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Autore: MelBlake    04/02/2015    3 recensioni
"L'amore è una debolezza", le aveva detto Lexa e da quel momento quella frase non l'aveva più lasciata.
Ma Clarke è davvero disposta a rischiare la vita di Bellamy?
No, a questo non è disposta, così, nel pieno di una notte, lascia il Campo Jaha, partendo alla volta del Mount Weather.
One shot Bellarke nata dalla mia incapacità di attendere domani, in cui ho cercato di immaginare cosa potrebbe succedere nella 2x11.
Buona lettura!
Genere: Fluff, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LOVE IS STRENGTH







«Notizie da Bellamy? A quest’ora avrebbe già dovuto essere tornato… ».
Le parole di Octavia riportarono Clarke alla realtà, ma lei si limitò a scuotere la testa. Il ragazzo non aveva fatto sapere nulla da quando era partito con Lincoln e, per un solo istante, si chiese se non avesse sbagliato a mandarlo in una missione potenzialmente suicida.
Poi la frase di Lexa le rimbombò in testa: “L’amore è debolezza”.
Già, l’amore è debolezza. E l’amore fa male. Perdere Finn… quello le aveva fatto incredibilmente male. Tornò con la mente a quella sera.
Il fuoco che illuminava la radura, l’albero a cui il ragazzo era stato legato, la lancia di Indra che le aveva ferito lo stomaco. E poi c’era il sangue, ma non il suo: il sangue di Finn che le scorreva sulle mani. Quanto sangue c’era, realmente, sulle sue mani?
Clarke iniziò a pensarci: Atom era stato il primo. Sì, lo aveva fatto per pietà, ma era comunque stata lei ad affondare il coltello nella sua carotide. Poi c’era stata Tris, la ragazzina che si trovava sul ponte quando Jasper lo aveva fatto saltare in aria. E chissà quanti altri con lei. Il giorno in cui Tris era morta, Clarke aveva ucciso un altro terrestre, tagliando la gola anche a lui e poi era rimasta lì… a guardarlo morire. Senza contare i trecento guerrieri che aveva bruciato vivi nell’anello di fuoco la notte della battaglia al loro vecchio campo. Prima che arrivassero gli Uomini della Montagna. Nel caso della bomba e dell’anello di fuoco non era stata lei l’artefice materiale, ma comunque… cambiava poco, perché lei aveva avuto l’idea, facendo fare il lavoro sporco agli altri, il che, forse, era anche peggio.
Sì. Clarke era davvero ricoperta dal sangue altrui. Ultimo tra tutti quello di Finn e adesso, forse, quello di Bellamy.
«L’amore è una debolezza. L’amore è una debolezza».
Continuando a ripetersi questo mantra, magari avrebbe potuto smettere di soffrire. Ma avrebbe potuto lasciar morire quel ragazzo che, nonostante tutto, le era sempre rimasto vicino? Persino quando a malapena riuscivano a stare nello stesso posto, Bellamy non l’aveva abbandonata.
“Ti fidi di lui?”, le aveva chiesto Lexa.
E lei si fidava. Se doveva chiedere aiuto a qualcuno, per qualsiasi tipo di missione, quel qualcuno era Bellamy e d’altra parte lui non si era mai tirato indietro. Anzi, era rimasto quando lei glielo aveva chiesto, anche quando questo avrebbe potuto comportare la sua morte, ma era rimasto.
Clarke ripensò alla sera in cui avevano trovato i fucili nel rifugio. “Ho bisogno di te. Tutti abbiamo bisogno di te” ed era la verità.
La domanda adesso era sempre la stessa: aveva ancora bisogno di lui? O lo aveva semplicemente ritenuto sacrificabile?
Cercò di ricordarsi la loro ultima conversazione.
«Ci serve un infiltrato che abbassi le loro difese.
«Pensavo che odiassi quel piano, che credessi mi sarei fatto uccidere»
. «Vale la pena rischiare. Buona fortuna».
Ma adesso Clarke la pensava ancora in quel modo? Si guardò intorno: Octavia si era sdraiata, le dava le spalle. Magari dormiva o magari semplicemente fingeva, tormentata dalla preoccupazione che suo fratello e il suo fidanzato potessero non fare ritorno mai più.
Anche sua madre dormiva e, poco distante, Kane chiacchierava con alcuni dei suoi soldati. Nessuna traccia di Jaha. Nessuna traccia di Raven. Forse era all’interno, cercando di trovare un modo per riuscire a parlare con Jasper dalla radio da cui avevano sentito il suo messaggio d’aiuto.
Clarke si alzò in piedi e raccolse il suo zaino, cercando di non destare attenzioni altrui. Camminò lentamente, fino a perdersi tra le ombre degli alberi, sparendo nella foresta.
Non si era allontanata dal campo neanche di cento metri quando una voce familiare la richiamò.
«Clarke!».
La bionda si voltò, sapendo già chi si sarebbe trovata a fronteggiare.
«Dove pensi di andare?».
Clarke puntò i suoi occhi in quelli chiari di Lexa.
«Nessuna notizia da Bellamy. A quest’ora avremmo già dovuto sapere qualcosa».
«Cosa ti ho detto Clarke? L’amore è debolezza. Così ti farai solo uccidere».
«Moriremo tutti ugualmente se è successo qualcosa a Bellamy e lui non è riuscito ad abbassare le difese. Ci serve quell’infiltrato, Lexa. E se non sarà lui… allora sarò io, ma qualcuno deve farlo».
Il comandante parve rifletterci un momento, poi annuì.
«Allora verrò con te».
«No, tu devi stare qui. E poi avanti… quel braccio non si è ancora rimesso in sesto dopo lo scontro con quel Puana».
«Pauna» la corresse Lexa.
«Sì, beh… hai capito. È un rischio che non sono disposta a correre, Lexa».
Clarke si voltò nuovamente, per riprendere il suo cammino, quando il comandante attirò di nuovo la sua attenzione.
«Quale rischio non sei disposta a correre, di preciso? La possibilità di non abbassare le difese degli uomini della montagna… o la vita di Bellamy?».
Per un lungo, intenso istante, gli occhi delle due ragazze rimasero inchiodati gli uni agli altri, poi Clarke riprese parola.
«Se non dovessi tornare… Octavia prende il comando al mio posto».
Lexa le rivolse un minimo cenno di assenso, facendosi da parte e Clarke passò oltre.
Doveva fare in fretta prima che qualcun altro notasse la sua assenza. Di certo sua madre o uno degli altri adulti non le avrebbe permesso di andarsene così facilmente alla volta del Monte Weather.
La sua mappa l’aveva data a Bellamy, ma lei non ne aveva bisogno, ricordava perfettamente la strada. Le tornarono alla mente quei momenti trascorsi cercando di scappare con Anya, a volte legata, altre trascinando lei stessa la donna. Erano deboli, distrutte, ma erano riuscite a tornare. E poi Anya era morta. E se fosse stata lei? Se invece che sparare ad Anya avessero sparato a lei? Clarke se lo era chiesto più di una volta.
Chissà, magari adesso Finn sarebbe stato ancora vivo. O forse no. Forse avrebbe fatto una fine ancora peggiore, ucciso da tutti quei terrestri che, per diciotto volte, avrebbero infierito su di lui con il loro coltello.
Clarke scacciò dalla mente quell’immagine che non faceva altro che tormentarla ormai da tempo.
Finn… Finn… mio dio… era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto.
Poi, ancora una volta, la voce di Lexa le rimbombò nelle orecchie: “L’amore è debolezza. I morti sono morti, Clarke”.
Sì. I morti sono morti.
Ma non Bellamy. Bellamy era vivo, era la persona più viva che Clarke avesse mai conosciuto. Quel ragazzo aveva un fuoco dentro e lei non avrebbe lasciato che quel fuoco si spegnesse. Non poteva permetterlo.
Prese un profondo respiro e proseguì. Orientarsi al buio nella foresta non era facile ed ora quasi desiderava avere Lexa al suo fianco, ma non poteva. Questa era una cosa che avrebbe dovuto fare da sola e ci sarebbe riuscita. Avrebbe riportato Bellamy e Lincoln indietro. Octavia li stava aspettando.
Per ore non fece altro che camminare, camminare e ancora camminare. Era esausta quando il sole cominciò a fare capolino ad est e quasi cedette alla tentazione di trovare un posto e mettersi a dormire, ma non lo avrebbe fatto. Non finché Bellamy non fosse stato con lei.
Il cuore cominciò a batterle più forte quando si rese conto di essere vicina all’entrata del Monte Weather. C’era quasi.
Riconobbe uno dei tunnel e non ci pensò due volte prima di imboccarlo, alla ceca. Non sapeva se ci fossero Mietitori o chissà chi altro, voleva soltanto trovare un modo per irrompere lì dentro e assicurarsi che il ragazzo stesse bene. Non aveva nemmeno vagliato altre ipotesi, si rifiutava categoricamente di farlo.
Tirò fuori dal suo zaino una torcia che aveva portato con sé e si guardò intorno. La galleria era deserta e silenziosa, non si sentiva volare una mosca.
Il cuore le batteva in petto come impazzito e la ragazza temeva perfino che qualcuno si sarebbe potuto accorgere della sua presenza, ma era un’idea folle e lei lo sapeva bene.
“Concentrati, Clarke. Concentrati o ti farai ammazzare. Farai ammazzare Bellamy”.
No. Non lo poteva permettere.
Spense la torcia e si rannicchiò dietro una roccia quando udì dei rumori provenire dalle sue spalle. Due sagome entrarono nel suo campo visivo e la ragazza si sporse leggermente per vedere meglio. Avevano delle tute che li celavano da capo a piedi, come quelle che utilizzavano per la disinfezione e Clarke decise che seguirle era l’unico modo che aveva per ritrovare Bellamy. Per avere la minima possibilità di entrare.
Era così agitata che quasi non si accorse del grosso ramo ai suoi piedi e, se non si fosse fermata in tempo, l’avrebbero scoperta.
Di nuovo… “Concentrati Clarke, maledizione. Non hai fatto tutta questa strada per essere catturata e trasformata in una sacca di sangue umana”.
Chiuse gli occhi, prese un bel respiro e si calmò. Così andava meglio.
Quando rialzò le palpebre, per un momento il suo cuore mancò un battito: le due sagome erano sparite. Affrettò il passo cercando di non fare il minimo rumore, ma impallidì quando per sbaglio calciò un sasso e fece appena in tempo a tuffarsi da una parte, nascondendosi dietro una parete.
Udì i passi davanti a lei fermarsi e delle voci ovattate, ma a causa di quelle dannate tute non riuscì a capire cosa accidenti stessero dicendo.
Maledizione, i passi si avvicinavano. Clarke non ci pensò due volte ed estrasse un coltello dal suo zaino. Se fosse stato necessario, lo avrebbe fatto.
Il cuore batteva così forte da far male e, quando il primo dei due fece capolino, la mano della ragazza che reggeva il pugnale scattò, piantando l’arma nella coscia dell’uomo e quello si accasciò al suolo, strepitando. Aveva reciso l’arteria femorale, sarebbe morto dissanguato entro pochi minuti. Altro sangue sulle sue mani. Non poteva più andare avanti ricordando tutti i morti che portava con sé.
Poco dopo anche la seconda persona accorse, ma Clarke fu più veloce: gli assestò un calcio in pieno petto e quello cadde all’indietro, sbattendo la testa contro una parete di roccia. Probabilmente era solo svenuto.
Ok, se voleva farlo, doveva agire in fretta.
Trascinò il corpo nell’ombra, gli tolse la tuta e se la infilò. Dopodiché prese anche la sua tessera magnetica per poter entrare e, con le corde che aveva nello zaino, gli legò polsi e caviglie, poi lo imbavagliò.
L’altro uomo ormai era morto e Clarke non ci pensò due volte prima di passare oltre e dirigersi verso la porta. Era lì per un motivo e non sarebbe tornata indietro a mani vuote.
Passò la tessera magnetica nella fessura e la spia da rossa divenne verde, lasciandola entrare.
Ok, quella era stata la parte più semplice, adesso veniva quella complicata. In effetti non aveva pensato a come diavolo sarebbe riuscita a tirare Bellamy fuori da lì e, soprattutto, non aveva riflettuto su come trovarlo, ma… ci sarebbe riuscita.
Poi le venne un’illuminazione: il ragazzo non aveva dato notizie di sé e questo non era da lui. Inoltre, se gli fosse successo qualcosa, era probabile che adesso fosse in una delle gabbie in cui aveva trovato anche Anya e gli altri terrestri o, peggio ancora, appeso lui stesso a testa in giù. E sarebbe stato proprio da lì che avrebbe cominciato. Doveva sbrigarsi.
Ricordava perfettamente la strada per arrivare in quel posto infernale, non sarebbe mai riuscita a dimenticarla, ma poi si bloccò nuovamente. Oltre che trovare Bellamy, era lì anche per abbassare le difese di quei bastardi. Neutralizzare la nebbia acida, liberare l’esercito di Lexa. Recuperare Bellamy e Lincoln. Portare fuori i suoi amici. Maledizione, era tutto così dannatamente difficile.
Se avesse abbassato prima le loro difese, aveva il timore che potesse scattare qualche allarme e se fosse successo, trovare Bellamy sarebbe stato dannatamente più complicato, ma se avesse prima recuperato il ragazzo, portarlo con sé sarebbe stato dieci volte più pericoloso per entrambi.
Era ancora bloccata sul posto quando vide tre figure avvicinarsi. In un primo momento fu tentata di darsela a gambe e infilarsi in qualche buco finché non fossero passate oltre, ma poi le riconobbe: erano Miller, Maya e… «Jasper… » sospirò sollevata.
Loro non la riconobbero quando lei gli si parò davanti senza stare troppo a rifletterci e, per un momento, sembrarono allarmati. Poi si tirò giù la visiera e delle espressioni sorprese e incredule si dipinsero sui loro volti.
«Clarke!» esclamò Jasper abbracciandola.
«Sssh! Jasper, non c’è tempo».
Prese per mano lui e Miller, facendo cenno a Maya di seguirli.
«Clarke, ma che cosa ci fai qui?! Cos’è successo?».
«Ascolta, non ho davvero tempo per spiegare, ogni cosa avrà un suo senso, te lo prometto, ma non ora. Adesso… ho bisogno di voi».
I tre dovettero captare l’urgenza nella sua voce perché le loro espressioni sollevate si fecero immediatamente serie e le dedicarono tutta la loro attenzione.
«Dicci tutto» disse Jasper stringendole una mano.
A quel punto, Clarke cercò di spiegare loro nel modo più riassuntivo possibile cosa fosse successo da quando era andata via, tralasciando ciò che era accaduto a Finn, fino ad arrivare alla partenza di Bellamy e Lincoln e al fatto che non avessero più saputo nulla di loro.
«Cosa vuoi che facciamo?» chiese Miller.
«Ho bisogno che disattiviate la nebbia acida e le altre difese del Monte Weather. Potete farlo?».
Tutti gli occhi si puntarono su Maya.
«So come fare, sì. Ma non sarà semplice».
«Vi prego. Devo trovare Bellamy».
Jasper le strinse di nuovo la mano.
«Io verrò con te».
«No, Jasper».
«Sì, invece. Maya e Miller se la possono cavare, ma Bellamy… Clarke, io gli devo la vita. E la devo anche a te. Prima mi hai salvato quando i terrestri mi hanno impalato con quella lancia, poi lui si è offerto a Murphy per liberarmi. Glielo devo. Te lo devo».
Clarke ci pensò un momento, poi annuì.
«D’accordo».
Maya invece frugò nella sua borsa fino ad estrarne una radio.
«Prendi questa, Clarke. Prendila e… ti farò sapere quando la nebbia acida sarà disattivata, in modo che tu possa andare via».
Clarke non si era mai fidata di quella ragazza, ma d’altra parte… che alternative aveva adesso?
«Va bene. Andiamo allora».
La ragazza tornò a coprirsi il viso con la tuta e lei e Jasper uscirono dal piccolo stanzino nel quale si erano rifugiati.
Jasper camminava qualche metro avanti a lei, in modo da aggirarsi indisturbato e avvertirla in caso fosse arrivato qualcuno.
Con circospezione, si avviarono lungo il corridoio che portava a quella stanza maledetta in cui gli esseri umani erano utilizzati come cavie da laboratorio e, quando Clarke spinse la porta, le si mozzò il respiro.
Bellamy era lì, appeso a testa in giù, con fili ed elettrodi che lo collegavano ad una macchina, mentre il sangue veniva portato via dal suo corpo.
Per un momento, Clarke avvertì la testa come svuotata e si sentì mancare il terreno sotto i piedi, soltanto le braccia di Jasper intorno a sé le impedirono di cadere.
«Bellamy… » riuscì solo a mormorare.
Il ragazzo aveva addosso soltanto un paio di boxer bianchi, nient’altro, e Clarke si chiese quanto sangue avesse perso… era così pallido.
«Jasper… Jasper, dobbiamo tirarlo giù subito».
Lui annuì e si fece avanti, ma soltanto in due avrebbero potuto tirare giù Bellamy, così Clarke si costrinse a riscuotersi da quello stato di semi-catatonia in cui era caduta alla vista dell’amico e gli diede una mano.
Bellamy si mosse appena, emettendo un debole suono che fece stringere il cuore di Clarke in una morsa di ghiaccio. Doveva portarlo via da lì.
Lui aprì gli occhi e, quando la vide, cercò di ribellarsi, di colpirla.
Per un momento, Clarke si sentì gelare, ma poi si rese conto che indossava ancora la tuta azzurra e che la visiera era abbassata, quindi probabilmente era per quello che il ragazzo si mostrava tanto spaventato.
Allora la bionda si liberò di quell’indumento e, quando Bellamy la riconobbe, parve calmarsi. «C… lar… ke… » il suo sussurro sofferente le fece quasi venire le lacrime agli occhi.
Si posò la testa del ragazzo sul ventre e gli accarezzò il viso con fare protettivo.
«Ti porto via, Bellamy… ti porto fuori da qui, ok?».
Lui annuì e cercò di rimettersi in piedi, ma era troppo debole.
«Jasper, dobbiamo trovare qualcosa da mettergli addosso, non lo posso portare via così, morirà congelato» il tono preoccupato di Clarke fece scuotere il ragazzo, impegnato a liberare l’amico dagli elettrodi e dagli aghi sparsi per il suo corpo.
«Sì, hai ragione».
Si tolse la felpa e Clarke lo aiutò ad infilarla a Bellamy, anche se gli andava un po’ stretta.
«Ok, senti… vado a cercargli dei pantaloni, tu mettiti lì nascosta e non muoverti fino a che non sarò tornato, d’accordo?».
La bionda annuì e trascinò con sé Bellamy fino ad arrivare sotto quello che sembrava un tavolo operatorio. Non voleva neanche pensare a cosa facessero lì dentro quegli psicopatici.
Bellamy si lasciò sfuggire un lamento, sembrava completamente avvolto in una nuvola di vapori e confusione totale.
«Che cosa ti hanno fatto, Bellamy? Che cosa ti hanno fatto?», chiese sfiorandogli appena la guancia con la punta delle dita.
La porta si aprì e per un attimo Clarke temette che li avessero scoperti, quando la familiare figura di Jasper entrò nuovamente nel suo campo visivo con un paio di pantaloni in mano. Si occupò lui di rivestire Bellamy, mentre Clarke buttava un’occhiata veloce fuori dalla porta per assicurarsi che nessuno stesse arrivando.
Le cose stavano procedendo fin troppo bene e questo ebbe il solo effetto di metterla ulteriormente in agitazione. Se li avessero trovati non era certa che sarebbe riuscita a scappare e trascinare Bellamy con sé.
Quando Jasper ebbe finito si avvicinò, reggendo l’amico e Clarke gli diede una mano.
«Allora Clarke… qual è il piano? Perché ce l’hai un piano, vero?».
«Il mio piano era portare Bellamy fuori di qui, sul come non avevo ancora riflettuto».
«Questa non è una buona notizia».
«Lo so, ma devo… » la sua frase venne interrotta da un rumore proveniente dalla radio che Maya le aveva dato.
«Clarke… Clarke ci sei?» la voce di Miller proveniva indistinta dall’apparecchio. La frequenza doveva essere disturbata.
«Sono qui, Miller. Dimmi».
«Maya è quasi pronta a neutralizzare la nebbia e abbiamo fatto in modo che non la possano più riattivare poi, ma ha detto che non appena sarà neutralizzata si scatenerà un inferno».
«Jasper, dobbiamo arrivare subito all’uscita».
L’amico la guardò e annuì.
«Miller, ascolta… devi venire con noi, d’accordo? Cerca di radunare chiunque dei nostri e portali via. Quando capiranno che siamo stati noi ci daranno la caccia e l’unico modo che abbiamo per sconfiggerli è restare uniti».
«D’accordo, Clarke».
Dall’altra parte si sentirono dei rumori e poi più nulla.
Trascinando un esausto Bellamy dietro di loro, Clarke e Jasper erano quasi arrivati alla porta quando all’improvviso sentirono una voce familiare chiamarli.
«Monty!» esclamò Jasper.
Dovevano fare in fretta, ogni istante lì dentro era un istante prezioso in quelle circostanze. Clarke cominciò a dubitare che sarebbero usciti vivi da quel posto maledetto, ma doveva provarci. Doveva provarci per quel ragazzo stremato al suo fianco.
Il respiro di Bellamy era affannoso e ogni passo sembrava costargli una fatica immane.
«Avanti Bellamy, avanti… puoi farcela».
Jasper liberò Monty e lui gli disse di Harper, nella gabbia sopra la sua.
La ragazza era incredibilmente pallida ed era ferita.
«Jasper, aspetta… quando mi hai chiesto se avessi un piano… in effetti lo avevo. Il piano era di liberare tutti i terrestri, quelli imprigionati qui. Sono un esercito e possono combattere. Con il loro aiuto dall’interno, avremo una possibilità, ma… io devo restare. Devo restare e devo liberarli, d’accordo? Voi due pensate a portare fuori da qui Bellamy e Harper».
«No… Clarke… non se ne parla… » a sorpresa, quelle parole erano venute da Bellamy.
«Lo devo fare».
«No. Lo faremo noi» si fece avanti Monty.
«Io non riuscirò mai a portarli fuori entrambi da sola! Dovete essere voi! Dovete andare, subito!».
Clarke avvertì la presa di Bellamy farsi serrata sulla sua spalla.
«Tu verrai via con noi» disse a fatica.
«No, invece».
Gli occhi azzurri di Clarke si posarono in quelli scuri di Jasper.
«Andate».
Stava per sciogliersi dalla presa di Bellamy quando la porta si spalancò, facendo entrare un ansante Miller, seguito da almeno altri quindici di loro.
Clarke avrebbe voluto abbracciarli uno ad uno, ma non c’era tempo per queste cose.
«Sono tutti quelli che sono riuscito a trovare e… Harper!» esclamò Miller quando vide la ragazza accasciata contro il corpo di Monty.
«Ecco come andranno le cose: Monty ed io resteremo qui e apriremo le gabbie dei terrestri, dopodiché prenderemo gli altri e ce la fileremo via di corsa, ma voi dovete andare. Clarke, adesso!».
Proprio in quel momento una sirena spaccatimpani risuonò nell’aria, facendo sobbalzare ognuno dei presenti.
Miller prese in braccio una debole Harper e Clarke venne aiutata da un altro ragazzo a trascinare Bellamy fuori da lì.
Tutt’intorno a loro, cominciarono a sentirsi dei movimenti: passi e grida. Maya doveva aver neutralizzato le difese.
Il cuore di Clarke martellava così forte nel petto che credeva le avrebbe sfondato la gabbia toracica e, insieme agli altri, corse verso la porta dalla quale era entrata.
Si fece avanti e utilizzò nuovamente la tessera magnetica per aprire la porta quando degli spari raggiunsero le sue orecchie.
Una volta fuori, distrusse il pannello magnetico con una pietra, sperando che quest’imprevisto li avrebbe rallentati.
«Bellamy… Bellamy, continua a muoverti. Ce la fai?».
Il ragazzo mormorò qualcosa che Clarke non riuscì a capire, ma non si fermò. Chissà lo sforzo che gli costava. Se la situazione fosse stata inversa, Bellamy avrebbe preso in braccio Clarke e l’avrebbe portata con sé continuando a correre, ma quella non era la situazione inversa e Clarke non era abbastanza forte, ma si sarebbe presa cura di lui. A Qualsiasi costo.
Corsero lungo i tunnel finché non sentirono urla e schiamazzi provenire dal cunicolo davanti al loro.
«Mietitori!» esclamò una ragazza terrorizzata.
«Ehi tu! Aiuta Bellamy!» gridò Clarke ad un ragazzino di nome Andrew.
«Clarke… Clarke, che cosa fai?».
Ma Clarke ignorò la voce distrutta del ragazzo che era venuta a salvare e ripescò una pistola dal fondo del suo zaino. Sperava soltanto che i Mietitori non fossero troppi.
La bionda si parò davanti al gruppo e fece fuoco quando il primo Mietitore spuntò da dietro un angolo, colpendolo dritto in mezzo agli occhi. Un secondo e un terzo colpo andarono a segno subito dopo, ma per il quarto non fu tanto veloce e quello la buttò a terra, facendole scivolare di mano la pistola.
Subito però, due dei suoi compagni le vennero in aiuto e, poco dopo, anche quello venne abbattuto.
Quella giornata si stava trasformando in un vero e proprio incubo e Clarke cominciava seriamente a dubitare del fatto che tutti sarebbero usciti da lì sani e salvi.
Si costrinse a non pensarci e tornò da Bellamy.
«Andiamo!» esclamò.
Una volta fuori dalla galleria, la luce del sole li investì in pieno. Clarke non sapeva dire se fosse mattina o pomeriggio, non sapeva quanto tempo fosse passato da quando era entrata lì, ormai non capiva più niente.
D’un tratto, qualcosa la investì con talmente tanta violenza da farla cadere a terra e così anche Bellamy e l’altro ragazzo che la stava aiutando a portarlo.
Un altro Mietitore.
Miller allora lasciò Harper ad un ragazzo e una ragazza dietro di lui e si avventò sull’aggressore, che aveva già ucciso Matthew: il ragazzo che la stava aiutando a portare Bellamy con una coltellata alla gola e colpito Clarke ad un braccio con una pietra, strappandole un grido di dolore.
Aiutato da altri due ragazzi, Miller riuscì a liberare Clarke dal peso di quel Mietitore, scaraventandolo giù da una scarpata. Quando anche quello fu morto, i ragazzi stavano per ripartire, ma di nuove i loro schiamazzi li fecero impallidire. C’erano altri Mietitori in arrivo e stavolta sarebbero stati di più.
«Correte! Dividetevi!» esclamò Clarke che, terrorizzata, afferrò Bellamy per un braccio e lo trascinò con sé.
I Mietitori stavano arrivando, li sentiva sempre più vicini e ormai i suoi compagni erano dispersi: era sola con un Bellamy ormai allo stremo delle forze e un gruppo di Mietitori alle calcagna. Così non andava bene.
Ad un tratto, vide una rientranza scura dietro una parete di edera… una grotta! Forse erano salvi.
Più in fretta che poté, corse da quella parte con Bellamy che respirava come se stesse scappando da un’eternità e si lasciò andare sul freddo pavimento di pietra, ansante.
Per svariati minuti nessuno dei due parlò, troppo impegnati a far tornare i loro respiri ad un ritmo normale, poi Clarke si trascinò vicino al ragazzo, strisciando.
«Bellamy… » disse con voce ancora spezzata. «Bellamy…!».
Lui voltò lentamente la testa verso di lei.
«Non ci hanno visti. Siamo al sicuro per adesso, d’accordo?».
Il moro annuì.
Il cielo ormai si era fatto buio quando la ragazza ebbe la forza di mettersi a sedere. Il braccio ferito le pulsava ancora dolorosamente e Clarke vide del sangue ormai rappreso sulla ferita. Cercò di non pensarci e recuperò il suo zaino.
Aveva portato con sé quattro bottigliette d’acqua, diverse razioni e una coperta oltre alla pistola, la torcia, le corde e il pugnale che, si rese conto, aveva lasciato nei tunnel del Monte Weather.
Sperò che i suoi compagni arrivassero al Campo Jaha, aveva dato le coordinate a Miller. Sperò anche che Jasper e Monty riuscissero a portare a compimento il suo piano e che soprattutto… sopravvivessero all’inferno che doveva essersi scatenato nel rifugio.
Adesso però doveva pensare a Bellamy, che ancora non aveva aperto bocca e sembrava più esausto che mai.
Frugò nel suo zaino e tirò fuori una delle bottigliette d’acqua, ne rimanevano solo tre perché una l’aveva finita durante il viaggio di andata, poi si avvicinò a Bellamy.
«Hai sete?» gli chiese e lui annuì.
Allora Clarke lo aiutò sorreggendogli la testa e il ragazzo trangugiò qualche sorso, rischiando quasi di strozzarsi.
Lei gli diede qualche colpetto sulla schiena e lui si calmò.
«Clarke… » sussurrò, ma lei lo zittì, accarezzandogli la testa.
«Sssh… va tutto bene, tranquillo. Va tutto bene».
Bellamy chiuse gli occhi e annuì.
«Devi mangiare qualcosa, ok? Riacquisterai le forze».
Il moro assentì di nuovo e Clarke lo aiutò a mettersi un po’ più dritto con la schiena contro una delle pareti della caverna.
Prese dal suo zaino una delle razioni che aveva portato e, pazientemente, lo aiutò a mandar giù un boccone alla volta.
«Ne vuoi ancora?» chiese al ragazzo quando ebbe finito.
«Quante razioni hai portato?» le chiese a fatica, con gli occhi che quasi si chiudevano da soli. Doveva essere terribilmente stanco.
«Non preoccuparti di questo. Dimmi solo se hai ancora fame».
Lui la osservò per un istante, poi annuì.
Clarke sorrise debolmente e pescò un’altra razione dallo zaino.
Come prima, aiutò Bellamy a mangiare e poi gli diede di nuovo da bere, con calma, per evitare che l’acqua gli andasse di traverso un’altra volta.
«Bravo, va bene così. Hai bisogno di altro?».
Lui scosse il capo.
«Ho bisogno che adesso tu mangi qualcosa».
«Io sto bene così».
Proprio in quel momento, lo stomaco di Clarke emise un brontolio di protesta.
«Dicevi?» chiese Bellamy, ritrovando un barlume di quel tono sarcastico che tanto lo distingueva.
La ragazza sorrise e si sporse per prendere la terza razione dal suo zaino.
Mangiò in silenzio, lanciando di tanto in tanto qualche sguardo a Bellamy, che non le staccò gli occhi di dosso neanche per un momento.
«Lo sai che mi innervosisce la gente che mi fissa mentre mangio? Non ti hanno mai detto che è scortese?».
Bellamy emise un debole sbuffo divertito.
«Principessa permalosa».
Clarke sorrise. Se non altro il fatto che riuscisse a scherzare era positivo.
«Torno subito» disse poi alzandosi in piedi.
«Ehi! Dove pensi di andare?» chiese lui afferrandole una caviglia.
«Qui vicino, non ti preoccupare».
«Clarke».
«Bellamy… tranquillo».
Delicatamente si liberò dalla sua stretta e uscì da quel nascondiglio. Raccolse tutto il muschio che riuscì a trovare, ciuffi d’erba e foglie, poi tornò nella grotta.
«Che cosa vorresti farci con quella roba?» le chiese il ragazzo, con sguardo interrogativo.
Senza dire una parola, Clarke svuotò il suo zaino e lo riempì nuovamente, in modo che assumesse, più o meno, le fattezze di un cuscino. Poi aiutò Bellamy a distendersi, in modo che vi potesse poggiare la testa.
«Prendo la coperta».
«Clarke, non ho bisogno di tutta questa roba. Tu dove dormirai?».
«Da nessuna parte. Io me ne starò vicino all’entrata per controllare che non arrivi nessuno» disse stendendo la coperta sul corpo del ragazzo.
«Non se ne parla, cammini da due giorni. Avanti, vieni qui» disse scostando la coperta per farle posto.
«Bellamy… ».
«Niente storie, Principessa. Non sono un tipo che accetta un no come risposta, ormai dovresti avere imparato a conoscermi».
Con il cuore in gola, Clarke si accovacciò al suo fianco, sdraiandosi con lui sotto la coperta.
Improvvisamente tutto le parve meno orribile di quanto in realtà non fosse e il respiro caldo di Bellamy che le solleticava il collo la aiutava a rilassarsi, anche se questa inaspettata vicinanza la fece rabbrividire.
«Hai freddo?» le chiese lui posandole una mano sulla spalla.
La schiena di Clarke aderiva al torace di Bellamy e lei non riusciva a vederlo in faccia.
«No… no, sto bene. Non ti preoccupare. Adesso però dormi. Hai davvero bisogno di riposare».
Lui annuì, le diede un’ultima stretta e, dopo pochi istanti, Clarke avvertì che il respiro del ragazzo si era già fatto più profondo e pesante. Si era addormentato.
Voleva girarsi, guardarlo in viso, ma si trattenne per paura di svegliarlo nuovamente, così lasciò stare e, dopo qualche minuto, si addormentò anche lei, esausta a causa della giornata sfiancante che aveva avuto.

Quando Clarke riaprì gli occhi, ci mancò poco che lanciasse un grido spaventato. Durante la notte doveva essersi voltata, perché adesso guardava Bellamy dritto in faccia e… lui guardava lei. I suoi occhi scuri e penetranti la scrutavano come se volesse leggerle fin dentro l’anima ed erano talmente vicini che i loro nasi si sfioravano.
«Buongiorno, Principessa» la salutò con uno strano sorriso.
«Ehi… sei sveglio da molto?».
«No. Mi sono svegliato poco prima di te. Dormivi così bene».
Lei evitò il suo sguardo, ma lui le prese delicatamente il mento tra pollice e indice e fece in modo che anche la ragazza lo guardasse dritto negli occhi.
«Perché mi eviti?».
Clarke emise una risata nervosa.
«Non ti sto evitando».
«Ma davvero? Perché a me sembra di sì… ».
«Bellamy, senti… ».
«Mi hai salvato la vita» la interruppe lui.
«Che cosa?».
«Hai rischiato la tua vita… per salvare la mia».
Lei annuì.
«Lo avresti fatto anche tu per me, se le situazioni fossero state invertite».
Il ragazzo ci pensò su per un momento, poi sospirò.
«Sì. Lo avrei fatto anch’io».
Per un intenso, interminabile istante, gli occhi scuri di Bellamy e quelli chiari di Clarke rimasero incatenati gli uni agli altri, poi il ragazzo sollevò maggiormente il mento di lei, accorciando quella distanza praticamente inesistente che li separava e Clarke rimase immobile quando capì cosa stava per succedere.
Le labbra di Bellamy erano morbide contro le sue, calde e rassicuranti, ma la ragazza sembrava essere diventata una statua di ghiaccio.
«Va tutto bene, Clarke. Sono io, sei qui con me» sospirò lui contro le sue labbra.
Le labbra di lei si mossero più incerte, ma lo baciò di rimando, posandogli una mano su un lato del collo.
Bellamy le massaggiò un fianco con una mano, mentre con l’altra continuava a sorreggerle delicatamente il mento.
Clarke sentì il corpo di lui vibrare contro il suo, come se stesse facendo un grande sforzo, ma poi lei si rilassò e restituì il bacio con più naturalezza.
Dal collo, la sua mano salì al volto del ragazzo, fino ad affondare tra i suoi capelli scuri e Bellamy strinse la presa intorno al suo fianco.
Tutte le parole che avrebbe voluto dirgli, Clarke le trasmise attraverso quel bacio carico di sottointesi.
“Grazie per non essere morto”.
“Non avrei mai dovuto lasciarti andare”.
“Scusa se ci ho messo tanto”.
“Ho avuto così tanta paura di perderti”.
“Sei al sicuro adesso””.
“Non permetterò mai più che accada una cosa del genere”.
“Affronteremo tutto questo insieme”.
“Non mi lasciare””.
“Ho bisogno di te”.
E poi, per l’ennesima volta, le parole di Lexa tornarono a riempirle la mente. “L’amore è debolezza”.
Ma quel giorno, Clarke aveva capito una cosa: l’amore non è debolezza. L’amore è forza.



NOTE DELL’AUTRICE:

Salve a tutti! È la prima Bellarke che scrivo e la seconda one shot in assoluto, quindi spero di non aver combinato disastri, siate clementi XD
Beh, che dire? Bellamy e Clarke sono diventati la mia ossessione e questa breve storia è nata dalla mia incapacità di aspettare la puntata di domani, un po’ basandomi sul promo uscito la settimana scorsa e, maggiormente, basandomi su ciò che io vorrei che succedesse.
Ovviamente, non andrà mai in questo modo perché sarebbe troppo facile e gli autori sono troppo sadici, quindi, ahimé, temo che questa storia resterà soltanto nella mia immaginazione, ma almeno scriverla è stato bello e spero tanto che l’abbiate apprezzata.
Naturalmente, essendo una one-shot incentrata sui Bellarke, ho sviluppato maggiormente tutta quella parte, so che di mezzo ci sarebbero stati anche gli altri ragazzi, Monty e Jasper rimasti nel Monte Weather a liberare i grounders e via dicendo, ma poi sarebbe venuta fuori una cosa ben più lunga, quindi mi sono dovuta adattare.
Ad ogni modo, di nuovo, spero che vi sia piaciuta e che domani i “cari” autori non ci facciano soffrire troppo.
Un saluto a tutte!
Mel
   
 
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