Con Te Posso Essere Me
Sentiva la loro
presenza.
Sentiva i loro occhi addosso mentre
si faceva strada nel campo.
Qualcuno aveva
paura. Qualcuno la compativa. Qualcuno non riusciva a guardarla per
più di qualche secondo.
Quando incrociò
lo sguardo di Murphy e lui lo distolse dopo qualche attimo, Clarke
capì il senso di ciò che Finn le aveva detto.
"Non
mi guardi più nello stesso modo in cui facevi prima".
Avevano
ragione.
Lei aveva ceduto, non era riuscita a
salvare una di quelle persone che aveva giurato, silenziosamente agli
altri e solennemente a se stessa, di proteggere.
Fosse
stata nei loro panni, nemmeno lei forse avrebbe avuto il coraggio di
guardarsi.
Ma in quel momento, in mezzo ai
suoi compagni, la morte di Finn, il ragazzo che aveva amato, come il
morso di un animale che le divorava la coscienza, condannata persino
dallo sguardo inconsapevole di sua madre, qualcuno la
guardava.
Qualcuno la capiva. Qualcuno
sapeva.
Qualcuno, in quel silenzio pregno di
giudizio e in quell'immobilità ricca di significati, non aveva
paura.
Non la compativa.
Veniva
verso di lei.
Quando percepì la sua
presenza sempre più vicina a sé, alzò le mani,
quasi a volersi proteggere.
Quasi a voler
scomparire.
Ma il sangue che le macchiava
rimaneva lì.
Vivo. Rosso.
Pesante.
Quello che non era riuscita a
fermare, lo stesso sangue che aveva acconsentito a far scorrere.
Ma
Bellamy sapeva.
Essere un leader significa
proteggere la propria gente, ognuno di loro.
Ma
significa fare scelte difficili, incomprese e incomprensibili agli
altri.
Mettere il bene di tutti davanti alla
vita di uno.
Per questo quel sangue non lo
spaventava.
Per questo quelle mani, quelle
braccia erette a debole barriera non potevano fermarlo.
Mentre
l'intero campo tratteneva il fiato come un'unica persona, Bellamy usò
le sue, di mani, le sue, di braccia, per raggiungere la
creatura ferita che era in quel momento la sua co-leader.
Lei
provò a spingerlo via, cercò di evitare il suo sguardo,
di nascondersi da lui. Soprattutto da lui.
Appoggiò
le mani sul suo petto, per tentare di tenerlo a distanza,
sporcandogli la maglietta di rosso.
Ma Bellamy
restò lì. Aspettò, fu paziente, e cercò i
suoi occhi.
Tre, quattro volte lui provò
a raggiungerla, e per tre, quattro volte, Clarke lo respinse.
Al
quinto tentativo, spostò per l'ennesima volta le sue mani, e
lei le lasciò cadere lungo i fianchi, troppo stanca per
continuare quell'inutile lotta.
Allora lui se
la strinse al corpo, e la circondò, così da proteggerla
da tutto quello che aveva intorno.
Dai suoi
amici, perché Bellamy sapeva che in quel momento, avrebbero
potuto distruggerla.
Sentì le sue
lacrime silenziose bagnargli il petto, laddove il sangue di Finn
aveva appena iniziato a seccarsi.
- Mi
dispiace - la sentì sussurrare.
Lui
scosse la testa e le accarezzò piano i capelli.
Clarke
continuò a piangere, e lui, stanco di saperla in mezzo a
quelle persone che avrebbero dovuto sostenerla e invece non facevano
altro che restare a guardare e rimanevano in un accusatorio silenzio,
le passò piano un braccio attorno alle spalle e l'altro sotto
le ginocchia, sollevandola e stringendola a sé.
Lei
si abbandonò tra le sue braccia quasi come una bambola rotta e
quella vista gli spezzò il cuore, oltre a farlo infuriare più
di quanto fosse disposto a sopportare.
Sentirla
scusarsi per averli salvati, anche se a costo della vita di uno di
loro, il solo pensiero che lei credesse di doversi scusare, dopo
quello che era stata appena costretta a fare, gli faceva ribollire il
sangue nelle vene.
Quando persino Octavia, pur
comprendendo la situazione, era rimasta dov'era e anzi, aveva
distolto gli occhi come quasi tutti gli altri, Bellamy aveva provato
un moto di rabbia e vergogna per il comportamento di sua sorella.
Non era mai successo prima. Non era colpa sua, era chiaro e lui
lo sapeva, sapeva di accusarla un pò ingiustamente, ma in quel
momento non riusciva a ragionare, e non voleva farlo.
Poi
fu lui a lanciare uno sguardo a tutti i presenti, e non ci fu davvero
bisogno di parole, perché i suoi occhi dicevano tutto.
Quando
Octavia fece per avvicinarsi a lui, le lanciò un'occhiata che
la fece arrestare sul posto e distogliere il volto.
Si
mosse verso la propria tenda, ma non appena iniziò a lasciarsi
le persone alle spalle, sentì che già qualcuno
cominciava a bisbigliare.
Così, senza
nemmeno prendersi il disturbo di guardarli di nuovo, disse:
-
Se qualcuno di voi ha qualcosa da dire su Clarke, su quello che ha
fatto, o su come vi ha appena salvato la vita, può rivolgersi
direttamente a me, e se scopro che anche solo uno di voi ne ha
parlato alle sue spalle, ne risponderà a me. -
A
quel punto calò il silenzio, tutti i bisbigli cessarono, e non
ripresero.
Ricominciò a camminare,
dirigendosi verso la tenda.
Sentì le
mani di Clarke stringersi attorno al tessuto della sua
maglietta.
Arrivato all'interno, la adagiò
piano sul proprio letto fatto di coperte. Prese un panno e dopo
averlo bagnato le ripulì le mani dal sangue.
Ogni
tanto aveva dei tremiti e il suo corpo sussultava, così, una
volta finito, si sdraiò accanto a lei e dopo averle scostato
qualche ciocca dal viso segnato di lacrime, la tirò di nuovo a
sé.
Con un braccio attorno alla sua
schiena e uno tra i suoi capelli, a Bellamy non interessò di
quello che succedeva fuori, perché lì dentro poteva
ancora proteggerla.
Lei si rilassò
contro il suo corpo, come se la sua presenza le calmasse cuore e
anima.
Affondò inconsapevolmente il
volto nel suo petto, cercando la protezione e il calore di cui a
parole non esprimeva mai il bisogno, proprio come lui.
Pianse,
urlò e si dimenò tra le sue braccia, tormentata da mali
che Bellamy non poteva vedere e combattere per lei. Poi, stremata,
crollò.
E lui c'era. Era lì con
lei, che nel frattempo continuava a tremare, e non l'avrebbe lasciata
sola.
- Sono qui, Clarke. Ci sono io. -
Sistemò il mento sopra la sua testa e
chiuse gli occhi, stringendola più forte.
-
Tranquilla. Ti prometto che nessuno ti farà più del
male. -
E nel buio di quella notte che
scendeva sul campo, mentre la luce di un amico si spegneva, per
riaccendersi in un luogo più lontano, e forse migliore, la
loro si unì per un attimo e brillò più intensa
che mai.
NOTE: Allora, eccomi di nuovo qui a scrivere su The 100 e sulla grandiosa coppia che per me è la Bellarke! Siccome la scorsa volta ho raccontato di un momento felice della loro storia, adesso mi sembrava quasi d'obbligo alternare e scrivere qualcosa di triste, e la visione di "Spacewalker" mi ha aiutata moltissimo, perchè Dio solo sa quante volte ho pianto rivedendomela!
Ho voluto enfatizzare il loro rapporto e la volontà di Bellamy di esserci per Clarke perchè io questo legame tra loro due lo sento fortissimo, e mi piace l'idea di potergli dare una mia interpretazione, senza nulla togliere agli autori che, per quanto mi facciano venire voglia di strangolarli la maggior parte delle volte, devo ammetterlo, sono stati bravissimi e lo sono tutt'ora, non solo per questa ship, ma per tutto lo show, che non è mai stato banale o noioso per un solo episodio.Niente, ringrazio semplicemtente tutti coloro che leggeranno questa storia e quelli che recensiranno (sarà un punto in più per la mia autostima di autrice in ogni caso!) e vi aspetto alla mia prossima fanfic su questa bellissima serie tv!