamo
andare al matrimonio di tuo cugino. Sei la solita pigrona, alzati su!
La madre corse alla finestra e la
spalancò,
permettendo a dei luminosi raggi di invadere la camera.
Le nuvole grigie erano state
sostituite da uno
splendido arcobaleno. L’aria era ancora fresca, ma almeno il
pomeriggio era più
gradevole.
-Sono già le cinque,
quindi muoviti. Ti ho lasciato i
soldi sul tavolo, io devo uscire.
Così se ne
uscì, corse per le scale e sbatté forte la
porta. Leah sospirò, pensando a sua madre come un piccolo
uragano, capace di
distruggere la quiete. Sbadigliando, scese dal letto e si
cambiò. Indecisa fra
un maglioncino color crema ed uno blu notte, optò
però una felpa grigia. Prese
il primo paio di jeans ed infilò ai piedi le sue nere
converse basse,
abbozzando un fiocco. Una folata di vento gelido la investì,
ricordandole di
aver fatto la cosa giusta ad indossare quella felpa pesante.
Gettò le chiavi
nel suo zainetto di pelle e si incamminò, cercando di
evitare le pozzanghere
sull’asfalto. Al suo fianco, Moka zampettava allegro,
fissando una farfalla che
svolazzava sulla siepe del vicino. Le sue ali blu cobalto brillavano al
contatto dei raggi solari, rendendola forse più splendete di
quanto fosse in
realtà. Leah amava quel colore, era il suo preferito. Di
certo nessuno lo
avrebbe immaginato o potuto indovinare, dato che spesso vestiva di
nero,
nonostante avesse nel guardaroba altri abiti colorati, tenui ma
comunque
colorati. Data la sua timidezza, morbosamente legata a pungenti
paranoie, non
sapendo come tenere le mani per simulare una naturale e disinvolta
camminata,
le infilò in tasca, sfuggendo al problema. Come detto
precedentemente, Moka non
era il tipico gatto. Certo, aveva tutti gli atteggiamenti felini per
eccellenza, come il poltrire per ore, inseguire qualsiasi cosa che si
muovesse,
sdraiarsi sui fogli di carta, infilarsi in spazi stretti, dormire nelle
scatole, preferire le scatolette ai croccantini, avere il ruzzo,
ricercare
attenzioni ecc., ma sapeva comunque distinguersi. Per essere precisi,
Moka era
stato trovato da Leah, nel parco della città, tutto sporco e
ferito. Aveva
cinque mesi, fu curato e coccolato per un mesetto, ed alla fine i
genitori si
affezionarono, cedendo alla figlia. Moka divenne a tutti gli effetti
parte
della famiglia. Fin da subito, però, mostrò di
avere una particolare simpatia
per Leah, seguendola ovunque andasse, perfino in bagno.
All’inizio era
imbarazzante, lei sedeva sulla tavoletta e lui saliva
sull’angolo della vasca
da bagno, aspettando che Leah finisse, fissandola, ma col tempo si era
abituata, o meglio, rassegnata alla sua ossessione. Oramai non ci
faceva più
caso, anzi, le piaceva avere quella palla di pelo sempre accanto, quel
musetto
dolce, quegli occhi furbi, non la facevano sentire sola. In principio,
doveva
essere un gatto d’appartamento, non volevano che uscisse per
strada, temevano
potesse accadere il peggio, ma quando un giorno Moka riuscì
a scappare, stupì
tutti. Leah si trovò il gatto davanti al cancello di scuola
e decise di non
prendere il pullman, ma di tornare a piedi. Moka la seguì
per tutto il
tragitto, stando al suo passo, senza distrarsi o correre dietro ai
passerotti. Sembrava
un cane e non aveva nemmeno bisogno di un guinzaglio. Da quel giorno,
Leah
provò ad andare in centro, al parco, in biblioteca sempre
con quel micio a
fianco e lui era felice delle loro passeggiate, spesso infatti era
possibile
sentire le sue rumorose fusa. Nei negozi in cui non accettavano
animali, Moka
aspettava fuori dalla porta. In paese ormai era conosciuto da tutti,
dallo
stupore iniziale si era passati alla totale indifferenza. Nessuno
chiedeva se
fosse stato addestrato, si limitavano ad accarezzarlo o a salutarlo,
finalmente.
Leah odiava le troppe attenzioni, ora invece poteva uscire tranquilla.
Giunti
al negozio di abiti eleganti, Moka si fermò alla soglia e
lei entrò.
-Leah! Ti stavo aspettando, tua
madre mi aveva detto
che saresti passata.
La proprietaria spalancò
le labbra pesanti di
rossetto, mostrando i suoi perfetti denti bianchi. Un sorriso
abbagliante.
-Salve Marisol, scusa il ritardo.
In realtà avrebbe voluto
essere in qualsiasi altro
luogo. Odiava apparire, vestirsi con classe, indossare tacchi alti,
truccarsi
troppo ecc., Leah era una di quelle ragazze semplici, che al massimo si
mettono
un velo di eyeliner e mascara. Non sopportava impiastricciarsi il viso
con
fondotinta, terra e correttori. Era una di quelle ragazze silenziose,
che al
massimo abbozzano un sorriso e diventano subito rosse. Era fatta
così,
impacciata e non aggraziata, introversa e non estroversa, pacata e non
euforica, topo di biblioteca e non festaiola. Insomma, era una di
quelle
ragazze che si ignorano.
-Non preoccuparti tesoro, ho
già preparato qualche
vestito che dovrebbe piacerti – disse mentre afferrava la
mano della ragazza –
tua mamma mi ha detto che ti piace il verde!
Sbuffò. Non conosceva
proprio niente di sua figlia.
-Ehm veramente lo odio.
Detto ciò, Marisol si
bloccò, l’afferrò per spalle e
disse – Diamine, stai scherzando? Si intonerebbe benissimo
con i tuo occhi
grigio verdi.
-Sì, ma..-
-Uff, capito. Certo che sei
testarda!
E scoppiò in una
fragorosa risata. La strattonò fino
ai camerini, dove la fece sedere su una poltroncina rossa e le
mostrò i vari
abiti selezionati. Mentre quella donna blaterava sul taglio e la stoffa
dei
vestiti, Leah si perse nei bellissimi ricci biondi di una ragazza,
attenta a
guardarsi allo specchio. Aveva un fisico perfetto, un fisico che
invidiava.
-Allora, quale provi per primo?
L’attenzione
tornò su Marisol, sui suoi grandi occhi
nocciola, contornati da una matita azzurra.
-Il più semplice
possibile.
-Ma Leah, devi essere bella domani.
Magari fai qualche
incontro interessante, no?
Disse ammiccando.
-Esco già con un
ragazzo.
-D’accordo, hai vinto tu.
Scegli quello che vuoi.
Si arrese, alzando le spalle. Leah
le sorrise,
pensando di essere davvero difficile a volte. Si guardò un
po’ intorno, senza
nemmeno alzarsi, e ne indicò uno.
-Che te ne pare di quello?
-Ma è un banalissimo
tubino blu.
Restarono entrambe in silenzio, a
fissare quell’abito
appeso alla gruccia. Nel frattempo Moka balzò sulla finestra
dell’edificio e
miagolò.
-Capito, non facciamolo aspettare
troppo. Vado a
prenderti quel tubino.
Leah si alzò soddisfatta
e fece l’occhiolino a quella
splendida palla di pelo, ringraziandolo.
Nel camerino, si scrutò
attentamente. Ovviamente, non
si piaceva. Le gambe erano troppo grosse, il sedere troppo largo, le
spalle
troppo spigolose, il seno troppo piccolo, il viso troppo banale. In
realtà,
Leah non aveva niente da invidiare alle altre ragazze. Lei era giusta,
aveva le
gambe magre, un sedere normalissimo, le spalle morbide, il seno a mela
e un
viso delicato. Il suo fisico non aveva niente di sbagliato, era
proporzionata e
in forma. Certamente, non era ciò che desiderava. Avrebbe
voluto un fisico da
urlo, un volto fantastico. Voleva semplicemente essere bella e
perfetta,
secondo i canoni della moda. Un desiderio innocente, un desiderio
comune. Lei
era una ragazza standard, normale, tipica. Non le mancava niente, ma
non era
nemmeno speciale. Intanto, giocava con i capelli neri pece, cercando
un’acconciatura adatta. Non le piaceva mostrare troppo il
volto, ma con
quell’abito andavano sicuramente raccolti. Lisci come seta,
scendevano sulla
sua schiena, facendo contrasto con la sua candida pelle. Si morse il
labbro
inferiore e si asciugò una lacrima. Era fragile, le bastava
poco per cadere. Cadere
nelle sue
fissazioni, nei suoi pensieri,
nei suoi timori. Solitamente, non lottava, non cercava di fuggire alla
tempesta
che aveva dentro, ma tentava solo di restare a galla. Ogni tanto,
però,
annegava.
-Fatti vedere dai!-
Incalzò Marisol.
Leah, finse un sorriso ed
aprì le porte del camerino.
-Stai una favola, tua madre
sarà contenta.. anche se
aveva in mente altro.
Arrossì.
-Beh, grazie.
Trovati poi i tacchi adatti,
quattordici centimetri,
pagò e tornò dal suo micio. Una goccia
d’acqua le cadde sulla guancia sinistra.
Uhm, credo
inizierà a piovere di nuovo, pensò.
Moka si strusciò fra le
gambe e si incamminò verso casa. Leah si strinse nella felpa
e lo seguì. Gli
alberi del viale si ergevano verso l’alto, ricchi di foglie
larghe e luminose,
con sopra ancora delle perle d’acqua. Le staccionate si
susseguivano,
differenziandosi per colore e altezza. Le villette facevano a gara per
essere
le più perfetta. Infondo alla via, invece, vi era un umile
casa bianca. Un
gelsomino ricopriva il terrazzo, rendendo il tutto più
vivace. Superò il
cancello ed infilò le chiavi nella serratura. Moka corse
dentro e si posizionò
su una sedia della sala da pranzo. Sapeva che la sua padrona si sarebbe
fatta
un caffè. Leah fece chiudere la porta alla sue spalle,
accese le luci e lanciò
la borsa sul divano, assieme al sacchetto di cartone, spiegando
l’abito. Mentre
il caffè fumava nella tazza di Starbucks, Leah fissava il
cellulare, sperando
che si accendesse una lucina blu, notifica di un messaggio arrivato.
Passò
tutto il giorno, ma quella luce non apparve mai.