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Autore: GiuliaStark    24/01/2015    0 recensioni
Axel ed i suoi genitori si sono da poco trasferiti a Los Angeles in quella che chiamano tutti la Casa degli Omicidi. Nell'ultimo anno lei e la sua famiglia ne hanno passate tante ed ora è tempo di cercare di riaggiustare tutto ciò che si è spezzato. Axel però è una ragazza difficile, ne ha passate tante ma nonostante tutto nel profondo, sotto la dura scorza, è ancora una ragazza che sogna e spera. La casa però ha un oscuro passato. Succedono cose strane ed Axel anche se spaventata ne è inspiegabilmente incuriosita. Cosa accade lì che loro non sanno? Nel bel mezzo delle lotte che intraprende contro la sua famiglia e se stessa fa la conoscenza di Tate Langdon, un ragazzo che la incuriosisce dal primo istante. Ma chi è Tate in realtà? E perchè ogni volta che è in sua presenza si sente così strana? Axel sa che Tate le nasconde qualcosa ma nonostante tutto non riesce ad allontanarlo, dopotutto anche lei ha i suoi demoni. I due hanno un rapporto speciale, ma cosa rappresentano l'uno per l'altra? La salvezza o la distruzione?
Genere: Horror, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Tate Langdon, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
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Saaaalvee!! Scusate l'attesa ma ho avuto un pò di cose da fare, comunque ecco qua il nuovo capitolo e buona lettura!!! 😁😉


Sette giorni. Erano passati sette lunghissimi maledetti giorni. Lo scandire del tempo sembrava essersi fermato da quando avevo detto a Tate di lasciarmi stare e da quel momento tutto ciò che era successo lo avevo preso come qualcosa di contorno, come se fosse lì solo per riempire un pezzo mancante. Sapevo che veniva ancora a casa mia per le sedute, o meglio, lo percepivo; era una cosa assurda, si, ma ogni volta era come se dentro si accendesse una lampadina che mi segnalava la sua presenza e costantemente dovevo lottare contro me stessa e la sensazione di correre da lui. In questa settimana le cose non erano cambiate più di tanto a parte il fatto che i miei cercavano di parlarsi di più senza urlare e fare più caso a me, ma tutto ciò mi riportò alla mente quando successe la stessa cosa a New York prima di trasferirci qui. Anche lì avevano cercato di cambiare ed avevano fallito miseramente. Stavolta, nonostante le mie aspettative, sperai sul serio che si sarebbe risolto qualcosa. A scuola le cose erano sempre uguali ma essendomi scusata con Ryan per come gli avevo riposto, ora almeno avevo qualcuno che mi faceva sentire meno sola; Max non mi dava quasi più fastidio e quando ci provava il mio nuovo amico era sempre lì per difendermi e in quei momenti cominciavo a chiedermi cosa ci fosse di sbagliato in me. Ryan era un bravo ragazzo, nel corso della settimana avevo imparato a conoscerlo meglio e scoprii che la mia opinione su di lui non era affatto sbagliata, ma nonostante tutto ciò in mente avevo un chiodo fisso: non era Tate. In fin dei conti, però, se non pensavo a lui potevo perfino definire questi giorni i migliori da tempo immane ma in me albergava la paura che presto sarebbero potuti finire, che mi sarei svegliata una mattina e mi sarei accorta che tutto questo non era nient’altro che uno stupido sogno prima dell’incubo del risveglio. Per questo non mi permettevo di essere felice più di quanto bastava per far credere, primi fra tutti ai miei genitori, che andava tutto bene cosicché da non averli costantemente con il fiato sul collo. Era un processo arduo visto che nonostante mi impegnassi con tutta me stessa mi sentivo sempre come se fossi sull’apice del baratro a pochi millimetri dal precipitare, così preferivo ignorare i miei sentimenti ed andare avanti a stenti. Di notte, se prima gli incubi mi concedevano qualche ora di sonno ora invece mi tenevano sveglia fino all’alba senza farmi riuscire a chiudere occhio anche solo per qualche minuto e presto quell’unica serata che avevo passato senza averne cominciò a sembrarmi solo un’allucinazione; la casa ultimamente aveva cominciato a scricchiolare di più e strani rumori facevano breccia dal nulla portandomi a controllare ogni volta tutta la struttura, gli sguardi che percepivo nel seminterrato ora mi seguivano anche nei piani superiori ma decisi di attribuire il tutto alla mancanza di sonno. Alla fine dopo tanto rigirarmi nel letto mi tirai su sedendomi a gambe incrociate a fissare la luce dei lampioni che si rifletteva sul vetro della finestra creando un’ombra sul pavimento; sospirai e mi passai le mani sul volto per tirare indietro i capelli, mi voltai verso la sveglia ed il display dalla luce verde segnava le 03:30 della mattina, perfetto ed ora che avrei fatto fino all’alba? Decisi di alzarmi e presi una felpa e la infilai sopra il top che avevo: nonostante fosse quasi la fine di ottobre e nonostante ci trovassimo a Los Angeles sembrava che la temperatura notturna si fosse abbassata di qualche grado; aprii la finestra e poggiai i gomiti sulla soglia guardando fuori. Il cielo era stellato senza nuvole di un blu scuro e profondo, la luna brillava maestosa irradiando la sua luce argentea sul quartiere tingendo tutto di una leggera sfumatura biancastra; a quest’ora il centro si era animato già da qualche ora. Me lo immaginavo, con le sue luci, la musica ad alto volume, i bar, le discoteche e la folla che li riempiva. Sembrava come se la città fosse divisa in due: da un lato c’era la parte sempre attiva e vitale e dall’altra quella tranquilla e silenziosa dei quartieri più in periferia. Come le due parti che abitavano in me. Due facce della stessa medaglia. Solo che già da un po’ di tempo una aveva presa il sopravvento sull’altra e non c’era neanche bisogno di spiegare quale; la strada era deserta, solo di tanto in tanto una macchina di passaggio la illuminava con i fari per qualche secondo per poi farla tornare nuovamente sotto la protezione mistica della luce lunare. Sentii nuovamente dei rumori ma non mi scomodai ad andare a vedere, mi limitai a chiudere la finestra e sedermi nuovamente sul letto poggiando la schiena contro la spalliera e, consapevole che non potevo dormire, accesi la lampada vicino il letto e prendendo il libro che avevo sul comodino lo aprii a dove mi ero fermata l’ultima volta e ripresi a leggere. Avevo letto questo libro minimo dieci volte, ma non mi stancavo mai, ogni volta mi dava nuovi insegnamenti, il libro in questione era uno di Jack Keurac “Sulla Strada” per precisare. Avrei voluto anche io fare un viaggio on the road dimenticandomi di tutto e partire all’avventura con niente di certo davanti ma con la consapevolezza che mi avrebbe aiutata a trovare me stessa. Il mio era un profondo desiderio di fuga ma sapevo perfettamente che scappare non serviva a nulla, tanto i problemi mi avrebbero aspettata al mio ritorno e sarebbero stati anche più grandi e difficili da risolvere. La mattina finalmente arrivò ed io nel frattempo avevo nuovamente terminato il libro; arrivata l’ora di prepararmi per la scuola mi alzai di malavoglia ed andai a farmi una doccia rilassante che mi rigenerò un po’, mi guardai allo specchio e notai le occhiaie che cominciavano a formarsi sotto i miei occhi, avevo dimenticato questo effetto collaterale e non era decisamente bello a vedersi visto che mi dava un’aria abbastanza malaticcia. Mi sistemai al meglio e poi andai a vestirmi prendendo degli skinny neri strappati, degli anfibi altrettanto neri con una t-shirt dei Nirvana e sopra una camicia di tartan; quando scesi di sotto la luce proveniente dalla vetrata in salotto mi abbagliò portandomi a coprire la visuale con una mano, raggiunsi la cucina e vi trovai entrambi i miei genitori: mio padre leggeva il giornale mentre sorseggiava del caffè mentre mia madre controllava il suo programma giornaliero a scuola. Alzai le sopracciglia e sospirai esasperata per la scena da film che avevo davanti mentre mi sedevo davanti alla mia fumante tazza di thè:
- Buongiorno tesoro – disse mio padre mettendo da parte il giornale per guardarmi con un sorriso.
- ‘Giorno – risposi bofonchiando.
- Hai dormito bene? – domandò mia madre.
Ma stava scherzando? Si vedeva chiaramente che erano giorni che non dormivo. O forse semplicemente lo ignorava, come del resto tutto quello che mi riguardava:
- Oh, si benissimo! – risposi con una nota di sarcasmo che evidentemente non notarono.
- Bene – sorrisero entrambi.
- Che programma hai per oggi? – domandò mia madre a mio padre fingendo di interessarsi.
- Inizio alle nove con qualche paziente – rispose lui senza neanche voltarsi a guardarla – Dovrei finire per pranzo –
- Vedrai Tate oggi? – chiesi a voce bassa mentre fissavo il liquido nella mia tazza.
- Cos’hai detto cara? – quell’affermazione mi fece scappare una risata irritata.
- Hai capito benissimo – alzai lo sguardo verso di lui.
- Axel, non ti deve interessare di quel ragazzo – rispose lui con un sospiro che nascondeva un po’ di irritazione abbassando nuovamente lo sguardo sul giornale.
- Ti ho solo fatto una domanda – insistetti – Mi hai proibito di vederlo e sto mantenendo la promessa ed anche lui, quindi chiederti solo se continua la terapia non ci vedo nulla di male –
- Si verrà – sospirò – Sarà il primo appuntamento –
- Lo hai fatto apposta perché io a quell’ora non sono in casa – non era una domanda ma un’affermazione.
- Axel… - mi richiamò mia madre.
- Tranquilla mamma non ho intenzione di litigare – tornai a bere il mio thè mentre entrambi mi osservavano con uno strano sguardo dipinto sul volto.
- Perché ti interessa tanto di quel ragazzo tesoro? – domandò gentilmente mia madre.
- Vorrei solo che stia meglio, tutto qui – terminai guardando verso mio padre.
- È un bel pensiero –
Non risposi. Mi alzai posando la tazza nel lavello, poi accennai un mezzo saluto ed uscii dalla cucina. Prima di uscire presi la tracolla e mentre stavo per aprire la porta ed andar via entrò Moira:
- Buongiorno Moira – la salutai con un sorriso sincero.
- Buongiorno mia cara – sorrise – Esci di già? –
- Si, preferisco essere in orario. Ci vediamo quando torno –
Uscii chiudendomi la porta alle spalle e cominciai ad incamminarmi verso la scuola con le mani in tasca e le cuffie con la musica nelle orecchie. Quella mattina non avevo voglia di pensare, così spensi il cervello per un po’ e mi concentrai sulla musica e sulle parole della canzone:

When you're strange
Faces come out of the rain
When you're strange
No one remembers your name
When you're strange

Mi rispecchiavo perfettamente in quelle parole. Era proprio così che mi sentivo quando ero in mezzo alla gente. Arrivai a scuola con qualche minuto di anticipo e mentre avanzavo a passo lento verso l’entrata guardavo la corrente di ragazzi e ragazze che mi passava affianco senza neanche notare la mia presenza; all’improvviso mentre ero concentrata sul flusso dei miei pensieri sentii un braccio circondarmi le spalle e l’improvviso contatto mi fece sobbalzare:
- Buongiorno Axel! –
- Cavolo Ryan, mi hai spaventata! –
Lui ridacchiò ed ai lati delle guance spuntarono due piccole fossette. Ryan aveva un sorriso allegro e malizioso al tempo stesso ed in questa settimana ci eravamo avvicinati quel tanto che bastava da considerarci amici; tolsi le auricolari e le rimisi in borsa:
- Scusa – sorrise dandomi una piccola spinta amichevole.
- Stamattina sei piuttosto allegro –
- E tu strana – disse fermandosi davanti a me ed una volta che mi esaminò bene aggrottò la fronte perplesso – Che ti è successo? Hai una faccia! –
- Sempre gentile, eh? – risposi sarcastica e con un mezzo sorriso.
- Dai, lo sai cosa volevo dire! – diventò serio improvvisamente – Che hai? –
- È un paio di giorni che non riesco a dormire – sospirai distogliendo lo sguardo dal suo.
- Come mai? –
- Non lo so… - mentii.
Mi voltai a guardarlo nuovamente e lo trovai a scrutarmi con attenzione come se fosse poco convinto delle mie parole, poi rilassò le spalle ed infilando le mani nelle tasche dei jeans strappati mi guardò come se fossi una bambina colta a rubare caramelle dai genitori:
- Axel – trattenne una risata – Non dirmi cazzate, dai! –
- Mi capita di avere degli incubi, ok? – sbuffai riprendendo a camminare con lui che mi seguiva.
- Beh li avrei anche io se vivessi in quella casa! – rise.
- Anche tu con questa storia! La casa non centra nulla – alzai gli occhi al cielo – Ne soffrivo già anche quando ero a New York – feci spallucce.
- Oh, scusa, non lo sapevo - rispose imbarazzato.
- Non importa – feci una pausa, poi ripresi – Andiamo in classe, forza – gli sorrisi e trascinandolo verso l’entrata ci dirigemmo verso la nostra aula.
La mattinata trascorse tra il lento scorrere delle ore e le piccole risate che Ryan di tanto in tanto riusciva a strapparmi; era decisamente un bravo ragazzo ed un buon amico, l’unico che avessi avuto da… da sempre credo. Con lui vicino ero certa che sarei stata al sicuro. Non sapevo spiegare con precisione ciò che percepivo quando ero in sua compagnia, ma fatto sta che mano a mano, solo grazie alla sua presenza, la scuola non mi sembrava più un posto tanto orribile. Ryan era più grande di due anni, infatti mi spiegò di essere stato bocciato due volte per il numero di assenze che aveva fatto perché era “annoiato dalla scuola e da ciò che si faceva lì “(parole sue). Anche a me la scuola per la maggior parte del tempo faceva quell’effetto ma con due genitori come i miei non potevo di certo permettermi il lusso di fare come lui, anche se mi sarebbe piaciuto. Ogni volta che passavo per i corridoi e mi capita a di incontrare Max, lui mi guardava dall’alto in basso con un sorriso diabolico sul viso; non avevo più ricevuto minacce da parte sua nell’ultima settimana, ma ciò non toglieva che il pensiero mi tornasse a ciò che mi aveva detto e questo bastava per mettermi in allarme. A Ryan non avevo detto nulla nonostante mi facesse sempre la stessa domanda da giorni. Non è che non mi fidassi, anzi, cominciavo a lasciarmi andare un pochino di più ogni volta cominciando ad abbassare le difese che avevo innalzato attorno a me con il tempo, il “problema” era un altro: Non avrebbe capito. Ma nonostante Ryan riusciva a tenermi la mente impegnata per qualche ora non potevo evitare di pensare a Tate. Guardai l’orologio appeso al muro bianco, ormai rovinato, della classe, le lancette segnavano le 10:45. A quest’ora aveva già finito da un pezzo la terapia con mio padre. Avrei voluto rivederlo. Era come se fosse una necessità, una piccola richiesta egoistica che mi tormentava per tutto il giorno, tutti i giorni, nonostante la parte razionale del mio cervello sapesse che era profondamente sbagliato. Quando suonò la campanella che segnava la fine della giornata feci un grosso sospiro di sollievo e con un leggero sorriso cominciai a sistemare le cose in borsa per poi uscire dall’aula a passo spedito; vicino l’uscita incontrai Ryan che mi aspettava:
- Com’è andata quest’ora senza di me? – mi domandò.
- Noiosa – feci spallucce – Non vedo l’ora di tornare a casa, sono esausta – dissi passandomi una mano nei capelli.
- Dovresti prenderti qualcosa che ti aiuti a dormire, non puoi andare avanti così –
- Vedremo – sospirai – Ne parlerò con mio padre. È il suo lavoro risolvere i problemi mentali della gente – riposi con un po’ di sarcasmo.
Dopo aver salutato Ryan mi incamminai verso casa con nuovamente la musica nelle orecchie a farmi compagnia, questo era il mio modo di rilassarmi ed uscire temporaneamente fuori dalla realtà ed entrare in un universo parallelo tutto mio. Quando mi chiusi la porta di casa dietro le spalle tirai un sospiro di sollievo. Nonostante tutto questa casa mi faceva sentire al sicuro. Mia madre era ancora al lavoro mentre mio padre era in studio, potevo sentire la sua voce assieme a quella del suo paziente; poggiai la borsa accanto la porta e prima che salissi le scale sentii un rumore ed un ombra provenire dalla cucina. Deglutii rumorosamente ed il mio battito cardiaco aumentò, sbattei le palpebre un paio di volte e a passo lento mi diressi verso la cucina; chi poteva essere? Mi stava venendo una paura matta ma al tempo stesso una strana curiosità mi spingeva ad andare avanti. Lentamente iniziai a mettere un piede davanti l’altro cercando di fare il meno rumore possibile e nella mia mente cominciai già a pensare il peggio, avrei voluto chiamare mio padre ma qualcosa mi bloccava la voce, forse era la paura. Quando arrivai all’angolo della porta della cucina socchiusi gli occhi e presi un bel respiro, poi facendomi coraggio entrai e ciò che trovai mi sorprese non poco. Davanti a me c’era una ragazza non molto alta che aveva sicuramente la sindrome di down, i suoi capelli erano marrone scuro lunghi fino alle spalle, decorati da un cerchietto bianco con un piccolo fiocco mentre per il resto aveva un vestito azzurro a maniche corte con delle ballerine nere. Mi guardava con quello sguardo interrogativo e lentamente sulle labbra sottili le comparve un sorriso alquanto inquietante; non credevo che mi stessi immaginando tutto era fin troppo reale, ma chi era quella ragazza? Cosa voleva? E soprattutto come aveva fatto ad entrare? :
- E tu chi sei? – le domandai alzando un sopracciglio.
- Non sarai mai felice qui dentro – rispose con una voce quasi allegra che in confronto a ciò che disse mi fece venire un brivido d’orrore lungo la schiena.
- Come scusa? –
Mi avvicinai, lei cacciò un risolino quasi isterico e corse attorno all’isolotto della cucina facendo cadere un bicchiere ed io sobbalzai; si fermò improvvisamente e ricominciò ad osservarmi con quello sguardo vacuo e smarrito, poi fu come si risvegliò da una catalessi e cominciò ad agitarsi:
- Mi, mi dispiace! Non volevo! – disse rivolgendosi al bicchiere che era caduto chinandosi per raccogliere i pezzi.
Sbattei le palpebre e mi avvicinai inginocchiandomi accanto a lei per aiutarla e cercare di tranquillizzarla:
- Non importa, davvero, tranquilla – cominciai a raccogliere i frammenti di vetro dal pavimento e li poggiai sulla cucina, poi mi voltai verso di lei e le sorrisi ricevendone uno anche io da parte sua.
Mentre cercavo di ripulire sentii dei passi frettolosi entrare in cucina:
- Axel, cosa è successo? – domandò mio padre – E chi è questa ragazza? –
- Tranquillo è solo caduto un bicchiere – mi voltai verso di lui e mi alzai, poi guardai nuovamente la ragazza che nel frattempo faceva roteare lo sguardo in tutte le direzioni incuriosita e quando tornai a posare gli occhi su mio padre scrollai le spalle – Non lo so, quando sono entrata era già qui –
- Come ti chiami? – le domandò mio padre.
- Non te lo dico – rispose ridendo mentre si dondolava sulle punte dei piedi avanti e indietro.
Mio padre sospirò e mentre stava per parlare nuovamente sentii altri rumori provenire dal corridoio vicino il seminterrato e poco dopo una signora alta e con i capelli biondi entrò nella nostra cucina con un’espressione agitata ed innervosita al tempo stesso, ma che diamine stava succedendo? Ci guardò di sfuggita, poi il suo sguardo si spostò sulla ragazza e sopirò come sollevata:
- Adelaide! – le si avvicinò con fare urgente ed indispettito – Che ci fai qui!? –
- Si può sapere cosa sta succedendo in casa mia? – domandò mio padre infastidito.
- Oh, mi scusi signor… - si interruppe.
- Knight –
- Le faccio le mie scuse per l’irruzione di mia figlia, sa, non riesco sempre a starle dietro –
- Va bene ma si assicuri che non succeda più –
- Ci proverò, ma fin da quando ci siamo trasferiti qui Adelaide ha sempre avuto una strana ossessione per questa casa – disse guardandosi attorno.
Nel mentre di tutta questa assurda situazione sentimmo aprirsi la porta principale e poco dopo mia madre si ritrovò in cucina con due persone a lei estranee ed una espressione altrettanto perplessa sul viso mentre faceva vagare lo sguardo tra mio padre e la signora bionda:
- Abbiamo ospiti? –
- Lei deve essere la signora Knight – si avvicinò a mia madre – È piacere conoscerla –
- E lei chi è? –
- Che sbadata non mi sono neanche presentata! Sono Costance la vicina e questa è mia figlia Adelaide –
- Che si è intrufolata in casa nostra – aggiunse mio padre.
- Come? – chiese mia madre aggrottando la fronte perplessa.
- La porta del seminterrato – rispose Costance – Non vi siete accorti che ha la serratura rotta? –
- La faremo controllare allora – annuì mia madre.
- Bene, mi avrebbe fatto piacere conoscervi in una situazione differente, ma ahimè, questa peste – fece un cenno verso la figlia – Non mi fa respirare un secondo – fece spallucce mentre si sistemava con una mano la complicata acconciatura.
- Beh è il lavoro di noi genitori seguire i nostri figli –
Mi voltai verso mia madre con le sopracciglia inarcate dallo stupore. Davvero lei si definiva una persona dedita a sua figlia? O lo stava dicendo tanto per vantarsi che io, pur se problematica, almeno non mi intrufolavo in casa d’altri? Beh se era così fu davvero una bassezza da parte sua:
- E questa deve essere la vostra cara figlia – Costance si avvicinò a me con un sorriso sul volto che sicuramente non gli apparteneva dato che con lo sguardo mi scrutava da capo a piedi come se mi stesse studiando o giudicando; mi sentii a disagio ma cercai di non mostrarlo. Questa donna non era il massimo della normalità – Qual è il tuo nome, cara? –
- Axel – risposi con tono deciso che non faceva trasparire alcuna emozione.
- Un nome davvero bello per una ragazza che lo è altrettanto – allargò ancora di più il sorriso mentre con una mano mi sistemò una ciocca dietro l’orecchio sinistro facendomi percepire qualcosa di strano con quel contatto.
- La ringrazio –
- Bene Costance – intervenne mia madre – Non vorremmo essere scortesi ma abbiamo molte cose da fare –
- Certamente cara, non preoccuparti, sono certa che ci sarà l’occasione di rivederci molto presto –
- Ne sono sicura – annuì mia madre con l’espressione, che ormai conoscevo bene, di chi sperava il contrario.
- Andiamo Adelaide, saluta, da brava –
Prese la figlia per mano e la condusse verso la porta d’entrata e mentre mi passarono accanto la ragazza mi sorrise ed io ricambiai:
- Ciao, Axel –
- Ciao –
Una volta che si chiusero la porta alle spalle mi voltai nuovamente verso i miei genitori che si guardarono come chi non aveva una minima idea di ciò che era appena accaduto, poi mia madre sospirò e mentre si toglieva il cappotto disse:
- La prima cosa che faremo domani è far sistemare quella serratura, non voglio trovarmi di nuovo quella ragazza che gira in casa nostra –
- Per non parlare della madre – aggiunse mio padre alzando le sopracciglia.
- Dopotutto non ha fatto nulla di male – dissi alzando le spalle.
- Beh resta il fatto che non la voglio in casa mia – insistette lei – Sono inquietanti entrambe –
Dopo lo strano incontro pranzammo tutti assieme e stavolta i miei genitori si sforzarono di iniziare una conversazione che andava oltre il << Come andata oggi al lavoro? >> e << Hai impegni per il pomeriggio? >> chiedendo anche a me di partecipare raccontando la mia giornata. Mi sentivo strana e a disagio nel farlo visto che era la prima volta che si interessavano a qualcosa che facevo, quindi semplicemente liquidai la loro domanda con la classica risposta di ogni studente:
- Non è successo niente di particolare –
- Non ti sei ancora fatta degli amici? – domandò mio padre.
Alzai lo sguardo dal piatto e lo puntai su entrambi. Ma perché dovevano farmi tutte queste domande? Perché interessarsi solo ora? Di certo così non rimediavano agli errori fatti in passato ma evidentemente loro la pensavano in modo diverso. Li osservai senza dir nulla mentre aspettavano una risposta; di certo non gli avrei parlato di ciò che mi succedeva, o almeno non ancora, dovevano prima riconquistare la mia fiducia:
- Perché vi interessa? –
- Perché ci preoccupiamo per te –
- Potevate farlo prima, ci saremmo risparmiati molti drammi –
- Stiamo cercando di rimediare Axel – disse mia madre – Ma se tu non ci dai una possibilità come possiamo farlo? –
Li guardai nuovamente: ero indecisa se fidarmi o meno. Avevo paura che mi avrebbero deluso di nuovo ed essere ignorata dai propri genitori è la cosa più brutta che possa accadere a qualcuno; ma, anche se aveva ragione, ancora non ero del tutto convinta, quindi accennai solo una piccola parte:
- Ci sto provando – sospirai – Odio quella scuola, ma ci sto provando… -
- Ci fa piacere tesoro – sorrise mio padre.
Dopo il pranzo e l’imbarazzante modo dei miei di interessarsi alla mia vita mi chiusi in stanza mentre mio padre riceveva altri pazienti e mia madre progettava di rinnovare l’arredamento di alcune stanze della casa. Quando mi chiusi la porta alle spalle andai a sedermi sul letto con alcuni libri di scuola in mano e cominciai a studiare almeno un po’. Stavolta volevo davvero impegnarmi, anche se la scuola e chi la frequentava non mi piaceva, avrei voluto dimostrare a me stessa che non ero solo uno scarto della società ma che valevo qualcosa e che se ne avevo voglia sapevo come impegnarmi ed ottenere risultati appaganti. Una seconda opportunità. Era così che mi sforzavo di vedere tutto ciò, un modo per ricominciare e riprendere in mano la mia vita. Delle volte era proprio così che la pensavo, da ottimista, ma sapevo benissimo che in quei momenti non ero io a parlare ma il riflesso della figlia perfetta che avrebbero voluto i miei genitori. E presto tornavo in me. Tornavo ad essere la ragazza cronicamente depressa e disinteressata nei riguardi di quello che le accadeva intorno. Odiavo i miei sbalzi d’umore, odiavo dover mentire a me stessa quando mi ripetevo che “sarebbe andato tutto bene”, quando evidentemente sapevo che non era così. In più ci si metteva la privazione del sonno che se sarebbe continuata avrebbe messo seriamente a rischio la mia sanità mentale già per metà compromessa per quello che succedeva in questa casa. Richiusi i libri scolastici e li accantonai sopra la scrivania, poi mi distesi sul letto ed incominciai a fissare il soffitto come se attendessi una risposta per tutto quello che mi stava accadendo e che non sapevo gestire. Non so quanto passò se cinque minuti o cinque ore, fatto sta che in quel piccolo frangente del mio mondo lo scorrere del tempo non aveva importanza, tutto era fermo e privo di movimento, tutto era sotto il mio controllo. Forse era questa la causa principale dei miei problemi: l’aver perso il controllo su me stessa. Era come se mi fossi persa in una specie di limbo dal quale non si poteva far ritorno; anni fa mi costruii un limite da non superare mai in modo tale da consentirmi sempre un modo per fuggire, ma ora non ero più tanto sicura di aver rispettato le regole. Ero andata troppo in là. Avevo fatto delle cose di cui mi ero pentita, degli errori commessi solo per disperazione ma che continuavo a ripetere e da quel punto di vista si trasformarono in abitudini. Malsane, si, ma pur sempre abitudini, pur sempre una parte di me. Sospirai guardandomi attorno; fuori mano a mano si stava facendo buio e tra poco il terrore avrebbe preso possesso di me impedendomi nuovamente di chiudere occhio. Improvvisamente percepii qualcosa di strano nella stanza, mi sentivo osservata ma sapevo che non c’era nessuno. Come poteva accadere dopo tutto? Eppure la sensazione non mi lasciava, persisteva e la sentivo scorrere su tutto il corpo ed insinuarsi sotto pelle; chiusi gli occhi e cercai di distogliere la mente da quella sensazione ma l’unica cosa alla quale mi venne da pensare fu quella donna, Costance, e sua figlia Adelaide. Fu uno strano incontro, ma ancor più strane furono le parole di quella ragazza << Non sarai mai felice qui dentro >>. Non riuscivo a togliermele dalla testa, come se fossero un oscuro presagio di ciò che mi avrebbe riservato il futuro; tentavo di non crederci ma qualcosa me lo impediva ed in quel momento la parte più remota della mia razionalità prese in considerazione l’idea che dopotutto quelle parole potevamo essere vere. Un’altra cosa che mi fece rimanere perplessa da quell’incontro fu proprio Costance. Quella donna aveva una strana aura che la circondava. Quel suo modo di guardare, soprattutto quando si era rivolta a me, che mi aveva messa in forte disagio. Era come se stava scavando fino ad arrivare nl profondo, assorbendo ogni dettaglio con quel suo sguardo impenetrabile ed in quel frangente percepii da parte sua come una certa ostilità mista al senso di disprezzo che solitamente si riserva alle persone indesiderate. Non mi mossi più dal letto neanche quando Moira mi venne a cercare per la cena, semplicemente mi scusai dicendo che ero troppo occupata con lo studio e fortunatamente nessuno mi venne più a cercare. Erano le 20:55 e davanti avevo una lunga nottata insonne fino al mattino e non sapendo come mantenermi occupata ripresi i libri scolastici dalla scrivania e stavolta cominciai a studiare sul serio. Passarono sicuramente molte ore e solo quando mia madre venne a bussarmi alla porta per augurarmi la buonanotte mi resi conto che avevo perso la cognizione del tempo:
- Ancora sveglia? –
- Che ore sono? – domandai sospirando mentre chiudevo il libro che avevo in mano.
- Quasi l’una – disse lei entrando e sedendosi di fronte a me.
- Non mi ero resa conto di quanto tempo fosse passato – dissi più rivolta a me stessa che a lei.
- Cosa c’è che non va? – mi chiese mentre poggiava una mano sul mio ginocchio.
- Sono solo stanca – non era una bugia, anzi, era la cosa più vicina alla realtà che le avessi mai detto da nemmeno ricordavo quando.
- È per via della scuola? –
- In parte – evitavo il suo sguardo nonostante lei continuasse a cercarlo; non le avrei permesso di guardarmi dentro, non ancora almeno.
- Ti va di parlarne? –
- No –
- Sicura? – insistette.
- Si, mamma – risposi con un sospiro esasperato – Sono solo stanca e vorrei riposare –
- Come vuoi tesoro, ma per qualsiasi cosa ci sono, ok? -
- Sei ancora poco credibile sai? – mi voltai a guardarla con astio. Davvero pensava che avrei cancellato così facilmente tutti gli anni in cui mi aveva ignorata?
Lei non disse niente e si limitò ad uscire. Mi sdraiai nuovamente mentre un sospiro mi usciva dalle labbra, avrei voluto crederle, davvero, lo desideravo con tutta me stessa ma c’era qualcosa che ancora me lo impediva ed io mi fidavo delle mie sensazioni. Il tempo passò così in fretta che neanche me ne accorsi e all’improvviso mi ritrovai a fissare la luce verde della sveglia per la decima notte di seguito; già erano dieci giorni che non riuscivo a chiudere occhio e mi sentivo veramente uno schifo come se fossi finita sotto un treno due volte. La parte più difficile era che i miei occhi bramavano di chiudersi ma la mia mente li costringeva a restare aperti e nonostante combattessi con tutta me stessa non riuscivo mai a vincere questa sfida. Ben presto la mente cominciò a vagare libera ed io la lasciavo fare e senza neanche rendermene conto all’improvviso mi ritrovai a pensare a lui: Tate. Dannazione, dovevo togliermelo dalla testa una volta per tutte, era sbagliato. Tutto lo era. Il pensare a lui, il solo immaginare il suono della sua voce, il suo volto che infestava i miei pensieri. No. Dovevo smetterla. Dopotutto ero stata io a mandarlo via quel giorno, ma ora come ora non potevo che chiedermi se avessi fatto la cosa giusta; avevo avuto paura di lui quel giorno non potevo negarlo, ma ripensandoci ora dopo giorni e giorni senza vederlo mi fece prendere in considerazione qualcosa alla quale prima non avevo pensato: Tate aveva solo bisogno dell’affetto di qualcuno. Perché avesse scelto proprio me ancora mi rimaneva oscuro, ma questa era una possibile risposta alla sua disperazione quando gli parlai di Ryan, si, doveva trattarsi di questo. Mi dispiaceva per la sua situazione complicata visto che io ne stavo vivendo una abbastanza simile, ma davvero credeva che qualcuno come me, così pessimista, cinica e danneggiata poteva salvarlo? No, non potevo. Continuavo a ripetermelo e ne ero consapevole, forse lo facevo solo per aiutare me stessa a crederci… in fin dei conti era un’opzione probabile. Ora la sveglia puntava le 02:20 ed io, stanca di pensare, mi alzai e come la notte precedente andai alla finestra e cominciai a guardare fuori nel tentativo di distogliere la mente da quei pensieri malsani; osservai il cielo ed anche oggi la luna era là, coperta solo da qualche piccola nube dalla quale filtravano i raggi argentei formando delle piccole scie di luce. Non so come ma in quel preciso istante lo sguardo mi cadde sul giardino della casa, a primo impatto non notai nulla ma poi una strana sensazione mi portò ad abbassare nuovamente lo sguardo e fu proprio in quell’istante che distinsi un ombra vicino l’albero al centro del giardino. Mi irrigidii di colpo sentendo che man a mano la paura si stava impossessando di me, ma nonostante il mio terrore non riuscivo a muovere neanche un muscolo o solo distogliere lo sguardo. Niente. Avevo paura ma ero inchiodata a quella figura come una calamita. Improvvisamente si mosse e ben presto la mia inquietudine si tramutò in una specie di curiosità; l’ombra intanto continuava ad avanzare a passo lento e quando fu sotto i raggi lunari lo riconobbi in un attimo: Tate. Era proprio lì, sotto la mia finestra e guardava verso di me. Era come se lo avessi chiamato, come se in quel momento condividessimo gli stessi pensieri. Scossi la testa e cercai di tornare alla realtà, cercai di ripetermi che era uno sbaglio e che la mente vedeva solo ciò che voleva vedere ma detestavo darmi della stupida da sola. Tate era lì, era reale e dovevo decidere cosa fare. Tornai a guardare verso di lui e notai un piccolo sorriso formarsi sulle sue labbra mentre mi faceva un cenno con la mano; che avrei fatto adesso? Mio padre mi aveva impedito di vederlo e per una settimana avevo mantenuto la promessa, ma adesso che Tate era proprio davanti a me le cose erano decisamente più difficili e di certo non potevo comportarmi da ipocrita fingendo che d’improvviso mi preoccupava infrangere una promessa fatta ai miei genitori solo perché si trattava di lui ed io non sapevo come gestire la cosa:
- Cosa ci fai qui? – gli domandai cercando di non farmi sentire troppo.
- Devo parlarti, per favore fammi salire –
- No, Tate, va a casa –
- Ti prego… -
Non riuscivo a vederlo in faccia ma dal tono che usò per pronunciare quella parola mi fece intuire la sua espressione, sicuramente ora i suoi occhi sarebbero stati colmi di speranza ma anche paura per un eventuale rifiuto e le sue mani sicuramente chiuse a pugno così forte da avere le nocche bianche perché era troppa la tensione e lui non riusciva a reggerla. Mi stupii di quanto lo conoscessi bene e ciò mi condusse a pormi una domanda: Ero anch’io un libro aperto per lui? Da un lato lo speravo, mentre dall’altro ne ero alquanto spaventata perché in quel caso avrebbe voluto dire che non ci sarebbe voluto molto prima che anche lui capisse che in fondo stargli accanto mi piaceva. Lo guardai ancora una volta, poi annuii mentre socchiudevo gli occhi come in segno di abbandono ad un desiderio che andava ben oltre la mia volontà; Tate sorrise e pian piano cominciò ad arrampicarsi sull’albero vicino la mia finestra finché non vidi spuntare la sua figura sul mio davanzale, poi con un piccolo salto entrò nella mia camera:
- Ciao – mi salutò con un piccolo sorriso.
- Ciao… - sussurrai – Allora, cosa volevi dirmi? –
- Volevo scusarmi per quel giorno, so che ti ho spaventata, ti assicuro che non era mia intenzione ma ho avuto paura – gli dispiaceva veramente, potevo sentirlo dal tono della sua voce.
- Paura di cosa? – domandai aggrottando le sopracciglia.
- Di rimanere nuovamente solo – sospirò avvicinandosi – Sei l’unica persona a cui tengo – i suoi occhi si stavano arrossando nuovamente e all’improvviso sentii una morsa al petto; non mi piaceva vederlo così... e poi le sue parole… sapevano sempre dove colpirmi.
- Non ha più importanza – scossi la testa
- Cos’hai? Sei strana… -
Cominciò a guardarmi intensamente nel tentativo di percepire qualcosa, ma io puntualmente evitavo il suo sguardo. In realtà non ne conoscevo il motivo, forse perché avevo paura che vedesse ciò che mi impauriva. Si avvicinò ancora e prese le mie mani tra le sue stringendole con una tale forza che mi trasmise sicurezza, poi, senza che neanche me ne accorgessi, la sua mano mi sfiorò delicatamente una guancia, portandomi a rivolgere il mio sguardo stanco verso di lui:
- Cosa c’è Axel? – sussurrò con dolcezza.
- Nulla… -
- Sono i tuoi incubi non è vero? – mi sorpresi di come aveva capito tutto così in fretta – Continuano a tormentarti – stavolta prese il mio viso con entrambe le mani e con i pollici mi sfiorò delicatamente le guance.
- Non riesco più dormire – alla fine confessai, sentivo il bisogno di parlarne con qualcuno, di parlarne con lui – Sono dieci giorni che non chiudo occhio e mi sento letteralmente a pezzi -
- Non preoccuparti, adesso ci sono io –
- E cosa intendi fare? –
- Aiutarti – sorrise – Non ricordi? Ti avevo promesso di esserci sempre ogni volta che ne avessi avuto bisogno –
Vero. Lo aveva promesso, ma sinceramente non avrei creduto che avrebbe mantenuto la promessa, non dopo tutto quello che era successo. Eppure era qui davanti a me e mi guardava con una dolcezza innata, quasi ingenua, e visto che sapevo che non era qualcosa che solitamente gli apparteneva la reputai una specie di mia esclusiva, un qualcosa tra me e lui solamente. I raggi della luna filtravano attraverso i vetri andando a posarsi sul volto di Tate illuminandolo per metà e facendo risaltare la sua bellezza; come potevo resistergli? Come potevo non cedere a qualcosa di così simile a me eppure così diverso? :
- Non sei qui solo per scusarti vero? – domandai notando qualcosa nei suoi occhi.
- Beccato – rise mostrando le fossette e abbassando lo sguardo verso il pavimento.
- Sapevi che avevo bisogno di te? – sussurrai quasi timorosa della risposta.
- Si – annuì guardandomi dritta negli occhi.
- Come? –
- L’ho sentito – fece spallucce – Percepisco quando hai bisogno di me, è come un impulso che mi scatta dentro; non so come spiegarlo –
- È tutto così… -
- Strano? – terminò lui al mio posto.
- Si… - annuii distogliendo lo sguardo.
- Sdraiati – disse con un cenno della testa mentre ricominciò ad accarezzarmi il volto.
- Tate, no, io… - mi impedì di continuare a parlare poggiando l’indice sulle mie labbra.
- Rimarrò con te –
Annuii e mi lasciai guidare da lui fino al mio letto dove mi sdraiai ancora un po’ riluttante dato che sapevo che non sarebbe cambiato assolutamente nulla, ma come ogni volta c’era quel qualcosa in lui che mi portava sempre a fidarmi ciecamente nonostante avessi i miei dubbi. Una volta che mi fui coricata misi il braccio sinistro dietro la testa e poggiai la mano destra sulla pancia e cominciai a fissare il soffitto; sentivo lo sguardo di Tate su di me, potevo percepire la sua incertezza mista ad un po’ di disperazione… quel ragazzo per me rimaneva per la maggior parte del tempo un incognita della quale avrei voluto scoprire tutte le sfaccettature. Il materasso si incrinò leggermente, segno che si stava avvicinando; il cuore cominciò a battere forte ed improvvisamente la mente si annebbiò con mille e più domande: Cosa sarebbe successo ora? Rilasciai un lungo sospiro che mi accorsi di aver trattenuto fino a quel momento e cercai di rilassarmi ma con Tate che continuava ad avvicinarsi era impossibile. Alla fine si sedette a gambe incrociate accanto a me, sentivo che c’era una certa tensione ma sapevo che non sarebbe passato molto tempo prima che avesse cercato un contatto con me ed infatti pochi minuti dopo cominciò a far scorrere le dita tra i miei capelli provocandomi la pelle d’oca. Ora averlo così vicino mi fece realizzare quanto in realtà mi fosse mancato. Si, lo avevo ammesso. Tate mi era mancato in questi lunghissimi giorni. Per un po’ rimanemmo in silenzio beandoci solo della reciproca compagnia, con lui accanto la notte non mi faceva più paura e gli incubi erano solo un lontano ricordo; ad un tratto sentii la sua mano fredda poggiarsi sul mio addome in cerca della mia finché entrambe si trovarono intrecciandosi in una stretta quasi disperata. Alzai lo sguardo su di lui che era intento a fissare le nostre mani con un leggero sorriso dipinto sul volto, sicuramente era raro vederlo così tranquillo, lo capivo dai suoi occhi ma nonostante mi sforzassi non riuscivo a capire quale fosse la fonte del suo malessere:
- Posso stringerti a me? –
I nostri sguardi si incrociarono ed improvvisamente il suo tornò ad essere serio e, con mio stupore, intriso di paura e preoccupazione. Sembrava così fragile ed indifeso che avrei voluto proteggerlo da tutto quello che lo faceva star male, cancellare la sua sofferenza in modo tale che avrebbe finalmente vinto contro i suoi demoni. Tate attendeva una mia risposta ed ogni secondo in più di silenzio non faceva che aumentare l’oscurità nei suoi occhi e la stretta sulla mia mano si irrigidì; in tutta risposta sorrisi leggermente ed annuii, lui si rilassò visibilmente e ricambiò il sorriso mostrando quelle adorabili fossette. Si sdraiò di fianco a me senza mai abbandonare la mia mano o il mio sguardo; mi sistemai anch’io finché non ci ritrovammo uno di fronte all’altro, poi passò il braccio attorno ai miei fianchi avvicinandomi a lui lasciando tra di noi pochi centimetri di spazio. Sentire il suo respiro fresco sul volto mi provocò dei brividi lungo la schiena che mi fecero capire quanto desiderassi rimanergli così vicina. Ognuno guardava negli occhi dell’altro cercando in quegli specchi frammenti delle nostre anime, pezzi dimenticati del nostro essere più profondo che rimaneva nascosto per la maggior parte del tempo; Tate sorrise con uno sguardo pensieroso, poi si sporse quel poco che bastava per poggiare le labbra sulla mia fronte lasciandoci dei piccoli e delicati baci come per rassicurarmi che lui c’era e ci sarebbe stato sempre. Stavolta fui io a prendere l’iniziativa ed avvicinarmi di più in cerca di un contatto poggiando la fronte contro il suo petto leggermente muscoloso ed ispirando il suo profumo; lo sentii ridacchiare e mi beai di quel dolce suono:
- Mi dispiace di averti mandato via e soprattutto di averti evitato per tutti questi giorni – dissi in un sussurro.
- Non ti preoccupare – rispose dandomi un leggero bacio sulla tempia – Adesso non ci separerà più nessuno, lo prometto –
Quelle parole suonavano strane ma non me ne preoccupai perché tutto ciò di cui avevo bisogno era averlo accanto, in che modo ancora non lo sapevo ma sentivo che presto lo avrei scoperto. Dovevo ammettere che la parte più razionale di me aveva ancora i suoi subbi su questo ragazzo ma in questo istante nulla importava più della sua vicinanza e della sensazione di protezione che mi trasmetteva:
- Mi sei mancato… - alla fine lo ammisi anche ad alta voce nascondendomi nell’incavo del suo collo.
Lo sentii di nuovo sorridere mentre mi stringeva ancora di più a se:
- Anche tu Axel – sussurrò – Non sai quanto… -
Non so quanto rimanemmo in quella posizione, fatto sta che lentamente cominciai a sentirmi sempre più rilassata fino a che la familiare sensazione del sonno che arrivava mi circondò cullandomi dolcemente e prima di cadere tra le braccia di Morfeo alzai il volto verso quello di Tate lasciandogli un bacio vicino la curva delle labbra:
- Grazie… -
- Non ringraziarmi, ora riposa, ci sono io a vegliare su di te –
E con quelle parole e le affusolate dita di Tate che continuavano a giocherellare con le ciocche dei miei capelli lentamente mi abbandonai all’oscura dolcezza del sonno dopo molto tempo. Quando mi svegliai mi sentivo confusa e stordita. I ricordi della notte precedente mi riempivano i pensieri e notando la sua assenza temetti che tutto faceva parte di uno stupidissimo sogno (o incubo) e che lui non c’era mai stato, che non mi aveva stretta a se e che io ancora combattevo contro l’indecisione nel rivederlo. Mi misi a sedere e mi guardai attorno in cerca anche del più piccolo segno che poteva confermarmi la sua presenza lì, passai una mano sulla parte del letto che aveva occupato e… niente. Era fredda. Fredda come il ghiaccio. Fredda come il mio cuore in quel momento. Mentre ero nel pieno di una disperazione mai provata fino ad ora la mano scivolò su qualcosa accanto al mio cuscino che sembrava carta, così afferrai il piccolo foglietto stropicciato e lo lessi:
«Averti così vicina ieri notte è stata la cosa più bella che mi fosse successa dopo molto tempo. Spero di averti convinta che sei l’unica cosa che conta per me»
Sorrisi leggermente al pensiero che era stato tutto reale. Finalmente avevo finito di chiedermi in ogni istante il perché avevo permesso a mio padre di lasciarmi influenzare così tanto dal suo giudizio ed iniziai a godermi quella poca felicità che mi provocava l’avere Tate, anche se, almeno per ora, solo per amico. Guardai fuori e notai che era pomeriggio inoltrato e ciò mi lasciò basita. Per quanto avevo dormito? Decisi di scendere in cucina e trovai mia madre intenta a sistemare la spesa assieme a Moira:
- Ben svegliata tesoro! – sorrise mia madre.
- Quanto ho dormito? – domandai con voce ancora assonnata mentre mi stropicciavo gli occhi stanchi.
- All’incirca quattordici ore –
Sgranai gli occhi dalla sorpresa. Quattordici ore. Non avevo mai dormito così tanto e bene, soprattutto, ed era solo merito di Tate:
- Dovevi essere molto stanca cara – aggiunse Moira.
- Si, erano alcuni giorni che non riuscivo a dormire bene –
- Come ti senti ora? – chiese mia madre.
- Molto meglio, grazie – poi mi guardai attorno notando che mancava qualcosa – Dov’è papà? – domandai aggrottando la fronte perplessa.
- Lo hanno chiamato questa mattina molto presto dal vecchio studio a New York dicendogli che in questi giorni ci sarebbe stato un importante convegno e se voleva partecipare, così è partito subito –
- Perché mi sembri sollevata? – domandai sospettosa mentre mi sedevo su uno degli sgabelli.
- Perché lo sono! – annuì lei – Credo che farà bene ad entrambi stare un po’ di tempo separati –
- Le cose sarebbero molto più facili se ti decidessi a lasciarlo – borbottai.
- Non sempre le cose giuste da fare sono le più semplici – disse guardandomi dritta negli occhi con sguardo serio.
- Se lo dici tu… - sospirai.
- Voglio dargli fiducia stavolta, voglio riprovarci e non solo per te ma anche per me stessa –
- Se sei felice così non dirò altro –
- Dovresti concedergli anche tu una seconda opportunità, ci tiene molto a te –
- Non posso, non ora almeno – distolsi lo sguardo.
- Lui ha bisogno del tuo affetto, Axel –
- Beh, in questo periodo non se lo è di certo guadagnato! – risposi sarcastica.
- Cerca di fare solo ciò che ritiene meglio per te –
-  Per me o per lui? – sospirai pesantemente.
- Ci tiene davvero tanto a te, vedrai presto te ne accorgerai –
- Ma come fai ad avere ancora belle parole da spendere nei suoi confronti dopo ciò che ha fatto? – dissi iniziando ad alzare la voce
- È stato un incidente – scosse la testa lei.
- Incidente? – domandai incredula – È quasi morta una persona a causa sua! Era ubriaco al volante e tu pur di tenerlo con te hai mentito dicendo che aveva lasciato una festa e si stava recando di corsa da un paziente che aveva bisogno di lui! Facendogliela passare liscia con soli pochi mesi di carcere ed una salata cauzione! –
- Tesoro… -
- No, mamma, risparmiamelo, ti prego –
Mi alzai ed uscii dalla cucina. Ciò che aveva fatto mio padre era imperdonabile e mia madre lo aveva difeso a spada tratta nonostante tutto e in più insisteva che un giorno avrei capito il perché. No. Era assurdo e fuori di testa. Mio padre non si meritava una seconda occasione dopo aver rischiato di togliere la vita ad una ragazza innocente. Rimasi seduta in salotto finché Moira non andò via e prima che mia madre mi raggiungesse per la seconda parte della predica “Perdona tuo padre” mi alzai e mi diressi verso le scale, fortunatamente lei non mi seguì perché suonarono alla porta. Salii le scale fino in cima e mentre stavo per entrare nella mia camera sentii un rumore provenire dal piano di sotto così scesi nuovamente e prima che potessi entrare in salotto mi resi conto che il rumore proveniva dal seminterrato, così prendendo un profondo respiro, scesi lì sotto e nell’oscurità comincia a guardarmi attorno. Forse era nuovamente entrata in casa quella ragazza, Adelaide, ma dopo un’accurata ricognizione mi accorsi che non c’era nessuno, così tornai sui miei passi ed entrai nel corridoio davanti la porta d’ingresso; c’era qualcosa di strano, lo sentivo:
- Mamma? – chiamai ma nessuna risposta; nel frattempo mi stavo dirigendo verso il salotto quando sentii un forte rumore, come di qualcosa che si rompeva, provenire dalla cucina – Mamma? Cosa è succes… -
Improvvisamente una mano mi coprì la bocca ed una presa d’acciaio mi circondò entrambi i polsi facendomi sobbalzare dal dolore:
- Lasciami andare! – mugugnai attraverso la mano che mi impediva si parlare.
- Shh piccola, ti consiglio di non fiatare e fare quello che ti diciamo altrimenti puoi immaginare cosa può succedere – mi sussurrò nell’orecchio una profonda voce maschile intrisa dall’odore dell’alcol.
L’uomo mi trascinò di peso verso il salotto dove vidi che c’erano due donne vestite interamente di nero con un’ascia a testa nelle mani, quando entrai ed ebbi la visuale completa notai che c’erano due sedie e ad una di quelle c’era mia madre legata:
- Mamma! – esclamai non appena la vidi.
- Axel, tesoro, vi prego non fatele del male! –
- Sta zitta signora – disse una delle due donne puntandole l’scia alla gola.
L’uomo tolse la mano davanti la mia bocca e mi affidò alla donna bionda che mi legò stretta alla sedia. Una nuova fitta di dolore mi attraversò i polsi e le caviglie ed un paio di lacrime mi scesero giù per le guance. Ed ora cosa ci sarebbe successo? Saremmo morte? :
- Cosa volete da noi! – dissi alzando la voce fuori di me.
- Mi piace la ragazzina, è tosta – disse l’uomo davanti a me guardandomi in modo strano ed in quel momento ebbi paura di ciò che stava pensando.
- Mie care signore avete l’onore di sacrificarvi per compiere un grande gesto! – esultò euforica la ragazza mora.
- Vivete in questa casa ma non sapete tutto al suo riguardo – continuò la bionda – Qui nel 1968 si consumò il duplice omicidio di due infermiere da parte di un vero e proprio maestro e stanotte nell’anniversario dell’accaduto voi due ci aiuterete a riprodurre la scena ma non come in un film, dovete morire realmente! – terminò ridendo.
- Ma voi siete fuori di testa! – disse mia madre cercando di liberarsi senza però ottenere niente.
- Forse – rispose l’uomo – Ma almeno così passeremo alla storia per aver partecipato alle sequela di disgrazie avvenute in questa casa –
- Lasciateci andare, vi daremo dei soldi e non diremo nulla alla polizia! – insistette mia madre.
- Nah grazie – ridacchiò la mora – Preferiamo vedervi sanguinare –
- Bene possiamo iniziare – disse l’uomo – Beth, Lysa preparate la signora e raccogliete qualche oggetto di valore, io intanto mi occupo di questa bella ragazza qui – disse guardandomi con un ghigno.
- Non ti azzardare a toccare mia figlia, bastardo maniaco! –
Cercai di chiamare mia madre ma l’uomo mi coprì nuovamente la bocca con la mano, intanto le due donne e mia madre erano sparite ed io cominciai ad avere veramente paura; quell’uomo mi guardava in modo disgustoso e sperai con tutta me stesse che per la mente non gli stesse passando ciò che pensavo. Ma purtroppo i miei desideri non si realizzarono. Mi sciolse dalle corde e mi fece alzare afferrandomi per entrambe le braccia, cercai di divincolarmi ma era troppo forte, però, nonostante tutto non mi arresi e lo colpii con un calcio nelle parti basse; lui grugnì dal dolore e mi lasciò andare e ne approfittai per correre via e magari raggiungere il telefono e chiamare qualcuno. Purtroppo le mie speranze furono vane e mal riposte visto che l’uomo si riprese quasi subito e mi corse dietro per poi prendermi per i fianchi cercando di tirarmi indietro verso di lui; prontamente mi aggrappai allo stipite della porta cercando di sfuggire alla sua morsa ma fu inutile, con forte strattone riuscì a farmi staccare da dove mi ero aggrappata e mi gettò a terra. Toccai il parquet con un tonfo sordo e sbattei violentemente la testa, mi faceva male dappertutto e non riuscivo a muovermi per il dolore; ben presto l’uomo mi fu addosso, urlai cercando di togliermelo di dosso ma l’unico risultato che ottenni furono un paio di schiaffi che mi lasciarono senza fiato e con le lacrime che scorrevano come un fiume in piena. L’intruso tirò fuori un coltellino dalla tasca della giacca e me lo puntò alla gola, sentivo la fredda lama di metallo sfiorarmi la pelle e tutto ciò che provai in quel momento fu paura e rassegnazione per un destino fuori dal mio controllo:
- Se fai uscire un altro suono da quella bocca giuro che ti taglio la gola e sarebbe un peccato visto che prima preferisco divertirmi con te –
- Ti prego… no.. lasciami… - dissi tra i singhiozzi mentre socchiudevo gli occhi.
- Che ti ho detto piccola? Non devi parlare! Ora ti faccio vedere cosa ottieni a disobbedirmi! – spostò lentamente il coltello dalla mia gola percorrendo con la lama il petto fino al braccio sinistro dove strappò la manica della camicia fino ad affondare l’arma nella carne ed un dolore acuto che non avevo mai sentito prima mi attraversò per intero; lanciai un urlo attutito dalla sua mano che tornò a coprirmi la bocca – Non dire che non ti avevo avvertito tesoro – lo sentii dire con una mezza risata che mi provocò brividi di terrore.
Il dolore che mi attraversava il braccio era indescrivibile, potevo sentire ogni nervo bruciare ed il sangue scorrere fuori dalla ferita fino a formare una piccola pozza che si espanse fino alla mano. Dovevo cercare di reagire o avrebbe fatto di me il suo giocattolo, ma cosa potevo fare quando il dolore e la paura mi avevano immobilizzata a tal punto che trattenni il respiro per qualche secondo? Per cosa lottare visto che ora come ora tutto ciò in cui speravo era che mi uccidesse il più in fretta possibile? Mentre mi stavo lasciando scivolare via l’uomo strappò i bottoni della mia camicia con foga e lacrime silenziose scesero dai miei occhi ormai persi nel vuoto. Era come se fossi finita in uno dei miei incubi e non riuscivo a svegliarmi, ma stavolta non sarei arrivata al mattino seguente, non mi sarei svegliata di colpo urlando, no, stavolta ero sveglia e non c’era alcuna via d’uscita, stavolta sarei stata inghiottita dall’oscurità della morte. Mentre ero confusa ed in balia del mio aggressore ebbi un ultimo piccolo barlume di lucidità che mi spinse a reagire, aprii gli occhi e voltai lentamente la testa e notai che a terra non molto lontano da me c’era un soprammobile che di sicuro era caduto quando cercavo di fuggire; senza farmi notare cercai di raggiungerlo con la punta delle dita mentre lui era impegnato a cercare di togliermi di dosso il resto dei vestiti. Con un ultimo sforzo sfiorai con la punta delle dita l’oggetto e dopo averlo spinto verso di me lo afferrai e facendo leva su quelle poche forze che mi erano rimaste lo colpii forte alla testa. Approfittai di quel breve momento per mettermi in ginocchio e cercare di fuggire via ma quell’uomo era più resistente di quanto pensassi e con un rapido gesto mi afferrò per la caviglia tirandomi verso di se facendomi cadere di nuovo; nel giro di qualche secondo fu ancora una volta sopra di me, mi voltò verso di lui afferrandomi con forza per una spalla e con lo sguardo traboccante di pazzia parlò ancora:
- Allora non vuoi proprio capire eh? La lezione di prima non ti è bastata vero? – rise – Bene, te ne darò un’altra molto volentieri!! – strillò fuori di se.
Con un’espressione malata sul volto sollevò il coltello con entrambe le mani e prima che potessi evitare il colpo lo andò a conficcare nel mio addome provocandomi un’altra ondata di dolore ancora più forte ed intensa della prima portandomi ad urlare ancora di più. Ormai era finita. Avevo provato a fare tutto ciò che potevo per salvarmi ma non era stato abbastanza ed ora era giunto il mio momento; sperai che avrebbero risparmiato mia madre e che magari qualche vicino si fosse accorto delle urla e avesse chiamato la polizia ma qualcosa in me mi diceva di non sperarci più di tanto. L’aggressore continuava a ridere fuori di se mentre io l’unica cosa alla quale pensai in quel momento fu Tate. Al suo viso, ai suoi occhi e alle parole che ci eravamo scambiati la notte scorsa e lo chiamai nella mia testa con tutta me stessa, urlai il suo nome fino a superare il rumore del mondo che mi scivolava tra le dita e sperai con quella poca forza di volontà che mi era rimasta in corpo che in qualche modo mi avrebbe sentita. L’uomo disse qualcos’altro ma giunta a quel punto tutto stava perdendo importanza e non ascoltai, ma mentre stavo per socchiudere gli occhi sentii un grido profondo e roco così li riaprii a fatica e vidi il mio aggressore steso a terra con una grossa pozza di sangue che cominciava a formarsi attorno a lui. Non vidi chi altro c’era nella stanza, la mia vista si stava man a mano annebbiando ma sentii dei passi frettolosi scendere le scale ed altre urla stavolta provenienti da due voci femminili distinte. Volevo lasciarmi andare, scappare dal dolore che mi scorreva per tutto il corpo come una scarica elettrica ma nella nebbia dei miei pensieri vidi chinarsi accanto a me una figura familiare dai capelli biondi e mossi e gli occhi profondi come l’universo: Tate. In quell’istante pensai che ormai avevo lasciato quel mondo pieno di sofferenza e che questo era il paradiso ma il continuo dolore che sentivo mi fece ricredere portandomi a realizzare che lui si trovava veramente lì accanto a me:
- Axel, Axel no!! –
Gridava il mio nome con la voce colma di disperazione ed il volto straziato dal dolore e dalle lacrime, avrei voluto fare qualcosa per consolarlo, per dirgli che sarebbe andato tutto bene ma non ero certa che me la sarei cavata. Tate cercava di premere la sua camicia sulla ferita che avevo sull’addome mentre si guardava attorno pervaso dal panico e cercava di rassicurarmi passandomi una mano sul viso dolcemente e continuando a ripetermi che tutto sarebbe andato per il meglio. Sentii altri passi scendere dalle scale ed avvicinarsi a me, poi vidi la figura scioccata di mia madre accanto a quella di Tate; singhiozzavano entrambi incontrollabilmente ma mia madre era decisa a non perdermi così la vidi afferrare il telefono e comporre dei numeri. Tutto ciò che desideravo in quel momento era scivolare via ma la presa di Tate attorno alla mia mano me lo impediva, come se lui mi stesse tenendo ancorata a quella poca vita che mi rimaneva. Sentivo che tutto quello che mi circondava andava man mano sfumando trasformandosi in suoni ovattati e nebbia che volevano insidiarsi nella mia mente; Tate continuava a chiamarmi, poi sentii la sua fronte poggiarsi sulla mia, aprii lentamente gli occhi e lo vidi piangere disperatamente mentre era scosso da singhiozzi:
- Non lasciarmi, ti prego, Axel, non lasciarmi resta con me, ti prego… ti prego piccola non andartene… -
Continuava a ripetere quelle parole con sempre più disperazione rispetto alla volta precedente e nonostante mi trovassi in bilico tra la vita e la morte stavo male a vederlo soffrire così, avrei voluto poterlo stringere a me, dire qualcosa ma nonostante le forze mi stavano abbandonando ci provai:
- T.. Tate – sussurrai il suo nome.
- Axel! – aprì gli occhi di colpo e mi guardò con una piccola scintilla di speranza negli occhi – Mi dispiace sarei dovuto arrivare prima, perdonami! – disse tra i singhiozzi.
- N… non è colpa tua… - cercai di sorridere ma fallii trasalendo dal dolore – Non… non piangere -
- Oh, Axel perdonami!! – continuò a ripetere mentre mi lasciava dei delicati baci sulla fronte e sulle guance.
- Ok, l’ambulanza sta arrivando – sentii dire a mia madre – Tesoro tieni duro – aggiunse tra i singhiozzi.
La sentii scambiarsi qualche parola con Tate ma non riuscii a percepirle, tutto quello a cui mi ero aggrappata fino a quel momento stava svanendo lasciandomi andare alla deriva; avevo la sensazione di galleggiare sull’acqua ma ero consapevole che lentamente sarei annegata e la sensazione mi piaceva… il dolore mi stava lentamente abbandonando dandomi la pace che cercavo, nulla aveva più importanza, tutto perdeva significato mano a mano che le tenebre mi stavano raggiungendo per portarmi con loro, magari in un posto migliore. Mentre sentivo da molto lontano le sirene dell’ambulanza avvicinarsi alla casa, la presa che avevo attorno alla mano di Tate cedette sembrandomi improvvisamente troppo pesante da mantenere e fu così che con un piccolo gesto la mia mano scivolò via andando a sbattere contro il pavimento in legno. Sentii la voce di Tate urlare dalla disperazione mentre dalle sue labbra uscivano suoni simili a parole ma dove mi stavo recando in quel momento non servivano e così si persero nell’aria. C’erano dei rumori che provenivano da qualche parte nel corridoio e percepii più persone accanto a me mentre continuavo ad essere inghiottita dal livello dell’acqua che lentamente continuava a salire lasciando ancora poco di me a galla; qualcuno mi sollevò da terra e mi poggiò su una superficie più morbida. Altre voci. Altre urla. Passi frettolosi. Sirene. Rumori confusi. Tutto era rallentato. Il tempo si congelò come se quello che stava accadendo non fosse più di sua competenza. Ciò su cui giacevo cominciò a muoversi ma si fermò bruscamente ed una voce forte e chiara fece breccia nel muro d’acqua e disse una sola parola:
- Resisti… -
Era Tate… il suo nome mi riecheggiò nella mente e forse lo sussurrai anche ma tutto si perse quando mi lasciai inghiottire completamente dall’acqua scura.



ANGOLO AUTRICE
Spero vi abbia soddisfatto! Devo dire che è stato un pò difficile scrivere la scena dell'aggressione ma spero che alla fine l'ho resa bene. Che altro aggiungere? Spero di aggiornare presto e mi raccomando fatemi sapere i vostri pareri attraverso le recensioni mi farebbe molto piacere!! Un bacio a tutti 😘😘😘
GiuliaStark

P.s se qualcuno se lo chiedesse la canzone è People are Strange dei Doors 😉
  
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