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Autore: Hastatus    17/01/2015    3 recensioni
La Via, la Verità, la Vita.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Greg House, James Wilson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Era guidato dalla musica. Stava seguendo un suono ultraterreno, che gli faceva venire la pelle d’oca e che pareva propagarsi nell’aria come le vibrazioni attraverso un calice di cristallo. Lo spaventava tanto quanto lo ammaliava, ma non poteva fare a meno di seguirla.

La luce che filtrava attraverso le chiome degli alberi andava via via affievolendosi, come se, al di là di quelle fronde, il sole stesse tramontando.
Il terreno su cui camminava – cosparso di foglie ancora verdi – parve cominciare a salire. Si preoccupò di non riuscire ad avanzare verso l’alto, ma contemporaneamente si rese conto di non aver bisogno del bastone che, infatti, non aveva con sé.
Accigliato, proseguì.

Qualcuno aveva dimenticato qualcosa a terra. Una decina di metri più avanti, qualcosa di marrone chiaro spiccava tra il verde delle foglie, nonostante la penombra ormai diffusa. Si fermò, poi decise di avanzare verso l’oggetto. Sembrava una spazzola.
Dopo pochi metri, fu chiaro che aveva preso una cantonata. Reprimendo un moto di fastidio per la propria disattenzione, comprese che quella non era una spazzola, e non era nemmeno un oggetto. Era un riccio.
Si chinò verso l’animale. Era immobile. Non era necessaria l’esperienza più che ventennale di medico per capire che era morto. Lo colse delicatamente e, voltandolo tra le mani, si accorse che uno dei suoi stessi aculei lo trafiggeva sul torso.

Percepì le proprie mani fremere e una sensazione ignota farsi avanti in lui. Sembrava repulsione. Ebbe l’impulso di scagliare lontano quella bestiola ormai inoffensiva, di volersene allontanare il più possibile.

“Hai paura, vero?”

Si voltò verso la fonte della voce. In piedi di fianco a un olmo frondoso, seminascosto nella penombra, se ne stava James Wilson, le mani affondate nelle tasche della giacca primaverile che indossava sopra la camicia beige.

“Fortuna che è morto” – disse, voltandosi e riponendo il riccio sul terreno con delicatezza. “E fortuna che è solo un riccio. Avrei potuto essere attaccato da un lupo o, chessò, da un leopardo.”

“Un leopardo sarebbe solo un leopardo.”

Socchiuse gli occhi fissando il volto dell’uomo dai capelli rossastri a pochi metri da lui, e inclinò il capo assumendo un cipiglio sospettoso.

“Andiamo?” – disse Wilson.

“E dove?”

Wilson indicò dietro di sé con il capo. “Su.”

Dopo del tempo – un minuto o un’ora, impossibile tenerne il conto – stavano camminando. Proseguivano l’uno al fianco dell’altro, e l’unico rumore era il frusciare delle foglie sotto i loro piedi. Non riusciva a staccare lo sguardo dal volto di Wilson, che incedeva con somma calma, imperturbabile.

“Quel riccio era morto” – disse, rompendo di proposito il silenzio. “Deve avere sofferto.”

“Chi non soffre, morendo?” – rispose Wilson, alzando lentamente gli occhi davanti a sé.

“Beh, io non posso certo saperlo” – rispose – “Ma tu devi averne un’idea. Sei tu quello che è morto.”

Wilson chiuse le palpebre, sorrise in modo enigmatico e annuì. Era frustrante a vedersi, così in pace con se stesso.

“Il che mi porta a dedurre che tu sia il frutto di un’altra allucinazione delirante, come tutto quello che ci circonda. Oppure è molto banalmente un sogno, e tra poco mi sveglierò disteso sul pulcioso letto dell’ultimo motel dove ho alloggiato…

In tutta risposta, Wilson sorrise e si guardò i piedi. Seguì il suo sguardo, e vide le foglie flettersi e accartocciarsi sotto le scarpe dell’uomo. Quando rialzò gli occhi spalancati dallo sconcerto, Wilson gli batté una mano sulla spalla, e ne percepì nettamente il tocco. La bocca gli si socchiuse per la sorpresa, ma continuarono a proseguire tra gli alberi.

“Dove stiamo andando?”

“Dipende da che cosa vuoi vedere.”

Cadde il silenzio. La musica era sparita.

“Cosa vuoi che ti risponda…?” – chiese – “Come sarei ora se non fossero accaduti degli avvenimenti orribili? Ho già visto scene del genere, ma non sono vere. Sono solo ipotesi fantasiose sul passato. Quindi inutili.”

Wilson fece un cenno di assenso. Poi si voltò verso di lui.

“Quindi vuoi vedere ciò che è, e non ciò che poteva essere?”

“ Sì … Aristotele.”

Erano arrivati al culmine del colle. Non si sentiva affaticato. La luce era rosea e polverosa, e indicava che l’alba stava sopraggiungendo. Si stava per chiedere come fosse possibile, visto che fino a quello che sembrava poco tempo prima era notte fonda, quando gettò lo sguardo sulla vista sottostante.

Bruma gelida e uno sterminato mare. Inizialmente credé di trovarsi sul bordo di una scogliera, ma l’assenza di schiuma sull’acqua indicava che non era allo stato liquido, ma solido. Era un’immensa distesa di ghiaccio opaco, che gli ricordava alcune immagini delle coste del Mare del Nord. Percepiva chiaramente il freddo pungente, poiché vestiva solo un camice da degente ospedaliero, ma per cause a lui ignote ciò non lo disturbava: non aveva né la pelle d’oca, né i brividi. Stava bene.

“Che cosa dovrebbe voler dire?” – chiese, acido. “Se il mio subconscio non sa fare altro che propormi immagini raffazzonate di un poema del millennio scorso, allora devo essere davvero conciato male.”

“Credevo che avessimo chiarito che il tuo subconscio non c’entra” – rispose mite Wilson.

Lui si rabbuiò, e tornò a fissare il tavoliere ghiacciato. La fronte gli si aggrottò e il suo sguardo si fece dolente. Sospirò.

“Scendiamo” – disse Wilson.

Cominciarono a percorrere il declivio lentamente. Non incespicarono, nonostante fosse piuttosto ripido, e se ne stupì; d’altra parte, continuava a non avere bisogno del bastone, quindi era plausibile che fosse più agile. Ai piedi dell’altura le foglie sul suolo non si diradavano, ma si interrompevano improvvisamente al limite del ghiaccio, formando un bordo stranamente regolare. Si fermarono, in piedi, proprio su quel ciglio.

Quando non poté più sopportarlo, lo chiese.

“Ascolta. Quel che poteva essere lo so già. Quel che è, l’ho visto. È quanto di più scontato si possa concepire, ma l’unico tempo verbale a mancare è il futuro.”

In tutta risposta, Wilson si voltò di nuovo verso il colle.

Non avrebbe mai potuto vederlo dal bosco, perché si trovava dal lato opposto. Ma ora, su quel fianco dell’altura, era chiaramente visibile un’entrata. Si sarebbe aspettato una caverna – piuttosto banale, effettivamente, pensò – ma quella era una porta vera e propria. Tuttavia, ancora, si sarebbe aspettato un antico portale in legno o in pietra, magari con qualche cupa iscrizione in rima sullo stipite.
Invece quella porta era formata da due ampie ante in vetro, ognuna delle quali recava un’asettica, squadrata maniglia in acciaio. Gli ricordò istintivamente l’ingresso di un ospedale. All’interno, un diffuso colore bianco perlaceo, che non permetteva di vedere nient’altro.

Per la prima volta, Wilson si voltò a fissarlo direttamente. Lui era accigliato.

“Dovremo attraversarla? Io pensavo di svegliarmi di soprassalto, o qualcosa del genere. Francamente non ho granché voglia di sciropparmi il tour guidato dell’oltretomba.”

“Da’ un’occhiata al ghiaccio” – disse Wilson, guardandolo dritto negli occhi.

Lui ricambiò lo sguardo. Non c’era ironia sul volto di Wilson, ma un’espressione appena dolente. Titubante, si voltò nuovamente e si accovacciò al limite della superficie ghiacciata. Poi si sporse in avanti e, come Narciso si specchiò nelle acque di un lago, si ritrovò a fissare il suo volto riflesso nel ghiaccio.

Il suo cuore ebbe un tuffo di consapevolezza. Faticava a distinguere i suoi capelli nel riflesso, poiché erano bianchi allo stesso modo della superficie opaca del ghiaccio, così come lo era la corta barba incolta che gli rivestiva le guance e il mento come gli arbusti secchi ricoprono il terreno della tundra. I suoi occhi azzurri erano ben evidenti, invece, nel mezzo di quel volto solcato da rughe più profonde e più numerose rispetto a quando Wilson l’aveva lasciato.

Rimase accovacciato per un tempo indefinito. Poi si voltò verso Wilson, e scoprì che lo stava guardando. Gli rimandò uno sguardo addolorato dal basso. Si alzò e lo raggiunse. Quando gli fu di fianco, Wilson gli sorrise.

“Andiamo?”

Annuì, non curandosi di asciugarsi gli occhi. Wilson gli cinse le spalle con un braccio e varcarono insieme la soglia, confondendosi con il biancore che racchiudeva, lasciando la porta oscillare alle loro spalle.

 

 

  
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