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Autore: Tabheta    01/02/2015    1 recensioni
[Riku centric, accenni Ri/So/Kai] Dalla storia:
"Per questo stringeva i denti, impugnava il Soul Eater e continuava a falciare nemici, sperando che il tempo avrebbe guarito le ferite ancora aperte e connesso di nuovo i loro cuori."
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Riku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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Note: Una fanfiction dedicata a Riku, non so perché ma la sua psicologia mi interessa molto (sarà perché sono ossessionata dalla psicologia di tutti i personaggi? Ahahah) e mi piace immedesimarmi in lui quando scrivo, perciò eccola qui, pareri e critiche sono sempre graditi, grazie <3
P.S. La fic è ambientata nel periodo di stallo tra Kingdom Hearts Chain Of Memories e Kingdom Hearts II.
 
 
 
 
Ricordava un sogno fatto una volta, quando dormire non significava immergersi nelle tenebre e combattere contro gli Heartless fino al risveglio. Erano sulla spiaggia tutti e tre insieme, a guardare il tramonto. Non c’era bisogno di specificare chi, le uniche figure famigliari che gli apparissero nei sogni erano i suoi amici.
Che tu hai tradito. Nella sua mente la loro immagine si frantumò come un bicchiere contro il muro, tanti piccoli frammenti che gli si conficcavano sotto pelle, invisibili ma altrettanto dolorosi. Sapeva di non poterselo permettere, ma avrebbe voluto rivederli al più presto.
Non rimpiangeva nulla, questo mai, non gli interminabili giorni passati rinchiusi dentro i soffocanti confini dell’isola a sognare di andare via. C’erano riusciti, e questo era sufficiente a cambiare tutto. Lui non era come Sora, lui non si illudeva che se fossero ritornati le cose sarebbero tornate come prima. Erano nati in gabbia, non conoscevano nessun altro modo di esistere, e quando finalmente erano riusciti ad evadere non sarebbero stati capaci di tornare a vivere normalmente in quella prigione chiusa dal mare.
Nel sogno ne sentiva la brezza che lo carezzava benevola, quasi lo stesse prendendo in giro, io sono libera, sembrava volesse dirgli. Lui era appoggiato all’albero di paopù e Sora e Kairi chiacchieravano seduti sul suo tronco ricurvo.
Una delle scene che li aveva accompagnati per tutta l’infanzia e che si ripeteva ogni pomeriggio da quando era arrivata Kairi, da quando aveva capito che il mondo non si limitava a quello spazio minuscolo in cui volevano costringerlo.
Magari se non avesse mai saputo che il mondo non era tutto lì avrebbe vissuto una vita ordinaria e, ignaro di quello che c’era fuori, avrebbe trovato un lavoro, si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli, nipoti e poi sarebbe morto, continuando ad essere preso in giro da quella realtà fittizia.
La sensazione di benessere che gli trasmettevano i due amici era reale però, il sorriso di Sora che illuminava l’isola più della luce del tramonto e Kairi che rideva spensierata. Se non avesse conosciuto Sora probabilmente avrebbe cercato di partire moto prima, per quanto potesse essere insopportabile ed infantile non sarebbe mai riuscito a sopportare quella permanenza forzata senza di lui.
Si era riscoperto felice, di rivivere quei momenti di tranquillità, gli unici che gli facevano davvero pensare che forse il futuro non sarebbe stato così male, ma all’improvviso l’atmosfera cambiò.
Kairi rideva e rideva, e guardava Sora, uno sguardo che le aveva sorpreso a rivolgergli spesso, quando era sicura che Sora non la guardava, ma lui sì, Riku la vedeva benissimo, sempre.
Sora era silenzioso, non ricordava fosse mai stato in silenzio per così tanto tempo, e poi le prese la mano. Riku avvertii distintamente un crack, probabilmente la sua sanità mentale che si spezzava fino a diventare polvere, spazzata via da quella stessa brezza beffarda che li aveva accompagnati fino a quel momento.
Sembrava fosse diventato invisibile, i due non facevano più caso a lui, quando sorridendosi a vicenda si alzarono dall’albero e si allontanarono verso la spiaggia.
Avrebbe voluto urlare, separare con violenza quelle mani unite e ricordargli che c’era anche lui, ma non importava quanto gridasse o provasse a muoversi, era bloccato, le parole non uscivano più dalla sua gola e non poteva fermarli in alcun modo. Era quella la sua punizione, voleva troppo e adesso avrebbe dovuto rinunciare anche a quel poco che aveva. Non c’era più spazio per lui, non c’era più spazio per loro.
L’isola si restringeva davanti ai suoi occhi, case, alberi, sabbia, tutto veniva inghiottito da un nero senza nome.
Attorno a lui cominciava a formarsi una coltre d’oscurità, ma non poteva divincolarsene, non poteva e non voleva, i suoi amici non avevano più bisogno di lui, lui non aveva più bisogno di sé stesso, avrebbe potuto lasciarsi scivolare lentamente nel nulla e nessuno sarebbe andato a riprenderlo.
Si era risvegliato dall’oscurità il giorno dopo, in un bagno di sudore. Quel sogno gli aveva aperto gli occhi, aveva capito quanto fosse fragile la sua condizione di essere umano. Avevano tutti delle debolezze, la sua era la paura di essere lasciato indietro, ma piuttosto che subire impotente li avrebbe preceduti. Non aveva bisogno di nessuno, bastava e avanzava per sé stesso, e l’oscurità avanzava. Quello era il giorno in cui avrebbero finito la zattera.
 
 
Aveva deciso di allontanarsi da Sora appena lo aveva visto dentro al pod. Non solo per cercare informazioni sui loro nemici, ma anche perché aveva trovato quella visione incredibilmente disturbante.
Sembrava uno di quegli omini che stavano dentro le palle di vetro che collezionava sua madre, libero di riposare per sempre, nel sogno infinito di un’ eterna giovinezza. Per un attimo aveva pensato che forse, sarebbe stato meglio se fosse rimasto lì dentro, al sicuro dai pericoli, in un luogo in cui sarebbe stato certo di poterlo trovare sempre.
Aveva scacciato quel pensiero malsano con tutta la sua forza di volontà, concentrandosi sulla figura eterea di Naminé, che accarezzava il pod come se contenesse il suo figlio più caro, sul volto un sorriso rassegnato. Quasi cercasse anche lei di allontanare quella sua stessa malsana visione dalla testa.
Sora. Girava sempre tutto intorno a lui. Era l’unico sole intorno al quale, in quell’universo malato in cui si erano ritrovati, potevano girare, pianeti consumati dall’usura di anni spesi ad attendere, a desiderare di più, nella speranza di cogliere un briciolo di quella luce.
Cercavano di afferrarlo, ma Sora gli sfuggiva dalle mani come sabbia. La stessa sabbia che aveva colorato la loro
infanzia. Quell’infanzia felice che Sora avrebbe voluto ricostruire dopo aver salvato i mondi, ma era invece finito in quella scatola di vetro, incapace di ricostruire persino i suoi stessi ricordi.
 
 
I giorni di caccia erano tutti uguali. La mattina si alzava sempre in un posto diverso, uccideva Heartless e la notte, se aveva la fortuna di addormentarsi, spesso gli incubi lo tenevano sveglio fino al mattino dopo, la passava inquieto a rigirarsi nel sonno. Aveva deciso di cercare informazioni sull’Organizzazione XIII unicamente per il Re. Lui avrebbe preferito agire alla vecchia maniera e annientarne dal primo all’ultimo membro con le sue stesse mani.
In un certo senso era cresciuto, si era reso conto di non potersi affidare sempre solo a sé stesso, c’erano cose troppo grandi anche per lui lì fuori. Quando era stanco di combattere sapeva che quando si sarebbe voltato indietro avrebbe visto il Re al suo fianco. Era una gradevole sensazione di sicurezza quella di sapere che le stesse sensazioni che stava provando lui erano comuni anche a qualcun altro, per questo stringeva i denti, impugnava il Soul Eater e continuava a falciare nemici.
A volte, l’immagine di Sora appariva gli davanti, prendeva vita e combatteva con lui, sorridendogli al termine di una battaglia. Aveva cominciato a bendarsi gli occhi. Aveva paura di non riconoscere più la fantasia dalla realtà, voleva liberarsi di quella visione così piacevole quanto dolorosa. Non voleva che la luce lo scottasse, per questo stringeva i denti, impugnava il Soul Eater e continuava a falciare nemici.
Si chiedeva spesso quanto tempo avrebbe impiegato Naminé per ricostruire i ricordi di Sora, i giorni passavano senza che lui se ne accorgesse lasciandogli la sensazione che tutta la sua vita sarebbe continuata così. Voleva sapere cosa sarebbe successo quando Sora avrebbe ripreso conoscenza e sarebbero tornati sull’isola, se ci fosse stato ancora spazio per lui, in quel piccolissimo mondo, ancora tormentato dall’incubo di Sora e Kairi sempre più lontani e sempre più vicini; se il senso di colpa per quello che aveva fatto sarebbe mai sparito.
Aveva tante domande e poche risposte, per questo stringeva i denti, impugnava il Soul Eater e continuava a falciare nemici, sperando che il tempo avrebbe guarito le ferite ancora aperte e connesso di nuovo i loro cuori.
 
 
  
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