12
Kyuzo, Rock e Revy non si fidavano ad usare l’ascensore,
visto che forse a causa dell’esplosione nella tromba delle scale un po’ tutto
l’albergo si era destabilizzato, e la corrente andava e veniva in
continuazione.
Ringraziando il
cielo non incontrarono altri Vysotniki, probabilmente perché erano stati già
tutti uccisi da Samejima, quindi la salita verso l’alto procedette senza altri
inconvenienti.
Sfortunatamente la
scala di servizio distrutta era l’unica strada diretta per arrivare sul tetto,
ma era comunque possibile aggirare l’ostacolo passando per il grande planetario
semisferico, dove si trovava una porta di servizio che immetteva in una seconda
scalinata che partendo dall’ultimo piano arrivava sul tetto.
I tre fuggiaschi
entrarono nel planetario convinti di essere a due passi dalla salvezza, ma
sulla loro strada incontrarono qualcuno intento a fermarli.
Avrebbero dovuto
aspettarselo; per quanto fosse stata ridotta a niente più che un mero strumento
di morte, Yu-Ling era un avversario da non sottovalutare. Le era stato ordinato
di uccidere tutti gli occupanti dell’hotel, e lei con ogni probabilità sapeva
che gli ultimi rimasti, con tutte le uscite chiuse, non avrebbero avuto altra
via d’uscita che il tetto, e con la strada diretta inutilizzabile non era stato
molto difficile per lei aspettarli al varco.
Non doveva però
essere lì da molto, perché non c’era alcuna traccia di Steven e Hibraim, segno
che probabilmente loro erano riusciti ad arrivare all’elicottero, dove magari
li stavano già aspettando.
Vedendo sbucare
quella specie di demone vestito di bianco da dietro le poltrone che, disposte
ad anfiteatro, occupavano un’intera metà della struttura, Revy e gli altri
immediatamente si bloccarono, ben consapevoli di ciò che era in grado di fare.
Kyuzo la guardò
nuovamente dritta in volto, quindi si portò dinnanzi a loro.
«Me ne occupo io.
Voi andate.»
«Cosa!?» disse
Rock «Ma, Kaito…»
«Non
preoccupatevi, me la caverò.»
«Sbaglio o
l’ultima volta ti ha quasi ammazzato?» commentò Revy
«Stavolta sarà
diverso. Sta tranquilla. Inoltre, non posso vedere la mia amica Yu-Ling ridotta
in questo stato. È mio dovere fare qualcosa per cercare di aiutarla».
Revy e Rock erano
palesemente indecisi, ma dopo un rapido calcolo dedussero che Kaito era
probabilmente l’unico in grado ad opporsi ad una furia distruttrice come
Yu-Ling, e che loro sarebbero stati solo d’impiccio, quindi alla fine decisero
di dargli retta e di proseguire oltre.
«Ricordati quello
che ti ho detto. Sono io che devo ammazzarti, quindi cerca di non crepare.»
«Tranquilla, non
morirò prima di aver salvato Yu-Ling.»
«Lo spero».
Non appena i due
compagni cominciarono a correre verso l’uscita Yu-Ling corse a sua volta verso
di loro con l’intento di fermarli, ma Kaito fu più rapido di lei e allungato un
braccio generò una sorta di spostamento d’aria che oltre a scaraventare la
ragazza contro il muro sembrò quasi incollarla ad esso; questo espediente però
risultò di breve durata, perché nell’istante stesso in cui i membri della
Lagoon lasciavano il planetario Yu-Ling riuscì a liberarsi, ma invece che
correre dietro ai fuggitivi la sua attenzione fu catturata tutta da Kyuzo.
I due vecchi amici
rimasero immobili, osservandosi entrambi con occhi senza vita, senza alcuna
espressione. La cupola luminosa, ancora funzionante, proiettava su di loro la
luce iridescente di una volta celeste che, benché finta, li rendeva simili a
due eroi, due divinità pronte a darsi battaglia.
La pelle chiara di
Yu-Ling scintillava come il diamante, il volto serio e impassibile di Kyuzo
sembrava quello di un dio della guerra, ma con lo sguardo di un peccatore in
cerca di redenzione.
Quello che Rock
aveva detto era vero; non poteva dimenticare ciò che Yu-Ling aveva significato
per lui, e forse proprio per questo non sarebbe mai stato realmente in grado di
farle del male.
Si erano
conosciuti da piccoli, quando avevano rispettivamente sette e sei anni, e da
quel giorno avevano condiviso tutto, gioie e dolori, dubbi e speranze.
Ciò che
maggiormente aveva deluso e addolorato Kaito era stato l’atteggiamento di
Samejima, la crudeltà che aveva dimostrato nei confronti di quella che era
diventata a tutti gli effetti sua figlia.
All’inizio, quando
Harue ancora non era nata, e Progetto Rebuild non era neppure nella memoria del
presidente Kinomiya, Samejima era un uomo onesto, di grande carisma, e la
stessa passione che metteva nel lavoro la metteva anche nel suo ruolo di padre.
Yu-Ling era per
lui come un raggio di sole, una figura amica che lo attendeva al rientro in una
casa altrimenti vuota.
La perdita della
moglie a seguito di un brutto incidente stradale lo aveva devastato, e persino
il lavoro nel quale aveva sempre riversato tutte le sue energie divenne di
colpo qualcosa di effimero, senza alcun interesse.
Per tentare di
allontanarlo dai dolori che la sua casa, ma anche la stessa Tokyo, arrecavano
al suo spirito, il suo capo lo aveva mandato in viaggio di lavoro in Cina, dove
le Industrie Kinomiya avevano avuto modo di inimicarsi allo stesso tempo le
Triadi e il governo centrale di Pechino con la loro propaganda contro lo
sfruttamento e a favore dei diritti e del progresso compatibile.
Forse per lanciare
indirettamente un avvertimento a qualcuno che stava decisamente troppo in alto
per poter essere colpito direttamente, la mafia cinese organizzò l’omicidio del
facoltoso industriale Won-Shin Fei, prossimo partner aziendale dei Kinomiya, e
di tutta la sua famiglia; solo la piccola Yu-Ling, che allora aveva cinque
anni, sopravvisse, e per puro miracolo, perché al momento dell’esplosione della
macchina lei era scesa assieme alla sua governante per guardare i volatili
esposti in un negozio.
Non avendo parenti
in vita la sua destinazione poteva essere solamente l’orfanotrofio, o peggio
ancora, vista la famiglia anticonformista dalla quale veniva, le case di
correzione. Samejima, che con Won-Shin aveva avuto un rapporto di amicizia
profonda prima che di lavoro, decise di adottarla, un’impresa non facile che lo
costrinse a corrompere mezzo partito e a far espatriare la piccola
clandestinamente.
Yu-Ling all’inizio
sembrava incapace di superare quel trauma, ma la vicinanza a tutte quelle
persone che, come i suoi genitori, le volevano un bene sincero, oltre che
profondo, riuscì pian piano ad intaccare il muro che aveva eretto attorno al
suo cuore, permettendole di tornare a sorridere.
Samejima era un
padre modello, che chiedeva tanto ma che, allo stesso tempo, dava tanto,
ricompensando adeguatamente l’ottimo rendimento sia scolastico che sportivo
della sua adorata figliola sia con l’affetto sia coi regali.
Ma poi era nata
Harue, il Progetto Rebuild aveva preso il via, e Noboru non era più stato lo
stesso.
La sete di potere,
il desiderio di emergere, o anche solo la semplice voglia di rivalsa possono
spingere l’uomo a compiere atti orribili, a tradire i suoi ideali e la sua
famiglia, e persino a compiere i gesti più riprovevoli, come usare la propria
figlia al posto di una cavia e trasformarla in un essere privo di sentimenti il
cui unico scopo è uccidere.
Ma Kaito sapeva
che Yu-Ling, quella vera, quella che aveva conosciuto e, forse, amato, era
ancora lì, da qualche parte; il computer che aveva in testa aveva annullato la
sua personalità, ma non l’aveva distrutta. Poteva e doveva riuscire a
risvegliarla, e forse conosceva anche il modo per poterlo fare.
«Yu-Ling! So che
puoi sentirmi! Ti riporterò indietro! È una promessa!».
Lei, come al
solito, non batté ciglio, e anzi corse contro al suo obiettivo, cercando di
colpirlo con un calcio che però venne agilmente parato.
«Te ne sei
scordata, amica mia?» disse Kyuzo, che subito dopo sprigionò uno spostamento
d’aria tale da spedire la ragazza a parecchi metri di distanza «Con me lo
stesso trucco non funziona due volte».
Nello stesso momento Revy e Rock, salita l’ultima rampa di
scale, erano finalmente approdati sul tetto, o meglio su una delle tre torri
che lo costituivano; oltre a quella centrale in cui si trovavano, la più alta,
ce ne erano altre due, dove si trovavano rispettivamente la cupola del
planetario e quella in vetro della piscina in cui Revy aveva combattuto contro
Mr.Chang.
La terrazza della
torre centrale aveva una superficie di almeno trenta metri per lato, e a
giudicare dai materiali da costruzione disseminati qui e là appariva chiaro che
erano in programma altri lavori per un ulteriore innalzamento, lavori che con
molta probabilità non avrebbero mai avuto luogo.
In un angolo del
tetto, poi, c’era una piattaforma per elicotteri posta leggermente più in alto,
e sopra di essa un grosso Mil Mi-26;
Steven, accanto al mezzo, faceva dei segni ai due compagni per dire loro di
avvicinarsi.
«Avanti, venite!».
Loro, velocemente,
cercarono di raggiungerlo, ma all’.
«Dov’è Kaito?»
«È stato
trattenuto, ma arriverà.» rispose Revy
«Dov’è Hibraim?»
«Hibraim… è
morto.»
«Morto!?»
«È stato Samejima,
ma credo sia riuscito a farlo fuori.»
«In tal caso, pace
all’anima sua.» disse Two-Hands.
In quella,
dall’interno dell’elicottero giunse il segnale di un allarme; Steven salì a
bordo e infilò le cuffie per capire di che si trattava.
«Merda, tre
elicotteri in avvicinamento a ore due!»
«Che cosa!?» gridò
Rock.
Lui e Revy
alzarono gli occhi al cielo nella direzione designata, e dopo pochi secondi dal
cielo buio, ma che già cominciava a mostrare i primi chiarori dell’alba,
sbucarono le luci abbaglianti di due grossi Black Hawk e un Apache che si
avvicinavano sempre di più.
«E quelli che
cazzo vogliono?» domandò Revy.
La risposta arrivò
nel momento in cui uno dei due Black Hawk, fermatosi a una decina di metri più
in alto del tetto, spedì verso di loro una sventagliata di mitra, mancando
fortunatamente sia loro che i punti sensibili del Mi-26, sotto il quale si
erano nascosti; anche Steven ne uscì illeso, grazie alla corazzatura
antiproiettile dei finestrini dell’elicottero.
«Ma che accidenti…
quelli ci sparano!».
Rock avanzò
strisciando fino a che non fu in grado di distinguere bene i mezzi in
questione, quindi, assieme alla sua partner, usò il portello posteriore del
Mi-26 per salire a bordo.
«Non sono russi.»
disse affacciandosi dall’oblò
«E tu come fai a
dirlo?»
«Hotel Moskow usa
come armamenti l’immondizia dell’Unione Sovietica, quelli sono modelli
americani.»
«Ha ragione lui.»
rispose Steven «Ho intercettato le loro comunicazioni. Quelli sono cinesi.»
«Cinesi!?» esclamò
Revy «E che diavolo ci fanno qui i cinesi!?»
«Non sono riuscito
a capire bene, ma credo siano qui per i nanorobot.»
«Ma noi non li
abbiamo!»
«Questo loro lo
sanno?» rispose Rock senza smettere di guardare fuori.
Dopo la prima
raffica tutti e tre i mezzi non avevano più sparato un colpo, limitandosi a
rimanere sospesi in aria come se stessero ricevendo dei nuovi ordini.
«Ma perché non tirano un missile e non la
fanno finita?»
«L’hai detto tu,
probabilmente pensano che abbiamo i campioni a bordo.» rispose Steven infilando
un nuovo caricatore nella sua pistola «Non possono certo permettersi di
perderli».
Revy, Rock e
Steven non erano i soli ad essere nei guai.
Prima di poter
gioire appieno della loro ritrovata libertà, Dutch, Eda e Benny si erano visti
circondare da una decina di macchine blindate da cui erano scesi una miriade di
uomini dai tratti sudamericani che avevano iniziato a sputare su di loro
vagonate di proiettili.
Dutch e Eda si
erano nascosti dietro ad un grosso camion da trasporto e cercavano di
rispondere al fuoco, Benny invece cercava in tutti i modi di mettere in moto il
suddetto camion unendo i fili.
«Ma si può sapere
che diavolo succede!?» tuonò dopo poco il vocione di Dutch, che grazie
all’orologio fu udito anche da Revy e gli altri «Ci sono più colombiani quaggiù
che a Bogotà nell’ora di punta!»
«Che cosa!? Anche
i Colombiani!?» disse Rock «Ma che sta succedendo!?»
«A quanto pare»
rispose Steven «Cercando di sbarazzarsi dei suoi ex alleati, Balalaika ha
voluto fare il passo più lungo della gamba.
Signori, confermo
ufficialmente che siamo coinvolti in una guerra tra mafie.»
«Quella stronza!»
disse Revy aprendo il baule degli armamenti dell’elicottero «Riesce a romperci
la palle anche da morta!».
In quella i due UH
60 da trasporto ripresero ad avanzare, e quando furono proprio sopra il tetto
diverse decine di uomini presero a calarsi di sotto servendosi ognuno della
propria fune.
Two-Hands recuperò
dalla cassa un lanciarazzi monocolpo e una coppia di AK-103, uno dei quali
venne lanciato a Steven, che intanto aveva raggiunto a sua volta il retro
dell’elicottero.
«Allora, pronti
per l’ultimo atto?» disse il giovane
«Si va’ in scena.»
rispose Revy sfoderando le sue pupe «Rock, tu resta qui.»
«D’accordo, fa
attenzione».
Steven aprì di
colpo il portello laterale e si mise a sparare senza sosta in direzione
dell’apache, attirando la sua attenzione; Revy invece, uscita da dietro, prese
a svuotare i suoi caricatori sui cinesi che già erano scesi sul tetto, stendendo
per primi i due che sparavano dai portelli aperti con le mitragliatrici
pesanti.
«Revy, ci sei?»
disse d’un tratto Dutch
«Sono un po’
impegnata al momento!»
«Ascolta, noi ce
ne andiamo! Siamo riusciti a mettere in moto un furgone! Cercheremo di farci
seguire da questi colombiani!»
«D’accordo!».
Dutch e Eda
riuscirono a salire poco dopo sul furgone che Benny aveva finalmente messo in
moto e partirono a tutta manetta in direzione del porto, nella speranza che
Probabilmente i
colombiani pensavano che
Ne nacque un
inseguimento senza quartiere che si protrasse per svariati minuti lungo le
strade di mezza città, fortunatamente semi-vuote, prive sia della vita notturna
ormai prossima alla fine che di quella giornaliera, ancora assopita.
Una delle macchine
inseguitrici, prendendo una curva, sbandò e finì in uno dei numerosi canali che
costeggiavano le strade della città, un’altra invece, il cui conducente venne
colpito in pieno da un colpi di Dutch, finì di traverso sulla carreggiata,
coinvolgendo tutte le altre in un grande incidente che ebbe come risultato
un’esplosione tanto grande da poter essere vista anche dalla terrazza
dell’Hotel Universe.
Qui intanto Revy e
Steven stavano incontrando una resistenza maggiore di quanto avessero
preventivato.
Ben protette dagli
equipaggi degli elicotteri le truppe d’assalto stavano impegnando seriamente
tutti e due i combattenti, e più il tempo passava più il rischio di lasciarci
la pelle si faceva concreto.
Il pericolo più
grande per la loro sicurezza rimaneva l’apache, perciò ad un certo punto
Steven, rintanatosi nel Mi-26, ne uscì con un grosso lanciarazzi.
«Beccati questo,
bastardo!».
Il pilota dapprima
tentò di sparargli, ma nel momento in cui Steven lanciò il razzo nessun
proiettile lo aveva colpito; volò quindi in alto nel tentativo di mettersi in
salvo, ma non vi fu nulla da fare. Centrato all’elica stabilizzatrice, l’apache
dapprima prese a girare vorticosamente su sé stesso, quindi andò a colpire uno
dei due UH 60, facendolo cadere a sua volta.
Entrambi i mezzi
andarono a schiantarsi sulla cupola della piscina, e l’esplosione che ne derivò
fu così forte da far tremare l’intero albergo, provocando in diversi punti il
crollo di colonne o pareti e la caduta di calcinacci.
L’elicottero
superstite, vista la mala parata, tentò di darsi alla fuga ma Revy non se lo
lasciò scappare e, sfoderato a sua volta il lanciarazzi, lo colpì in pieno,
facendolo precipitare sul tetto di un grattacielo poco lontano.
I continui crolli
fecero sentire i loro effetti anche nel planetario, dove lo scontro fra Kyuzo e
Yu-Ling continuava a ritmo incessante.
A differenza di
poco prima, stavolta Kaito sembrava in grado se non altro di opporre una
resistenza decisa agli attacchi micidiali della sua avversaria, ma nonostante
ciò cercava per quanto possibile di mantenersi sulla difensiva.
Così come la sua
forza fisica e la sua abilità nel combattimento, anche i poteri telepatici di
Yu-Ling sembravano decisamente superiori a quelli di Kaito, visto che le
bastava inarcare gli occhi per scatenare veri e propri uragani.
«Yu… Yu-Ling…»
disse Kaito rialzandosi dopo aver subito l’ennesimo attacco «Ti prego…
ascoltami…».
Lei però era, come
sempre, fredda come il ghiaccio, il suo volto era immobile come quello di una
bambola, e nonostante Kaito non sembrasse più intenzionato a proseguire il
combattimento lei rimaneva in posizione di guardia, pronta a scattare in
qualsiasi momento.
«Yu-Ling… non
costringermi a farti del male… non posso farlo…».
La ragazza di
nuovo non rispose, e anzi partì alla carica; Kaito, incredibilmente, non fece
nulla per tentare di difendersi, e il pugno al petto che ricevette lo fece
strisciare coi piedi sul pavimento per almeno tre metri; subito dopo Yu-Ling
tentò un nuovo assalto, e allora Kyuzo, rialzato lo sguardo, le sparò contro
una delle sue bombe d’aria che colpendola la fecero esitare il tempo
sufficiente per colpirla allo stomaco e costringerla a indietreggiare.
«Te l’ho detto.
Non voglio combattere con te. Ti prego, Yu-Ling. Tu non sei così. Hai sempre
detestato la violenza».
Forse ciò che
diceva Kaito era vero, ma di sicuro non corrispondeva all’attuale situazione,
perché Yu-Ling dopo poco, muovendosi a grande velocità, gli fu nuovamente
addosso.
Fra i due si
generò un secondo, tremendo scontro fisico, interrotto di tanto in tanto dai
piccoli terremoti provocati dal cedimento di alcune strutture dell’albergo.
Ad un certo punto
Kyuzo cercò di assestare alla ragazza un pugno al volto, ma lei, afferratogli
il braccio, lo storse lateralmente, quindi colpì il nemico con un calcio,
buttandolo a terra, e prima che potesse rialzarsi gli si buttò sopra.
Alzò la mano,
pronta ad infliggere il colpo di grazia; se non che, incrociando in quella gli
occhi di Kyuzo, che malgrado tutto rimanevano carichi del loro solito ardore,
Yu-Ling di colpo parve esitare, e differentemente da come aveva fatto fino a
quel momento seguitò a perdersi in quei riflessi neri.
«Yu-Ling. Non
farlo.
Dicevi sempre che persino
la forza fisica poteva essere usata per fare del bene. Harue è viva, e ha
bisogno di te. Io ho bisogno di te».
La ragazza non si
mosse, come paralizzata, poi i suoi occhi sembrarono, lentamente, inumidirsi di
alcune lacrime, che alla fine presero a rigare le sue candide guance.
«Ka… i… to…».
Era quello che
Kyuzo stava aspettando, il segno evidente che la personalità e lo spirito di
Yu-Ling c’erano ancora, che non erano andati perduti nel corso della lunga
inerzia alla quale era stata costretta; lei era ancora in grado di riprendere
il controllo, bastava solo aiutarla, eliminare ciò che la teneva incatenata.
Senza più
esitazioni Kaito chiuse gli occhi afferrò saldamente la ragazza, avvicinandola
a sé quel tanto che bastava per far toccare le loro fronti.
Vi fu una specie
di scarica, poi, come d’incanto, fu possibile per il giovane vedere
direttamente dentro la sua testa; malgrado avesse gli occhi chiusi, riusciva a
distinguere distintamente ogni singola parte del cervello di Yu-Ling, come se
fosse stato personalmente dentro di lei.
“Dove sei? Vieni
fuori!”.
Non c’era molto
tempo.
La personalità di
Yu-Ling poteva essere rimessa a tacere in qualunque momento, e con ogni
probabilità non sarebbe mai più stata in grado di emergere, offrendo a Kaito
l’occasione propizia per poterla salvare.
Finalmente, dopo
interminabili secondi, ecco apparire un minuscolo congegno nero simile ad un
chip per computer, installato all’interno della scatola cranica.
Era lui, non
c’erano dubbi. Il computer famoso di cui Samejima aveva parlato, quello in
grado di annullare la coscienza dell’individuo per trasformarlo in un mero
strumento.
“Ti ho trovato!”.
Il resto del
lavoro fu facile; bastava solo spingere i nanorobot presenti nel corpo di
Yu-Ling a considerare quell’apparecchio come un’entità estranea, e quindi
pericolosa, da attaccare e distruggere.
Nessuno tuttavia
poteva sapere se la distruzione del congegno avrebbe avuto ripercussioni sulla
ragazza; poteva anche darsi che da esso dipendesse ormai la sua stessa vita, ma
Kaito conosceva Yu-Ling abbastanza bene da sapere che mai avrebbe accettato di
diventare una mera macchina dispensatrice di morte.
I nanorobot,
ricevuto il comando, immediatamente si diressero sul loro obiettivo,
aggredendolo, fagocitandolo e ricavando da esso il nutrimento necessario alla
loro sopravvivenza.
Terminata
l’operazione Kyuzo interruppe il contatto telepatico, e nel giro di pochi
secondi Yu-Ling, apparentemente svenuta, cadde sopra di lui. Era esausta,
spossata, ma viva.
«Yu-Ling. Yu-Ling,
apri gli occhi. Riprenditi».
Dopo qualche
minuto la ragazza riaprì gli occhi; erano tornati ad essere quelli di sempre,
gli occhi gentili, innocenti ma determinati della Yu-Ling che Kyuzo aveva
sempre conosciuto e, forse, amato.
«Kaito… sei tu…»
«Meno male. Stai bene.»
«Io… sì. Ma cosa è
successo? Ho come… un vuoto di memoria.»
«Abbi pazienza.»
rispose lui aiutandola a rialzarsi «Ci sarà tempo per parlare di questo».
Improvvisamente,
pochi piani più sotto, una delle tante cucine disseminate nell’hotel saltò
interamente in aria; con la struttura già così destabilizzata l’esplosione fu
così forte da mandare in frantumi la cupola del planetario, ed enormi pezzi di
cemento armato piovvero sui due ragazzi.
Yu-Ling gridò per
la paura, dimostrando di non avere la benché minima idea del potere che le
scorreva nelle vene; Kaito, invece, alzò il braccio, e lentamente i tre blocchi
più grandi si fermarono, per poi andare a cadere pochi metri più in là, dove
non c’era pericolo.
«Ma… come hai
fatto!?» domandò Yu-Ling piena di stupore
«Anche di questo
si parlerà in seguito. Andiamo ora, prima che crolli tutto!».
Alzatisi e presisi
per mano, Kaito e Yu-Ling guadagnarono a loro volta l’uscita della stanza,
salirono le scale e sbucarono sul tetto; l’elicottero di Hotel Moskow, senza
più nessuno a dargli fastidio, aveva già acceso i motori, ed era pronto a
partire.
«Venite, da questa
parte!» gridò Revy affacciandosi dal portellone «Presto, presto!».
I due ragazzi li
raggiunsero, e Yu-Ling, subito dopo essere salita, cadde in un sonno profondo,
dovuto probabilmente ai postumi dello scontro; Rock, invece, scese dal posto
accanto al pilota per correre incontro al suo amico.
«Felice di
rivederti, Kaito.»
«Felice di
rivedere te.»
«Possiamo
andarcene anche subito, Kyuzo!» disse Steven «Quel mostro è già morto!»
«Davvero!? Ne sei
sicuro?»
«Sicurissimo!
Ringrazia Hibraim!».
Invece, in quello
stesso istante, il medesimo, terrificante ruggito, mille volte più animalesco e
assordante di prima, rimbombò in tutto l’albergo, gettando tutti coloro che ne
comprendevano l’origine nel panico più nero.
«Non ci posso
credere, è ancora vivo!» disse Revy «Ma quante vite ha quel bastardo!»
«Muoviti, Kaito!»
disse Steven «Sbrigati a salire, così ce ne andiamo e lo facciamo saltare!».
Il ragazzo, però,
non diede alcun segno di risposta, ed abbassò il capo con espressione
sconsolata.
«E pensare che per
un attimo ci avevo sperato.»
«Kaito, che stai
dicendo?» domandò Rock.
Lui restò un altro
po’ con la testa bassa, poi, con uno strano sorriso, mise in mostra il proprio
orologio da polso; somigliava molto a quello usato da Revy e dagli altri, ma
aveva uno schermo leggermente in basso, sul quale lampeggiava incessantemente
un led rosso.
Steven, vedendo
quelle flebile lucina, sentì un colpo al cuore, il suo sguardo parve spegnersi
per un istante e la sua espressione si fece di indicibile angoscia.
«No… no…»
«Che… che
succede?» chiese Okajima vedendo le loro espressioni
«La bomba nei
sotterranei è difettosa.» rispose Kyuzo con un’indifferenza apparentemente
sconfinata «E il sistema di detonazione a lunga distanza è fuori uso.»
«Ma allora… come
farai ad attivarla?».
A Rock Bastò
guardare Kyuzo negli occhi per capire quale fosse la risposta alla sua domanda,
ed allora comprese il motivo dello sgomento che si era materializzato in meno
di un secondo sul viso di Steven.
«No… Kaito, tu
non…».
Prima che potesse
finire la frase, prima che potesse anche solo pensare alle parole per
pronunciarla, Kaito lo scaraventò letteralmente dentro l’elicottero, chiudendo
immediatamente il portello e attivando la chiusura di sicurezza in modo che
Rock non la potesse riaprire.
«Kaito!» urlò
Okajima buttandosi sul finestrino.
Il ragazzo affondò
una mano nella giacca, prendendone fuori i cd ricevuti da Boris e l’unico
flacone di nanorobot rimasto in circolazione.
«Da’ questi a mia
sorella!» disse passandoglieli dalla piccola fessura fra il portello e la cima
del finestrino «Dalli a mia sorella, capito?»
«Kaito! Non puoi
fare questo! Pensa ad Harue! Devi badare a lei!»
«Lo farai tu,
amico mio.» rispose lui con voce sommessa, quasi completamente oscurata dal
rumore dell’elicottero «Quello è compito tuo, ora. Abbi cura di lei».
Kyuzo si girò
quindi verso Revy, che lo osservava dal portello. Si guardarono a lungo, poi il
ragazzo posò per l’ultima volta i propri occhi su Yu-Ling, che dormiva
profondamente distesa su una branda a rete.
«Dille… dille che
le volevo bene. E che le auguro ogni felicità.»
«Non sarà necessario.»
rispose Two-Hands col suo sorriso provocatorio «Credo che lo sappia già».
Anche Kaito
sorrise un istante, poi però fissò Revy con sguardo ammonitorio.
«Two-Rands! C’è
sempre un’alternativa! Ricordalo!».
Lei rimase
attonita, e per lunghi istanti non le riuscì di proferire parola, ma poi,
nuovamente, sorrise.
«Lo terrò a mente.
E non preoccuparti, dirò alla piccola Harue che razza di fratello si ritrovava.»
«Ti ringrazio…
andate ora!».
Revy chiuse il
portello, quindi il Mi-26 cominciò lentamente ad alzarsi mentre Rock, con gli
occhi inondati di pianto, sembrava cercare in tutti i modi di tornare giù.
«Kaito! Kaito! Non
puoi farlo! Kaito! Amico mio!»
«Perdonami,
Okajima! Alla fine di tutto, avevi ragione!».
«No! Non farlo!».
Kyuzo stette
immobile ad osservare l’elicottero che si allontanava, poi, quando fu certo che
fosse abbastanza lontano, si strappò l’orologio da polso, sul quale caddero
alcune lacrime.
«E così, siamo
giunti alla fine».
Stava quasi per
premere il bottone laterale e mettere fine a tutto, quando un’intera porzione
di tetto venne sfondata con incredibile fragore, e Samejima riemerse in tutta
la sua spaventosa potenza.
Come preannunciato
la sua figura era ugualmente mutata dall’ultima volta; le tre dita carnose della
mano sinistra si erano trasformate in altrettante, affilatissime spade di
trenta centimetri ognuna, e i piedi inizialmente umani avevano assunto un
aspetto quasi felino, con solo le punte a toccare terra.
Prima che Kaito
potesse compiere il suo dovere il mostro gli lanciò contro uno dei suoi
tentacoli, che dopo avergli afferrato una caviglia lo sollevò in aria come
fosse una piuma, scaraventandolo poi contro il parapetto del tetto. L’orologio,
a causa del tremendo impatto, gli cadde di mano, scivolando sulla pietra liscia
fin quasi sul lato opposto.
“Merda!”.
Dopo poco la
creatura ripartì alla carica, cercando di usare la sua forza erculea per
fracassare la testa di Kyuzo, ma il ragazzo riuscì a spostarsi in tempo, così a
venire distrutta fu un’intera porzione di parapetto.
A causa della
grossa voragine aperta da Samejima nel fare irruzione il tetto era
pericolosamente instabile, e si generavano costantemente delle crepe profonde,
ma questo non impedì ai due avversari di battersi furiosamente.
D’un tratto, quando
Kaito cercò di correre per recuperare l’orologio, nuovamente fu afferrato per
la caviglia da un tentacolo e lanciato via; sarebbe caduto nella voragine al
centro se, per un vero miracolo, non fosse riuscito ad aggrapparsi ad una tubo
di metallo sporgente.
Sotto di lui si
apriva un vuoto spaventoso, segno che Samejima doveva aver sfondato uno dopo
l’altro i pavimenti di tutti i piani per riuscire ad arrivare fino a lì; le
fiamme e il fumo la facevano già da padroni in gran parte della struttura, e
ormai non mancava più molto tempo al cedimento definitivo.
Se l’albergo fosse
crollato la bomba avrebbe potuto diventare inutilizzabile, e così facendo
Samejima sarebbe sopravvissuto, quindi non c’era un secondo da perdere.
Il mostro si
avvicinò al buco determinato a finire il lavoro, ma prima che i suoi lunghi
artigli tranciassero il tubo al quale era aggrappato Kaito, sfruttando
unicamente la forza dell’unica mano che stringeva la sua precaria ancora di
salvezza, riuscì a compiere un salto fuori dalla voragine di parecchi metri, e
mentre era ancora in aria sparò un poderoso spostamento d’aria verso la
creatura, determinato a farla cadere nel buco da lei stessa provocato per
fargli guadagnare un po’ di tempo.
Quello fu centrato
in pieno, ma il colpo non fu sufficientemente potente da ottenere l’effetto
sperato; poi, all’improvviso, emise un ruggito più forte, quasi liberatorio, ed
ecco che anche dal suo corpo si sprigionò un uragano di proporzioni colossali.
Kyuzo venne
colpito mentre era ancora in aria, e nuovamente fu scagliato via come non
avesse avuto peso; stavolta, però, nulla gli avrebbe impedito di volare oltre
il bordo del parapetto.
“Non posso! Non
posso arrendermi ora!”.
Il giovane cercò
di fare appello a tutto il potere di cui disponeva, consapevole del fatto che
tanto non ne avrebbe più avuto bisogno, e che quindi valeva la pena di
spenderlo fino all’ultima goccia; così divenne in grado di fare ciò che ogni
essere umano avrebbe sempre voluto sperimentare di persona, e dopo aver
rallentato la sua caduta all’indietro Kaito rimase sospeso nel nulla, come il
migliore dei prestigiatori.
Non c’era niente a
trattenerlo, e niente a collegarlo a terra; lui… stava volando.
L’ultimo traguardo
raggiungibile dai nanorobot, o almeno dal modello originario.
Era certo che se
Yu-Ling si fosse impegnata seriamente cose come quella sarebbero risultate per
lei ordinaria amministrazione, ma non era quello il momento di pensare a cose
simili.
Il mostro, che a
sua volta pareva stupito nel trovarsi davanti ad un simile evento, restò a
guardarlo mentre scendeva placidamente verso il basso e tornava ad appoggiare i
piedi sul tetto dell’hotel, poi, visibilmente infuriato, gli corse nuovamente
addosso, ma prima che potesse colpirlo un uragano poderoso come non mai lo
investì, sparandolo via come una palla di cannone.
Samejima cadde a
terra sul torace, e a quel punto Kyuzo, allungato un braccio, sollevò in aria
una decina di lunghi pali metallici accantonati da una parte che come tante
lance trafissero il mostro in più punti, inchiodandolo al suolo; quello gridò
ancora più forte, schiumando e ringhiando come un cane rabbioso.
Ad un nuovo cenno
di Kyuzo, ormai completamente libero da qualsiasi minaccia, l’orologio ancora
immobile si sollevò leggermente da terra e finì nella sua mano, poi il ragazzo
guardò, con un misto di disprezzo e compatimento, il mostro, che fece
altrettanto, digrignando le sue fauci spaventose.
«Non sarò più il
tuo burattino.» disse alzando l’orologio «Questa… è la fine… per entrambi.»
quindi, chiusi gli occhi, spinse il pulsante.
Un secondo dopo,
un boato assordante scosse l’intera città, e ad esso fece seguito un’esplosione
che fece tremare la terra.
Il marciapiede
tutto intorno all’Hotel Universe fu spazzato via, poi, come un letale effetto
domino, uno dopo l’altro tutti i piani dell’edificio esplosero fragorosamente
assieme ai loro morti, da Mr.Chang a Buffalo Kid, da Shenhua a Balalaika,
trasformando quello che si proponeva di diventare il più lussuoso ed invitante
albergo di Bangkok in un grande, immenso braciere che illuminò a giorno la
capitale del divertimento nel sud-est asiatico.
«No, no! Kaito!»
urlò Rock vedendo crollare la struttura fra il fuoco e il fumo.
Tutti piansero,
anche Revy, per la prima volta dopo tanti anni.
«Addio, Kaito.»
disse Steven asciugandosi le guance «E grazie».
Al sorgere del sole, su indicazione di Two-Hands, il Mi-26
raggiunse una piccola piattaforma oceanica a poca distanza dalla baia
cittadina, un tempo usata per il rifornimento delle grandi navi contenier, ma
ridotta ormai ad un quadrato di metallo arrugginito perso nel blu senza fine
del Golfo di Thailandia.
Lì, sul bordo,
accanto alla Lagoon, attendevano Dutch, Eda e Benny.
Per lunghissimi
minuti tutti rimasero immobili a guardare quella colonna di fumo nero che si
sollevava da un punto imprecisato di Bangkok, accompagnata dal suono
ininterrotto delle sirene.
Regnava il
silenzio; nessuno aveva voglia di parlare.
Troppe cose erano
cambiate quella notte, troppe vite erano state sacrificate, troppi uomini
valorosi avevano dato la loro vita per concedere a chi li avrebbe succeduti una
seconda possibilità.
Steven, rimasto
nell’elicottero, cercava in qualche modo di fare forza a Yu-Ling, che prima
ancora di apprendere della morte del padre era scoppiata in lacrime quando
aveva saputo cosa era successo a Kaito.
Poco lontano, Revy
fumava la prima sigaretta del mattino, mantenendosi però a distanza dai suoi
compagni, per evitare forse che si accorgessero delle lacrime che non smettevano
di scenderle dal viso.
Lei era forse la
persona che più di tutte aveva avuto la possibilità di trarre gli insegnamenti
maggiori dalla terribile serie di eventi che si erano succeduti all’interno di
quell’hotel maledetto, da quella casa del dolore mascherata da culla del
benessere e del divertimento.
In quel momento,
osservando il sole che a oriente cominciava la sua lenta ascesa, promise a sé
stessa di non lasciar cadere nel vuoto le ultime parole che quel supereroe da
quattro soldi le aveva affidato.
Per lei, era
giunto il momento di cercare l’alternativa, la sua seconda scelta; non sarebbe
stato facile, ma alla fine ci sarebbe riuscita; doveva riuscirci, per rispetto
nei confronti di colui che l’aveva salvata, ma soprattutto per sé stessa.
Rock, Dutch e
Benny rimanevano seduti sulla prua della Lagoon, con gli occhi piantati sulla
bella Bangkok che si preparava, nonostante tutto, ad un nuovo giorno.
Okajima aveva
smesso di piangere; non era quello il momento del pianto. Gli era stata affidata
una missione, un compito importante, e doveva portarlo a termine.
«Ehi, Rock.» disse
ad un certo punto Dutch senza distogliere lo sguardo dalla città «L’altro
giorno, prima di venire interrotti, avevi detto di avere una cosa importante da
dirci. Di che si tratta?».
Già. La cosa da
dirgli.
La decisione che
aveva preso già da tempo.
Non era cambiata,
tutt’altro, ma ora la vedeva con occhi completamente diversi; se prima la
considerava una decisione dettata dalla testa, e senza alcuna certezza per il
futuro, ora invece era dettata dal cuore, ed il futuro che essa apriva dinnanzi
a lui appariva senza confini.
«Sì, hai ragione.»
«E allora?»
domandò Benny con uno strano sorriso, come se sapesse già in anticipo di che si
trattava «Avanti, fuori la voce.»
«Io do le
dimissioni».
Quelle quattro
parole non sortirono per nulla l’effetto che Rock aveva inizialmente
immaginato; neanche Revy, che pure doveva aver sentito, si scompose, ma anzi
sembrò quasi sorridere, e altrettanto fecero Benny e Dutch.
«Dimissioni
accettate.» rispose il gigante nero passandogli la sua sigaretta
«E adesso cosa
farai?» chiese Benny.
Rock guardò i due
cd e la capsula di contenimento appoggiati accanto a lui, li prese in mano e
sollevò gli occhi al cielo, quel cielo azzurro baciato dal sole che, forse, non
avrebbe più rivisto per molto tempo.
«Innanzitutto, c’è
una cosa che devo fare. Una cosa importante. Poi, si vedrà».
Qualche ora dopo,
all’orizzonte, comparve un lussuoso yacht con le insegne delle Industrie
Kinomiya dipinte sulla prua; dalla grande imbarcazione si stacco quindi una
lancia con a bordo un giovane marinaio che raggiunse in pochi minuti le sponde
della piattaforma.
Steven e Yu-Ling
furono i primi a salirvi, poi fu il turno di Okajima.
Tuttavia, quando
vi fu davanti, qualcosa lo trattenne.
Forse era il
ricordo, il ricordo di ciò che quei quattro anni avevano saputo dare alla sua
anima; quante esperienze incredibili aveva vissuto, quante genti aveva
incontrato. Tutto ciò non lo avrebbe mai abbandonato, ma ora che si preparava a
lasciare quel mondo fatto di avventura, rischio e malvagità per tornare a
quello che, paradossalmente, costituiva il suo principale nemico sentiva
crescere dentro di sé il seme del dubbio.
Preoccupato, quasi
sognante, si volse, incrociando gli sguardi dei suoi quattro compagni, che lo
guardavano sorridendo.
Avrebbe voluto
parlare, ma non trovava le parole.
«Ecco… io…»
«Abbi cura di te,
Rock.» disse Dutch sollevando il pollice
«E sappi che
comunque vada» disse Benny facendo l’occhiolino «Questa porta sarà sempre
aperta.»
«Vi… vi
ringrazio».
Revy gli si
avvicinò, lo guardò dritto in volto quindi gli mollò un piccolo schiaffo sulla
guancia.
«Revy, ma cosa…»
«Guai a te se
oserai tornare in questo buco, mi sono spiegata?»
«Revy…»
«Tu» disse
sorridendo la ragazza «Eri portato per questa vita. Ma non è quella per cui sei
nato. Vai, torna al tuo mondo, e fai il possibile per cancellare questo.»
«Io…»
«Una volta ti ho
detto che non esistono Robin Hood nel tempo in cui viviamo, quel cretino di
Benny che dobbiamo tenerci questo mondo così com’è, e Dutch che qualsiasi
strada si tenti di percorrere le cose non possono cambiare.
Beh, dimostra a
questi tre idioti che si sbagliavano».
Nuovamente, Rock
si sentì vicino al momento del pianto, poi, senza capire niente di ciò che
stava facendo, afferrò Two-Hands, tirandola verso di sé. Lei, malgrado il
comprensibile stupore, non si ribellò, né durante né dopo quel bizzarro gesto.
«Tornerò, Revy.
Quando sarà tutto finito, verrò a riprenderti. Verrò a riprendere tutti voi.
Costruiremo insieme un mondo migliore.
Lo dobbiamo a
Kaito; lo faremo per lui, e per noi».
Revy ringraziò che
nessuno potesse vederla piangere, e anche mentre la lancia di allontanava con
Rokuro Okajima che continuava a salutarli con il braccio alzato tenne gli occhi
rivolto a terra; non riusciva a vederlo mentre si allontanava, e avrebbe tanto
voluto gridare il suo nome.
Nota dell’Autore
Eccoci qua! Eccoci
dunque arrivati alla fine dell’ultimo capitolo della fiction più breve che
abbia mai scritto.
I capitoli
conclusivi, a mio avviso, sono sempre i più difficili da scrivere, perché hai
sempre paura di risultare banale o ripetitivo, quindi nessuna pietà nel dirlo
se noterete la stessa cosa anche qui.
Ringrazio come al
solito i miei recensori, Selly, Beat, Gufo, Lisy, Carlitz e Diaras per i loro commenti.
Domani, o anche
stasera, l’epilogo.
A presto!^_^
Carlos Olivera