Ciao
a tutti!
Allora, questo è il terzo capitolo ed entriamo un
po’ più nel vivo della storia. Come se la
caverà Artù nel mondo moderno?
Beh, come si suol dire… Non vi resta che leggere! :D
Ringrazio chi ha letto e recensito lo scorso capitolo, spero che anche
questo vi piaccia!
Un abbraccio.
_Pulse_
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3.
The once and future king
Un
fruscio aveva attirato la sua attenzione, svegliandolo dal torpore in
cui era piombato di continuo, durante la notte, ogni volta che provava
ad alzarsi per rendersi conto di quello che stava accadendo intorno a
lui. Aveva infatti la sensazione di essere nel posto sbagliato al
momento sbagliato e voleva capire perché.
Girò il viso verso la sua sinistra e vide la ragazza che lo
aveva soccorso china su un mobile di legno chiaro, che frugava in uno
dei cassetti.
Era vestita in un modo che a lui risultava strano, in quanto i
pantaloni, così particolarmente aderenti poi, e le camicie
non erano indumenti consoni ad una ragazza. I capelli biondi e mossi
erano legati in una coda alta sulla testa, arrotolati in un morbido
chignon, e sul naso portava un paio di grandi occhiali da vista dalla
montatura nera.
Artù si schiarì la gola e la ragazza si
voltò di scatto, regalandogli un sorriso dolce e al contempo
sbarazzino. Dedusse che non poteva avere più di
trent’anni, anche se i tratti del suo viso e i suoi occhi
luminosi la facevano sembrare molto più giovane.
«Ehi», esclamò tenendo un tono di voce
basso, sedendosi sul letto accanto a lui. «Scusami, non
volevo svegliarti. Come ti senti?».
«Bene, credo».
Si puntellò sui gomiti e guardandosi intorno per la prima
volta capì di essere nella camera della ragazza. Il fatto
che l’avesse costretta a rinunciare al suo letto era
l’ultimo punto di una lunga lista di motivi per cui avrebbe
dovuto ringraziarla. Quella ragazza infatti, pur non conoscendolo, si
era tuffata nell’acqua gelata del lago per aiutarlo,
l’aveva portato a casa sua e si era presa cura di lui.
Accodandosi a quei pensieri, le parole sgorgarono dalle sue labbra
senza che potesse fermarle: «Non so nemmeno il tuo
nome».
«Già, ieri non abbiamo proprio avuto tempo per i
convenevoli, eh?». Gli porse una mano, sorridendo:
«Alexandra Greenwood».
Artù gliela strinse delicatamente e la fissò per
il tempo necessario ad intuire che una mano morbida e curata come la
sua non era abituata ai lavori manuali e che, quindi, Alexandra doveva
avere per forza sangue nobile nelle vene. Se la portò alle
labbra, chinando un poco la testa.
«Il mio nome è Artù Pendragon, re di
Camelot, e vi sarò eternamente debitore per tutto quello che
avete fatto per me, Lady Alexandra».
Alex, con gli occhi sbarrati per l’incredulità, ci
impiegò qualche secondo per ritrovare la propria espressione
gioviale ed affabile. Ridacchiò e si alzò in
piedi per sollevarsi i lembi della camicetta e rivolgergli un mezzo
inchino: «My lord,
offrirmi un bel boccale di birra basterà a
sdebitarvi».
Artù corrugò la fronte, preso in contropiede e
vagamente insospettito dal tono scherzoso con cui si era rivolta a lui.
Avrebbe sicuramente chiesto spiegazioni se Lady Alexandra non si fosse
nuovamente girata verso il cassettone, riprendendo la propria ricerca
da dove l’aveva interrotta.
Solo in quel momento, udendo gli uccellini cinguettare fuori dalla
finestra, si rese conto del silenzio che regnava nella casa della
ragazza. Sbuffò, sentendosi tanto infastidito quanto
allarmato, e le chiese: «Sai dov’è
Merlino?».
«È andato a recuperarti dei vestiti puliti,
dovrebbe tornare a momenti».
«E vi ha lasciata qui da sola, con un perfetto
sconosciuto?».
La ragazza lanciò un urletto di trionfo ed agitò
tra le mani uno strano oggetto che brillò alla luce del
sole, tanto che Artù credette per un attimo che si trattasse
di un pugnale, rimpiangendo di non avere il proprio a portata di mano
per difendersi. Guardandolo meglio, capì che aveva ben poco
in comune con qualsiasi arma che lui avesse mai visto, ma questo non lo
tranquillizzò, anzi, lo mise in allerta.
Lady Alexandra posò gli occhi verdi luminosi su di lui,
portandosi le mani sui fianchi. «Smettila di essere
così formale e dammi del tu, per favore. Puoi anche
chiamarmi semplicemente Alex, lo fanno tutti. Comunque conosco Merlino
e mi fido di lui: non mi avrebbe mai lasciata da sola con uno
sconosciuto qualunque».
«Che cosa intendete dire, con questo?», le chiese,
accigliato e, al contrario di lei, per nulla abituato a dare del tu a
qualcuno che aveva appena conosciuto.
«Intendo dire che non ho mai visto Merlino così
preoccupato. Tiene davvero molto a te, è palese,
perciò non puoi che essere un suo carissimo amico, uno senza
il quale non riuscirebbe a stare nemmeno per un giorno».
A disagio a causa del terreno su cui quella conversazione li aveva
portati, Artù rimase in silenzio e spaziò ancora
con lo sguardo, soffermandosi sui particolari oggetti che ornavano le
pareti e i mobili della stanza: una collezione di piccole sfere di
cristallo in cui erano stati riprodotti paesaggi imbiancati dalla neve;
stranissime boccette con dentro liquidi densi e dai colori
più sgargianti, altre di ogni forma e dimensione che
sembravano contenere acqua; un insignificante dipinto, completamente
nero, sorretto da un cavalletto così sottile da sfidare le
leggi della fisica; degli animali impagliati, tra cui un cagnolino
davvero minuscolo e un altrettanto piccolo cucciolo d’orso,
che da sopra l’armadio lo fissavano immob–
«Ah!», urlò all’improvviso,
facendo spaventare la ragazza che aveva iniziato a pettinarsi i capelli
di fronte allo specchio.
«Che c’è?», chiese, gli occhi
leggermente sgranati.
«C’è qualcosa che si muove
lassù! Lo vedete?».
Lady Alexandra si alzò sulle punte e scoppiò a
ridere prima di prendere una sedia e di accostarla
all’armadio.
«Non vi preoccupate, my lord,
è solo Artù!», esclamò
divertita, allungando le mani per afferrare un piccolo gattino nero e
portarselo al petto teneramente. «Ieri sera deve essersi
spaventato a causa di tutto il trambusto che abbiamo fatto e deve
essersi rifugiato quassù, senza più sapere come
fare a scendere. È ancora piccolo, sai».
Artù, col naso arricciato e la fronte aggrottata,
evitò di chiedere perché tenesse in casa un
animale che non aveva alcuna utilità in assenza di topi da
stanare, pensando che magari sarebbe stato offensivo, e
preferì concentrarsi su un’altra questione, ben
più strana: «Perché il vostro gatto si
chiama come me?».
La ragazza smise di accarezzare il pelo del micio e di sussurrargli
dolci parole nelle orecchie per poter fissare lui, mentre il viso le
diventava sempre più rosso.
«È un nome come un altro»,
tagliò corto, chinandosi per lasciare che
l’animale zampettasse agilmente fuori dalla stanza.
Artù tornò a fare ciò che stava
facendo prima che quel tenero micino lo spaventasse; tornò a
guardarsi intorno, sempre più stranito.
Sullo scrittoio addossato alla parete, vicino alla porta,
c’era uno strano oggetto allungato, con una base
d’appoggio e una mezza sfera rivolta verso il ripiano
ricoperto di libri ed altri oggetti che non riuscì a
riconoscere, tra cui una specie di sottile vassoio nero opaco e senza
manici.
Tutto in quella stanza, fatta eccezione per il letto, i mobili e i
libri ordinati sugli scaffali, gli sembrava strano e senza uno scopo
ben preciso, ma non si azzardava ad ammetterlo ad alta voce, dicendosi
che probabilmente erano accessori con cui non aveva
familiarità perché quella ragazza doveva
appartenere ad una famiglia nobile straniera, i cui usi e costumi si
differenziavano da quelli a cui era abituato a Camelot.
Non poté più stare in silenzio, però,
quando i suoi occhi si posarono sulla parete accanto allo scrittoio, su
cui era appesa una cornice con all’interno tanti piccoli
ritratti che non potevano essere altro che opera di stregoneria: tante
persone, tra cui molti bambini senza capelli, sorridenti oppure colte
di sorpresa, erano intrappolate in quei ritratti, bloccate
nell’attimo in cui la magia li aveva colpiti,
chissà quanto tempo prima e per quale scopo malvagio.
«Ehi, qualcosa non va?», gli chiese
all’improvviso Lady Alexandra, guardandolo col naso
arricciato in un modo che avrebbe trovato grazioso se non avesse appena
realizzato di trovarsi nel covo di una strega.
Era evidente ora perché tutto ciò che lo
circondava non avesse senso: erano tutti strumenti magici, a lui
sconosciuti. Anche l’oggetto che teneva tra le mani, quella
specie di pinza gigante con l’esterno color della pece e
l’interno argentato, doveva essere un’arma magica e
potente, dato l’affanno con cui l’aveva cercata.
Forse l’aveva riconosciuto, in mezzo all’acqua del
lago, e l’aveva salvato nella speranza di ottenere la sua
fiducia e quella di Merlino, per poi...
Merlino,
pensò atterrito. Lady Alexandra gli aveva detto che era
andato a prendergli dei vestiti puliti, ma come scusa non valeva un
granché: la sera prima il suo servo gli aveva promesso che
non si sarebbe allontanato e poi perché mai avrebbe dovuto
aver bisogno di vestiti puliti? Bastava aspettare che la sua tunica e i
suoi pantaloni si asciugassero e poi sarebbero tornati a Camelot.
In qualche modo Lady Alexandra doveva averlo messo fuori combattimento
per stare da sola con lui e portare a termine il suo piano. Ma
Artù non gliel’avrebbe permesso, no, e avrebbe
ritrovato Merlino, ad ogni costo.
«Artù?», lo chiamò ancora,
preoccupata, e il re di Camelot le rivolse un pallido sorriso.
«Scusatemi, ma avrei proprio bisogno di mettere qualcosa
sotto i denti: sto morendo di fame».
La ragazza sorrise imbarazzata. «Scusami, avrei dovuto
pensarci prima. Ti porto subito qualcosa».
Quando uscì dalla stanza, lasciando la propria arma sul
mobile, Artù si alzò in piedi, nonostante il
giramento di testa dovuto dal protratto digiuno, ed iniziò a
cercare la propria armatura, sperando che quella strega non fosse stata
tanto astuta da nasconderla da qualche parte.
Sogghignò vittorioso quando trovò tutti i suoi
pochi averi abbandonati sul pavimento in fondo al letto. I vestiti
erano ancora umidi – quello stolto di Merlino non li aveva
stesi ad asciugare – ma li indossò comunque:
sempre meglio che affrontare una strega nudo. Non aveva tempo per
l’armatura e detto in tutta onestà non
l’avrebbe di certo protetto dalla magia, perciò si
accontentò della sola cotta di maglia sopra la casacca
imbottita, dei pantaloni e degli stivali. Quindi estrasse il pugnale
dalla cintura e si appiattì contro la parete per sbirciare
giù dalle scale.
Stava per avanzare, cauto, quando si ricordò
dell’arma che Lady Alexandra aveva lasciato sul cassettone.
La osservò da lontano per qualche istante, poi la
toccò con la punta del pugnale e quando intuì che
era innocua nelle mani di persone non dotate di poteri magici si
azzardò ad impugnarla e a spezzarla usando una gamba come
appoggio.
Soddisfatto, lanciò sul letto i due pezzi della pinza magica
e si preparò a combattere quella strega che se non altro
aveva avuto il buon cuore di offrirgli l’ultima colazione
della sua vita.
***
Sentì
un forte schiocco, simile a quello che avrebbe fatto una tavoletta di
cioccolato se rotta a metà, e con la testa rivolta verso la
scalinata rimase in ascolto. Non sentendo più nulla
d’insolito, tornò a concentrarsi sulla colazione
di Artù, canticchiando e ripensando a quella mattina.
Il cielo fuori dalla finestra si era appena tinto
di rosa e Alex, stropicciandosi gli occhi, capì che
nonostante la stanchezza non sarebbe riuscita a dormire ancora, non con
tutte le domande che, da lei abbandonate prima di addormentarsi, erano
tornate a frullarle nella mente.
Le sue narici vennero subito stuzzicate dal profumo del
caffè appena fatto, un aroma che fu in grado di farla alzare
in quattro e quattr’otto e di guidarla fino in cucina, dove
trovò Merlino intento a spalmare un po’ di
marmellata su una fetta biscottata già ricoperta di burro.
«Ben svegliata», la salutò,
sorridendole. «Fame?».
«Moltissima».
Merlino annuì, per nulla sorpreso. Si voltò verso
il ripiano della cucina e le mise di fronte al naso un piatto di
pancakes ancora caldi, con un aspetto ed un profumo da far venire
l’acquolina in bocca.
«Avanti, dillo», la incalzò, sorridendo
con uno scintillio di furbizia negli occhi.
Alex lo guardò e preoccupata si chiese se fosse
così evidente il suo crescente stato di adorazione nei
confronti di Merlino. Non solo era un ragazzo dolce, con la testa sulle
spalle e di buon cuore, ma sapeva anche cucinare! Era decisamente
l’uomo della sua vita.
«So che cosa stai pensando».
«Davvero?», squittì, strozzandosi con la
sua stessa saliva.
«Sì, che sono pieno di talenti nascosti. Beh,
è così». Le fece l’occhiolino
e prima di voltarsi verso la caffettiera le disse:
«Assaggiali e dammi la tua onesta opinione. Sono secoli che
non cucino per il re e…».
Alex corrugò la fronte, con la forchetta sollevata a
mezz’aria. «Per il re?»,
ripeté, scandendo bene le parole.
Merlino, con le spalle rigide e gli occhi fissi
sui fornelli, impiegò qualche secondo a rispondere,
sorridendo nervosamente.
«Scusa, forza dell’abitudine. Artù non
fa altro che parlare di Cavalieri della Tavola Rotonda, duelli
all’ultimo sangue, missioni e
quant’altro… Ha una specie di disturbo della
personalità e spesso è convinto di essere il re
di Camelot. E io lo assecondo, per farlo contento. Mi considera il suo
valletto».
Alex abbandonò la forchetta nel piatto, senza curarsi dei
brontolii di protesta che si innalzarono dal suo stomaco, e si strinse
le braccia al petto, in un inconscio meccanismo di difesa.
«Ma tranquilla, non farebbe male ad una mosca!», si
affrettò a dire il ragazzo, cercando di rendere meno tragica
la situazione in cui si trovava Artù. Alex però
non prestò attenzione ai suoi sforzi, troppo concentrata a
mettere al loro posto i vari pezzi del puzzle.
Le nebbie si stavano lentamente diradando, ma era sicura che Merlino le
stesse dicendo solo lo stretto necessario, e avrebbe voluto almeno
saperne il motivo.
«È per questo che ieri si trovava nel
lago?», gli chiese, gettandogli un’occhiata
penetrante. «Pensava di dover abbattere un mostro marino, di
recuperare il Graal o chissà
cos’altro?».
Lo sguardo di Merlino si fece improvvisamente cupo e con voce atona
rispose: «Una cosa del genere, sì».
«Sembra un tipo piuttosto incasinato».
Accennò un sorriso, quasi divertito, annuendo prima di
tornare a darle le spalle.
L’immagine di Artù che emergeva dalle acque del
lago si ripeteva in loop nella sua mente, ormai sempre più
sfocata e distorta da ciò che le suggeriva la logica. Non
poteva essere davvero emerso
e basta, come se fosse sempre stato sul fondo del lago, in attesa di
chissà che cosa. Ma qualcosa – qualcosa di
potente, anche – le diceva che doveva credere a
ciò che i suoi occhi avevano visto.
Per questo si prese il volto tra le mani e,
puntando lo sguardo su Merlino per non perdersi nemmeno un dettaglio
della sua reazione, esclamò: «Non ti ho mai
sentito parlare di lui. Sembra quasi sbucato fuori dal nulla,
all’improvviso».
Il ragazzo si irrigidì ancora una volta ed iniziò
a balbettare: «Oh no, lui… fino a poco tempo
fa…». Si passò anche una mano sul viso,
come per cercare di frenare l’emozione, e Alex
sobbalzò sulla sedia, colpita all’improvviso da
un’idea che le fece portare entrambe le mani sulla bocca,
tremendamente dispiaciuta.
«È stato in un ospedale psichiatrico, non
è così? Perdonami Merlino, non avrei
dovuto… Sono stata indelicata».
«Non c’è problema», rispose il
ragazzo, accennando un sorriso mesto e quasi sollevato.
Alex decise di non fargli più domande: ne aveva poste fin
troppe e tirando le somme tutto ciò che aveva fatto era
stato riaprire vecchie ferite sul cuore di Merlino.
Finalmente il ragazzo la raggiunse al tavolo, sedendosi al suo fianco
dopo averle consegnato la sua tazza di caffè fumante, e le
rivolse un lieve sorriso.
Mangiarono in silenzio, sentendo entrambi il peso della tensione sulle
loro spalle, e dopo quella che le era sembrata
un’eternità fu Merlino ad aprire bocca, tirando
fuori dalla tasca davanti della felpa il suo mp3 e posandolo di fronte
a lei.
«L’ho trovato sulla strada davanti al lago. Se non
l’avessi perso, non avrei mai capito che Artù si
trovava con te».
In effetti Alex si era più volte chiesta come avesse fatto
Merlino a rintracciare l’amico così in fretta. Il
suo mp3, che aveva lasciato cadere a terra quando aveva deciso di
tuffarsi, era stato un indizio chiave, ma i conti non le tornavano
ancora.
«E come sapevi che Artù si sarebbe cacciato nei
guai al lago?».
«Io… Mi ha lasciato un biglietto, voleva che lo
raggiungessi per una delle sue avventure».
«Carino da parte sua».
«Molto».
I loro sguardi si incrociarono ed entrambi scoppiarono in una leggera
risata, mentre il caffè e i pancakes si raffreddavano
davanti a loro.
Prima di uscire le aveva raccomandato di tenerlo d’occhio e
di dargli corda nel caso avesse iniziato a blaterare a proposito del
suo regno, di sua moglie la regina oppure dei suoi cavalieri, e lei
l’aveva rassicurato, rispondendogli che se la sarebbe cavata
fino al suo ritorno. Poi era successo l’imprevedibile:
Merlino le aveva preso il volto tra le mani e l’aveva
attirata a sé per posarle un bacio sulla fronte,
sussurrandole l’ennesimo «Grazie».
Alex non aveva risposto, si era limitata a guardarlo andare via e
successivamente a fissare la porta, in trance. Quando era riuscita a
metabolizzare il fatto che Merlino l’avesse baciata
– non importava dove, né come: l’aveva
fatto! – era corsa in bagno per darsi una sistemata prima che
tornasse, vergognandosi profondamente di come si era lasciata vedere da
lui: i capelli gonfi e spettinati sulla testa, gli occhi piccoli dietro
gli occhiali e la maglietta sformata che metteva ben poco in risalto i
suoi punti forti.
Così si era cambiata, mettendo una camicetta carina e un
paio di jeans attillati, e si era intrufolata nella sua stanza, in
punta di piedi, per recuperare la piastra per capelli. Era stato allora
che aveva fatto l’ufficiale conoscenza di Artù, il
ragazzo del lago che si era dimostrato tanto incasinato come aveva
immaginato.
Come previsto si era presentato come il re di Camelot, poi aveva
utilizzato i termini e le formalità che avrebbero
contraddistinto un vero e proprio cavaliere del Medioevo, dandole del
voi e appellandola persino Lady Alexandra.
Lei aveva seguito il consiglio di Merlino e gli aveva retto il gioco,
scoprendo che Artù, mettendo da parte quel suo piccolo
disturbo di personalità, non era niente male come tipo.
Ovviamente era un bel ragazzo, con quei capelli color del grano, quegli
occhi blu come il mare e quelle spalle possenti, ma era una bellezza
del tutto diversa da quella di Merlino, anche se sospettava che avesse
anche lui le sue buone qualità.
Forse era solo davvero una questione di abitudine e presto anche lei,
come Merlino, non ci avrebbe più fatto caso, permettendole
di apprezzarlo appieno e chissà, forse diventargli anche
amica.
Pensava a tutto questo, mentre preparava un vassoio con la colazione
del re e non vedeva l’ora che Merlino
tornasse per raccontargli quant’era stato facile e
sorprendentemente divertente chiacchierare con Artù.
Alex avvertì all’improvviso una sgradevole
sensazione, come se qualcuno alle sue spalle la stesse osservando, e
smise di canticchiare. Cercò di tranquillizzarsi, dicendosi
che probabilmente era solo Artù che aveva deciso di
sgranchirsi un po’ le gambe e aveva dimenticato di
annunciarsi.
Accennò un sorriso e fece per girarsi, ma un braccio
muscoloso e con una stretta d’acciaio si strinse intorno al
suo addome e un corpo altrettanto ben piazzato, premuto contro la sua
schiena, la immobilizzò contro il lavello della cucina,
togliendole per un attimo il fiato.
Smise del tutto di respirare – e di sua spontanea
volontà – quando sentì la lama fredda
di un coltello ad un soffio dalla pelle del suo collo e il respiro
caldo di Artù sull’orecchio destro.
«Dimmi che cosa ne hai fatto di Merlino, strega, e forse ti
risparmierò la vita».
Alex sentì la paura crescere dentro di lei, ma in qualche
modo riuscì a metterla da parte e, appellandosi a tutto il
coraggio che aveva in corpo, disse con voce rassicurante:
«Artù, va tutto bene. Merlino sta per
tornare».
«Non ti conviene mentirmi, Alexandra».
«Te lo giuro, non ti sto mentendo. È andato a
prenderti dei vestiti nuovi, sarà già di ritorno
a quest’ora…».
La lama si avvicinò pericolosamente al suo collo e Alex si
concesse un respiro profondo, chiudendo gli occhi.
«Non hai scampo», disse ancora Artù, in
modo quasi dolce, caritatevole. «Non è mia
intenzione farti del male, nonostante tu sia una strega,
perciò non costrin–».
«Io sarei una strega? D’accordo,
ma tu sei proprio un imbecille!»,
urlò, ora davvero incazzata.
Se doveva morire okay, sarebbe morta, ma non senza prima aver provato a
combattere. Non dandogli il tempo di prevedere le sue mosse
gettò la testa all’indietro, colpendolo tanto
forte sul naso da fargli mollare la presa, con gli occhi sbarrati per
la sorpresa.
Alex non sprecò un attimo del proprio vantaggio ed
afferrò per il manico la padella con cui Merlin aveva cotto
i pancakes, poi gli corse incontro e gliela sbatté in testa,
mandandolo al tappeto.
La ragazza lo osservò, riverso in maniera scomposta sul
pavimento, senza realizzare appieno ciò che aveva fatto e
come si sarebbe dovuta comportare quando si sarebbe svegliato. Se
si sarebbe svegliato.
Per scrupolo e deformazione professionale si chinò
cautamente su di lui, tenendo ancora ben stretta la padella, per
sentirgli il battito con due dita premute sul suo collo. In quel
momento la porta di casa si aprì di colpo, mostrando un
Merlino affannato e con gli occhi fuori dalle orbite, e Alex
trasalì per lo spavento.
«Ho sentito urlare, cosa…?»,
iniziò a dire, ma la voce gli morì in gola quando
il suo sguardo, attraversato da un lampo di terrore, si posò
sul corpo immobile di Artù e sul pugnale che teneva ancora
stretto nella mano destra.
Merlino lasciò cadere a terra lo zaino che portava sulle
spalle e lo raggiunse di corsa, inginocchiandosi sul pavimento e
tastandogli furiosamente il polso e la carotide, con
l’orecchio ad un soffio dalle sue labbra.
«È solo svenuto», spiegò
Alex.
Merlino alzò di scatto gli occhi su di lei e la
guardò in attesa di altre spiegazioni, fino a quando non si
accorse della padella che impugnava.
«Non l’avrai colpito con quella, spero»,
esclamò, più che sconvolto.
Alex si mordicchiò le labbra, gli occhi fissi in quelli
azzurrissimi di Merlino, capaci di farla sentire terribilmente in
colpa. Ma le bastò scorgere di nuovo il pugnale con cui
Artù le aveva quasi tagliato la gola perché la
tensione e la rabbia tornassero a circolarle nelle vene,
così dirompenti che ebbe voglia sia di piangere che di
urlare.
All’ultimo momento la rabbia prevalse sulla paura che aveva
provato e lanciandogli un’occhiata truce urlò:
«Non ho avuto scelta! Il tuo amico qui non è
semplicemente incasinato, è un fottuto
psicopatico! Credeva fossi una strega e stava per sgozzarmi, che
cos’altro avrei potuto fare?!».
Il ragazzo boccheggiò come un pesce fuor d’acqua,
guardando lei e poi Artù, incapace di formulare una frase di
senso compiuto.
Ad un tratto Alex si stufò di star lì ad
aspettare che dicesse qualcosa e si sbatté le mani sulle
gambe, sospirando con rassegnazione: «Cambialo, lo portiamo
in ospedale per accertamenti. L’ho colpito forte, potrebbe
avere un trauma cranico».
Merlino si limitò ad annuire e la seguì con lo
sguardo mentre si avviava verso il piano superiore.
***
Sapeva
che Artù avrebbe potuto dare di matto non appena fosse
entrato in contatto con il mondo moderno, non poteva essere
diversamente, ma mai avrebbe potuto immaginare uno scenario peggiore di
quello.
Mentre si dirigevano verso l’ospedale, Alex, al volante della
sua piccola utilitaria, gli spiegò nei minimi dettagli tutto
quello che era successo nel breve lasso di tempo che aveva impiegato ad
andare a casa per prendere un po’ di vestiti per
Artù e tornare indietro.
Alla fine del suo racconto, Merlino si sentì malissimo: non
solo perché non si sarebbe mai perdonato se fosse successo
qualcosa ad Alex a causa di una sua imprudenza, ma anche e soprattutto
perché realizzò che era stata tutta fatica
sprecata.
Aveva speso un’eternità attendendo il ritorno di
Artù, pianificando ogni cosa per il grande giorno: il modo
in cui gli avrebbe spiegato la situazione, come l’avrebbe
introdotto alle novità dell’epoca in cui sarebbe
risorto, alla storia che gli avrebbe fatto imparare per mantenere
nascosta la propria identità e mille altri particolari.
Ciononostante, in quei due giorni niente era
andato come si aspettava, partendo dal fatto che era stata Alex a
ripescare il re del passato e del presente dal lago di Avalon e non
lui.
Da quando il suo cammino aveva incrociato di nuovo quello di
Artù non aveva fatto altro che improvvisare e
così avrebbe continuato a fare, visto che ogni suo programma
era stato stravolto, lasciandolo impreparato e senza la più
pallida idea di come comportarsi.
Quando finalmente raggiunsero il pronto soccorso, davanti al quale le
infermiere e i dottori in pausa bevevano il caffè e fumavano
godendosi il sole e un’ambulanza a sirene spente marciava
lentamente verso il parcheggio, Merlino iniziò a temere che
quella fosse stata l’ennesima cattiva idea.
Che cosa sarebbe successo se Artù si fosse svegliato
accerchiato da uomini e donne con strani camici bianchi e azzurri, con
in mano strani strumenti e ai comandi di attrezzature il cui scopo ed
utilizzo sarebbe sempre rimasto un mistero inspiegabile ai suoi occhi
abituati ad un passato così… passato?
Sarebbe stato un miracolo se fosse andato in panico, ma conosceva bene
Artù e rimanere paralizzato dalla paura non era nel suo
stile: avrebbe combattuto, come faceva sempre, e nel caso in cui non
fosse riuscito a fronteggiare tutti i suoi avversari sarebbe fuggito,
pensando sicuramente ad un complotto per uccidere il re di Camelot.
«Merlino, per l’amor del cielo, esci
dall’auto».
Alex lo fissava piuttosto irritata, con le mani sui fianchi e gli occhi
stretti dietro gli occhiali. Lui stiracchiò un sorriso,
stringendosi nelle spalle.
«Sono sicuro che non l’hai colpito così
forte. Insomma, come avresti potuto?».
«Stai dicendo che sono una pappamolle?».
Merlino aprì la bocca per replicare, frettolosamente, che
non era assolutamente quello che voleva dire, ma Alex gli
puntò minacciosamente un dito contro.
«Stai zitto, Merlino. Altrimenti il prossimo ad essere messo
K.O. con una padella, appena ne avrò una in mano, sarai
tu».
Il mago annuì mestamente, abbassando gli occhi sul viso
inespressivo di Artù, rannicchiato sui sedili posteriori e
con la testa sulle sue gambe.
Non poteva permettere che Artù reagisse ancora in modo
sconsiderato, rischiando di fare del male a persone innocenti.
Non sapeva come avrebbe fatto né come lui
l’avrebbe presa, ma meritava di conoscere la
verità, o almeno di sapere quel tanto che bastava a non
farlo apparire un vero e proprio psicopatico agli occhi di tutti.
«Scusami, hai perfettamente ragione: dev’essere
visitato», disse, facendo sospirare Alex di sollievo.
«Finalmente hai rimesso in moto il cervello».
Merlino ignorò il suo ultimo commento ed indicò
con un cenno del capo un paio dei suoi colleghi, appena usciti dalle
porte scorrevoli per prendere un po’ d’aria.
«Perché non vai a chiedere una barella? Non
possiamo trasportarlo ancora».
«Giusto, rischieremmo di fare altri danni. E poi sta
diventando una specie di abitudine, trasportarlo di qua e di
là mentre è privo di conoscenza»,
esclamò, rivolgendogli il sorriso sincero e sbarazzino che
di solito le incurvava le labbra, il primo dopo lo spiacevole e quasi
tragico episodio di quella mattina. Per Merlino fu un vero sollievo
vederlo di nuovo, perché stava a significare che aveva
qualche speranza di poter essere perdonato, col tempo.
Alex si allontanò e lo stregone aspettò qualche
secondo, poi balzò fuori dall’auto e si avvolse un
braccio di Artù intorno al collo per far uscire anche lui
dall’abitacolo. Il re mugugnò lamentosamente e
Merlino lo insultò, incitandolo a svegliarsi: non sarebbe
mai riuscito a trascinarlo a peso morto e di certo non poteva farlo
volteggiare al suo fianco, non con tutti quegli occhi addosso.
«Merlino…».
«Artù, dovete camminare. Vi guido io».
Il sovrano si fece forza ed iniziò a muovere le gambe
lentamente, lasciando che Merlino lo portasse via, ma non
alzò mai la testa, ciondolante sul petto, per vedere dove
stessero andando.
Merlino lo condusse nel parchetto di fronte al pronto soccorso e non
appena vide la grossa quercia che offriva ombra e quiete a
volontà, lontana dagli scivoli e dalle altalene,
pensò che avrebbe concesso loro un po’ di tempo.
Forse non tutto quello che avrebbe voluto, ma quello necessario a
convincere il suo re che doveva fidarsi di lui ancora una volta.
Appoggiò Artù contro l’imponente tronco
della quercia e lo fece sedere con delicatezza, per poi inginocchiarsi
al suo fianco e prendergli il volto tra le mani.
«Artù. Artù, dovete ascoltarmi
attentamente».
«È un ordine, Merlino?», gli chiese
debolmente, faticando a tenere gli occhi aperti.
«Sì, Sire, è un ordine».
«Tu non puoi…».
«Ascoltatemi e basta, testa di legno».
Artù racimolò tutte le proprie energie e
riuscì a tenere gli occhi blu aperti, fissi in quelli del
suo servitore. Merlino deglutì, rendendosi conto che
Artù l’aveva guardato in modo così
sincero ed aperto solo nei momenti più cruciali, tra cui
proprio ad un passo dalla morte. Quel ricordo straziante
tornò a bruciargli nella mente e nel cuore, ma si fece
coraggio con un respiro profondo ed iniziò a raccontare.
«Voi siete stato ferito mortalmente da Mordred durante la
battaglia di Camlann, nell’anno 537 del VI secolo.
Anch’io ho combattuto, utilizzando la magia, ma non sono
riuscito a proteggervi. Ho fatto del mio meglio per salvarvi: ho
cercato di portarvi ad Avalon, il lago in cui dimoravano i Sidhe, gli
unici in grado di poter contrastare la magia nera di cui era impregnata
la spada di Mordred, ma siamo arrivati troppo tardi».
«Perché mi dici queste cose, Merlino?».
Il re tremava contro la quercia, gli occhi sbarrati e il cuore che gli
batteva dolorosamente nel petto, iniziando a rendersi conto che quel
pulsare non era naturale.
Merlino continuò, imperterrito: «Ricordate il
drago che vostro padre aveva imprigionato e che è riuscito a
liberarsi dalle catene? Si chiamava Kilgharrah ed è stato
lui a rivelarmi che il mio destino era ed è
tutt’ora quello di affiancarvi e proteggervi, a qualsiasi
costo. È stato un prezioso consigliere in molte occasioni,
solo ora me ne rendo conto, e forse non l’ho mai ringraziato
abbastanza per tutto quello che ha fatto per me, per noi, per Albione.
Voi non l’avete mai sconfitto, Sire. A dire la
verità è stato proprio Kilgharrah ad
accompagnarci ad Avalon, e prima che i nostri cammini si separassero
per sempre mi ha lasciato un’ultima profezia: “Nel
momento in cui Albione avrà più bisogno,
Artù rinascerà.”».
Artù sbatté le palpebre e due lacrime perfette,
due gocce simili a diamanti, rotolarono sulle sue guance, ma non fece
nulla per nasconderle.
«Siamo nell’anno 2014, questo è il XXI
secolo, e voi, solo ed unico re, il più grande che abbia mai
messo piede su questa terra, siete finalmente risorto. Vi ho aspettato
per più di millequattrocento anni,
Artù».
Merlino fece un respiro profondo, al contempo esausto e sollevato, e
cacciò indietro le lacrime intrise dei rimpianti del passato
e della gioia del presente, gettando uno sguardo oltre la quercia: Alex
si era accorta da un pezzo della loro fuga e aveva mandato un paio di
infermieri a cercarli proprio lì, nel parco, mentre lei era
corsa verso l’incrocio.
«Non abbiamo molto tempo», esclamò.
«Il mondo è molto cambiato nel corso dei secoli e
non sarà facile abituarsi, lo so, ma dovete sforzarvi e
fingervi un uomo di quest’epoca. Io sarò sempre al
vostro fianco, non dovete preocc–».
Merlino sgranò gli occhi, ritrovandosi stretto tra le
braccia di Artù. Ancora una volta non aveva previsto
abbastanza bene il futuro: aveva immaginato che Artù sarebbe
stato sconvolto, arrabbiato, disperato, ma non che lo sarebbe stato a
tal punto da aver bisogno di un suo abbraccio.
Il ricordo degli ultimi minuti di vita di Artù lo
colpì nuovamente, facendogli male con la stessa
intensità di sempre e se possibile ancor di più.
Ricordava che cosa gli aveva chiesto con la voce spezzata dal dolore,
il frammento della magica spada ormai già penetrato nel suo
cuore: «Solo… Stringimi e basta. Per
favore».
Lui non l’aveva fatto, col tempo si era reso conto di non
averlo fatto: lo aveva sorretto, aveva continuato a pensare ad un modo
per potergli salvare la vita, ma non gli aveva donato
l’ultimo contatto umano di cui il suo re aveva bisogno,
spaventato dalla morte come ogni uomo. Era stato uno dei suoi
più grandi rimpianti, uno dei motivi per cui aveva versato
le lacrime più amare. Non avrebbe fatto lo stesso errore,
non esaudendo quella richiesta per la seconda volta.
Gli avvolse le braccia intorno alla schiena e lo strinse forte,
accarezzandogli anche i capelli biondi, dimentico dell’anno e
del luogo in cui si trovavano, di Alex e degli uomini e le donne che li
cercavano, di tutto ciò che non c’entrasse con
Artù, l’altro lato della medaglia, la
metà che lo rendeva completo.