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Autore: Carlos Olivera    01/12/2008    2 recensioni
Un lavoro finito in tragedia, una famiglia distrutta, e un dolore che solo la morte potrà sanare.
Un ragazzo disperato cerca la sua vendetta, la vendetta è la sua unica amica, la sua ragione di vita.
In un mondo governato dalla violenza, egli stesso la userà per infliggere il giusto castigo agli artefici del suo dolore, imprigionandoli in un incubo surreale che dovrà spingerli ad uccidersi tra di loro.
Un solo nemico.
La Lagoon Company.
Una fiction che avevo in mente già da tempo, e che per adesso è ancora in fase di sviluppo. Verso la fine dovrebbe essere anche un po' Rock/Revy. Buona lettura!
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Kyuzo, Rock e Revy non si fidavano ad usare l’ascensore, visto che forse a causa dell’esplosione nella tromba delle scale un po’ tutto l’albergo si era destabilizzato, e la corrente andava e veniva in continuazione.

  Ringraziando il cielo non incontrarono altri Vysotniki, probabilmente perché erano stati già tutti uccisi da Samejima, quindi la salita verso l’alto procedette senza altri inconvenienti.

  Sfortunatamente la scala di servizio distrutta era l’unica strada diretta per arrivare sul tetto, ma era comunque possibile aggirare l’ostacolo passando per il grande planetario semisferico, dove si trovava una porta di servizio che immetteva in una seconda scalinata che partendo dall’ultimo piano arrivava sul tetto.

  I tre fuggiaschi entrarono nel planetario convinti di essere a due passi dalla salvezza, ma sulla loro strada incontrarono qualcuno intento a fermarli.

  Avrebbero dovuto aspettarselo; per quanto fosse stata ridotta a niente più che un mero strumento di morte, Yu-Ling era un avversario da non sottovalutare. Le era stato ordinato di uccidere tutti gli occupanti dell’hotel, e lei con ogni probabilità sapeva che gli ultimi rimasti, con tutte le uscite chiuse, non avrebbero avuto altra via d’uscita che il tetto, e con la strada diretta inutilizzabile non era stato molto difficile per lei aspettarli al varco.

  Non doveva però essere lì da molto, perché non c’era alcuna traccia di Steven e Hibraim, segno che probabilmente loro erano riusciti ad arrivare all’elicottero, dove magari li stavano già aspettando.

  Vedendo sbucare quella specie di demone vestito di bianco da dietro le poltrone che, disposte ad anfiteatro, occupavano un’intera metà della struttura, Revy e gli altri immediatamente si bloccarono, ben consapevoli di ciò che era in grado di fare.

  Kyuzo la guardò nuovamente dritta in volto, quindi si portò dinnanzi a loro.

  «Me ne occupo io. Voi andate.»

  «Cosa!?» disse Rock «Ma, Kaito…»

  «Non preoccupatevi, me la caverò.»

  «Sbaglio o l’ultima volta ti ha quasi ammazzato?» commentò Revy

  «Stavolta sarà diverso. Sta tranquilla. Inoltre, non posso vedere la mia amica Yu-Ling ridotta in questo stato. È mio dovere fare qualcosa per cercare di aiutarla».

  Revy e Rock erano palesemente indecisi, ma dopo un rapido calcolo dedussero che Kaito era probabilmente l’unico in grado ad opporsi ad una furia distruttrice come Yu-Ling, e che loro sarebbero stati solo d’impiccio, quindi alla fine decisero di dargli retta e di proseguire oltre.

  «Ricordati quello che ti ho detto. Sono io che devo ammazzarti, quindi cerca di non crepare.»

  «Tranquilla, non morirò prima di aver salvato Yu-Ling.»

  «Lo spero».

  Non appena i due compagni cominciarono a correre verso l’uscita Yu-Ling corse a sua volta verso di loro con l’intento di fermarli, ma Kaito fu più rapido di lei e allungato un braccio generò una sorta di spostamento d’aria che oltre a scaraventare la ragazza contro il muro sembrò quasi incollarla ad esso; questo espediente però risultò di breve durata, perché nell’istante stesso in cui i membri della Lagoon lasciavano il planetario Yu-Ling riuscì a liberarsi, ma invece che correre dietro ai fuggitivi la sua attenzione fu catturata tutta da Kyuzo.

  I due vecchi amici rimasero immobili, osservandosi entrambi con occhi senza vita, senza alcuna espressione. La cupola luminosa, ancora funzionante, proiettava su di loro la luce iridescente di una volta celeste che, benché finta, li rendeva simili a due eroi, due divinità pronte a darsi battaglia.

  La pelle chiara di Yu-Ling scintillava come il diamante, il volto serio e impassibile di Kyuzo sembrava quello di un dio della guerra, ma con lo sguardo di un peccatore in cerca di redenzione.

  Quello che Rock aveva detto era vero; non poteva dimenticare ciò che Yu-Ling aveva significato per lui, e forse proprio per questo non sarebbe mai stato realmente in grado di farle del male.

  Si erano conosciuti da piccoli, quando avevano rispettivamente sette e sei anni, e da quel giorno avevano condiviso tutto, gioie e dolori, dubbi e speranze.

  Ciò che maggiormente aveva deluso e addolorato Kaito era stato l’atteggiamento di Samejima, la crudeltà che aveva dimostrato nei confronti di quella che era diventata a tutti gli effetti sua figlia.

  All’inizio, quando Harue ancora non era nata, e Progetto Rebuild non era neppure nella memoria del presidente Kinomiya, Samejima era un uomo onesto, di grande carisma, e la stessa passione che metteva nel lavoro la metteva anche nel suo ruolo di padre.

  Yu-Ling era per lui come un raggio di sole, una figura amica che lo attendeva al rientro in una casa altrimenti vuota.

  La perdita della moglie a seguito di un brutto incidente stradale lo aveva devastato, e persino il lavoro nel quale aveva sempre riversato tutte le sue energie divenne di colpo qualcosa di effimero, senza alcun interesse.

  Per tentare di allontanarlo dai dolori che la sua casa, ma anche la stessa Tokyo, arrecavano al suo spirito, il suo capo lo aveva mandato in viaggio di lavoro in Cina, dove le Industrie Kinomiya avevano avuto modo di inimicarsi allo stesso tempo le Triadi e il governo centrale di Pechino con la loro propaganda contro lo sfruttamento e a favore dei diritti e del progresso compatibile.

  Forse per lanciare indirettamente un avvertimento a qualcuno che stava decisamente troppo in alto per poter essere colpito direttamente, la mafia cinese organizzò l’omicidio del facoltoso industriale Won-Shin Fei, prossimo partner aziendale dei Kinomiya, e di tutta la sua famiglia; solo la piccola Yu-Ling, che allora aveva cinque anni, sopravvisse, e per puro miracolo, perché al momento dell’esplosione della macchina lei era scesa assieme alla sua governante per guardare i volatili esposti in un negozio.

  Non avendo parenti in vita la sua destinazione poteva essere solamente l’orfanotrofio, o peggio ancora, vista la famiglia anticonformista dalla quale veniva, le case di correzione. Samejima, che con Won-Shin aveva avuto un rapporto di amicizia profonda prima che di lavoro, decise di adottarla, un’impresa non facile che lo costrinse a corrompere mezzo partito e a far espatriare la piccola clandestinamente.

  Yu-Ling all’inizio sembrava incapace di superare quel trauma, ma la vicinanza a tutte quelle persone che, come i suoi genitori, le volevano un bene sincero, oltre che profondo, riuscì pian piano ad intaccare il muro che aveva eretto attorno al suo cuore, permettendole di tornare a sorridere.

  Samejima era un padre modello, che chiedeva tanto ma che, allo stesso tempo, dava tanto, ricompensando adeguatamente l’ottimo rendimento sia scolastico che sportivo della sua adorata figliola sia con l’affetto sia coi regali.

  Ma poi era nata Harue, il Progetto Rebuild aveva preso il via, e Noboru non era più stato lo stesso.

  La sete di potere, il desiderio di emergere, o anche solo la semplice voglia di rivalsa possono spingere l’uomo a compiere atti orribili, a tradire i suoi ideali e la sua famiglia, e persino a compiere i gesti più riprovevoli, come usare la propria figlia al posto di una cavia e trasformarla in un essere privo di sentimenti il cui unico scopo è uccidere.

  Ma Kaito sapeva che Yu-Ling, quella vera, quella che aveva conosciuto e, forse, amato, era ancora lì, da qualche parte; il computer che aveva in testa aveva annullato la sua personalità, ma non l’aveva distrutta. Poteva e doveva riuscire a risvegliarla, e forse conosceva anche il modo per poterlo fare.

  «Yu-Ling! So che puoi sentirmi! Ti riporterò indietro! È una promessa!».

  Lei, come al solito, non batté ciglio, e anzi corse contro al suo obiettivo, cercando di colpirlo con un calcio che però venne agilmente parato.

  «Te ne sei scordata, amica mia?» disse Kyuzo, che subito dopo sprigionò uno spostamento d’aria tale da spedire la ragazza a parecchi metri di distanza «Con me lo stesso trucco non funziona due volte».

 

Nello stesso momento Revy e Rock, salita l’ultima rampa di scale, erano finalmente approdati sul tetto, o meglio su una delle tre torri che lo costituivano; oltre a quella centrale in cui si trovavano, la più alta, ce ne erano altre due, dove si trovavano rispettivamente la cupola del planetario e quella in vetro della piscina in cui Revy aveva combattuto contro Mr.Chang.

  La terrazza della torre centrale aveva una superficie di almeno trenta metri per lato, e a giudicare dai materiali da costruzione disseminati qui e là appariva chiaro che erano in programma altri lavori per un ulteriore innalzamento, lavori che con molta probabilità non avrebbero mai avuto luogo.

  In un angolo del tetto, poi, c’era una piattaforma per elicotteri posta leggermente più in alto, e sopra di essa un grosso Mil Mi-26; Steven, accanto al mezzo, faceva dei segni ai due compagni per dire loro di avvicinarsi.

  «Avanti, venite!».

  Loro, velocemente, cercarono di raggiungerlo, ma all’.

  «Dov’è Kaito?»

  «È stato trattenuto, ma arriverà.» rispose Revy

  «Dov’è Hibraim?»

  «Hibraim… è morto.»

  «Morto!?»

  «È stato Samejima, ma credo sia riuscito a farlo fuori.»

  «In tal caso, pace all’anima sua.» disse Two-Hands.

  In quella, dall’interno dell’elicottero giunse il segnale di un allarme; Steven salì a bordo e infilò le cuffie per capire di che si trattava.

  «Merda, tre elicotteri in avvicinamento a ore due!»

  «Che cosa!?» gridò Rock.

  Lui e Revy alzarono gli occhi al cielo nella direzione designata, e dopo pochi secondi dal cielo buio, ma che già cominciava a mostrare i primi chiarori dell’alba, sbucarono le luci abbaglianti di due grossi Black Hawk e un Apache che si avvicinavano sempre di più.

  «E quelli che cazzo vogliono?» domandò Revy.

  La risposta arrivò nel momento in cui uno dei due Black Hawk, fermatosi a una decina di metri più in alto del tetto, spedì verso di loro una sventagliata di mitra, mancando fortunatamente sia loro che i punti sensibili del Mi-26, sotto il quale si erano nascosti; anche Steven ne uscì illeso, grazie alla corazzatura antiproiettile dei finestrini dell’elicottero.

  «Ma che accidenti… quelli ci sparano!».

  Rock avanzò strisciando fino a che non fu in grado di distinguere bene i mezzi in questione, quindi, assieme alla sua partner, usò il portello posteriore del Mi-26 per salire a bordo.

  «Non sono russi.» disse affacciandosi dall’oblò

  «E tu come fai a dirlo?»

  «Hotel Moskow usa come armamenti l’immondizia dell’Unione Sovietica, quelli sono modelli americani.»

  «Ha ragione lui.» rispose Steven «Ho intercettato le loro comunicazioni. Quelli sono cinesi.»

  «Cinesi!?» esclamò Revy «E che diavolo ci fanno qui i cinesi!?»

  «Non sono riuscito a capire bene, ma credo siano qui per i nanorobot.»

  «Ma noi non li abbiamo!»

  «Questo loro lo sanno?» rispose Rock senza smettere di guardare fuori.

  Dopo la prima raffica tutti e tre i mezzi non avevano più sparato un colpo, limitandosi a rimanere sospesi in aria come se stessero ricevendo dei nuovi ordini.

  «Ma perché non tirano un missile e non la fanno finita?»

  «L’hai detto tu, probabilmente pensano che abbiamo i campioni a bordo.» rispose Steven infilando un nuovo caricatore nella sua pistola «Non possono certo permettersi di perderli».

  Revy, Rock e Steven non erano i soli ad essere nei guai.

  Prima di poter gioire appieno della loro ritrovata libertà, Dutch, Eda e Benny si erano visti circondare da una decina di macchine blindate da cui erano scesi una miriade di uomini dai tratti sudamericani che avevano iniziato a sputare su di loro vagonate di proiettili.

  Dutch e Eda si erano nascosti dietro ad un grosso camion da trasporto e cercavano di rispondere al fuoco, Benny invece cercava in tutti i modi di mettere in moto il suddetto camion unendo i fili.

  «Ma si può sapere che diavolo succede!?» tuonò dopo poco il vocione di Dutch, che grazie all’orologio fu udito anche da Revy e gli altri «Ci sono più colombiani quaggiù che a Bogotà nell’ora di punta!»

  «Che cosa!? Anche i Colombiani!?» disse Rock «Ma che sta succedendo!?»

  «A quanto pare» rispose Steven «Cercando di sbarazzarsi dei suoi ex alleati, Balalaika ha voluto fare il passo più lungo della gamba.

  Signori, confermo ufficialmente che siamo coinvolti in una guerra tra mafie.»

  «Quella stronza!» disse Revy aprendo il baule degli armamenti dell’elicottero «Riesce a romperci la palle anche da morta!».

  In quella i due UH 60 da trasporto ripresero ad avanzare, e quando furono proprio sopra il tetto diverse decine di uomini presero a calarsi di sotto servendosi ognuno della propria fune.

  Two-Hands recuperò dalla cassa un lanciarazzi monocolpo e una coppia di AK-103, uno dei quali venne lanciato a Steven, che intanto aveva raggiunto a sua volta il retro dell’elicottero.

  «Allora, pronti per l’ultimo atto?» disse il giovane

  «Si va’ in scena.» rispose Revy sfoderando le sue pupe «Rock, tu resta qui.»

  «D’accordo, fa attenzione».

  Steven aprì di colpo il portello laterale e si mise a sparare senza sosta in direzione dell’apache, attirando la sua attenzione; Revy invece, uscita da dietro, prese a svuotare i suoi caricatori sui cinesi che già erano scesi sul tetto, stendendo per primi i due che sparavano dai portelli aperti con le mitragliatrici pesanti.

  «Revy, ci sei?» disse d’un tratto Dutch

  «Sono un po’ impegnata al momento!»

  «Ascolta, noi ce ne andiamo! Siamo riusciti a mettere in moto un furgone! Cercheremo di farci seguire da questi colombiani!»

  «D’accordo!».

  Dutch e Eda riuscirono a salire poco dopo sul furgone che Benny aveva finalmente messo in moto e partirono a tutta manetta in direzione del porto, nella speranza che la Lagoon fosse ancora dove l’avevano lasciata al loro arrivo a Bangkok.

  Probabilmente i colombiani pensavano che la Lagoon fosse in affari con Hotel Moskow per la conquista dei nanorobot perché subito tutte le macchine sopravvissute alle granate di Dutch si misero immediatamente all’inseguimento dei fuggitivi abbandonando l’albergo.

  Ne nacque un inseguimento senza quartiere che si protrasse per svariati minuti lungo le strade di mezza città, fortunatamente semi-vuote, prive sia della vita notturna ormai prossima alla fine che di quella giornaliera, ancora assopita.

  Una delle macchine inseguitrici, prendendo una curva, sbandò e finì in uno dei numerosi canali che costeggiavano le strade della città, un’altra invece, il cui conducente venne colpito in pieno da un colpi di Dutch, finì di traverso sulla carreggiata, coinvolgendo tutte le altre in un grande incidente che ebbe come risultato un’esplosione tanto grande da poter essere vista anche dalla terrazza dell’Hotel Universe.

  Qui intanto Revy e Steven stavano incontrando una resistenza maggiore di quanto avessero preventivato.

  Ben protette dagli equipaggi degli elicotteri le truppe d’assalto stavano impegnando seriamente tutti e due i combattenti, e più il tempo passava più il rischio di lasciarci la pelle si faceva concreto.

  Il pericolo più grande per la loro sicurezza rimaneva l’apache, perciò ad un certo punto Steven, rintanatosi nel Mi-26, ne uscì con un grosso lanciarazzi.

  «Beccati questo, bastardo!».

  Il pilota dapprima tentò di sparargli, ma nel momento in cui Steven lanciò il razzo nessun proiettile lo aveva colpito; volò quindi in alto nel tentativo di mettersi in salvo, ma non vi fu nulla da fare. Centrato all’elica stabilizzatrice, l’apache dapprima prese a girare vorticosamente su sé stesso, quindi andò a colpire uno dei due UH 60, facendolo cadere a sua volta.

  Entrambi i mezzi andarono a schiantarsi sulla cupola della piscina, e l’esplosione che ne derivò fu così forte da far tremare l’intero albergo, provocando in diversi punti il crollo di colonne o pareti e la caduta di calcinacci.

  L’elicottero superstite, vista la mala parata, tentò di darsi alla fuga ma Revy non se lo lasciò scappare e, sfoderato a sua volta il lanciarazzi, lo colpì in pieno, facendolo precipitare sul tetto di un grattacielo poco lontano.

  I continui crolli fecero sentire i loro effetti anche nel planetario, dove lo scontro fra Kyuzo e Yu-Ling continuava a ritmo incessante.

  A differenza di poco prima, stavolta Kaito sembrava in grado se non altro di opporre una resistenza decisa agli attacchi micidiali della sua avversaria, ma nonostante ciò cercava per quanto possibile di mantenersi sulla difensiva.

  Così come la sua forza fisica e la sua abilità nel combattimento, anche i poteri telepatici di Yu-Ling sembravano decisamente superiori a quelli di Kaito, visto che le bastava inarcare gli occhi per scatenare veri e propri uragani.

  «Yu… Yu-Ling…» disse Kaito rialzandosi dopo aver subito l’ennesimo attacco «Ti prego… ascoltami…».

  Lei però era, come sempre, fredda come il ghiaccio, il suo volto era immobile come quello di una bambola, e nonostante Kaito non sembrasse più intenzionato a proseguire il combattimento lei rimaneva in posizione di guardia, pronta a scattare in qualsiasi momento.

  «Yu-Ling… non costringermi a farti del male… non posso farlo…».

  La ragazza di nuovo non rispose, e anzi partì alla carica; Kaito, incredibilmente, non fece nulla per tentare di difendersi, e il pugno al petto che ricevette lo fece strisciare coi piedi sul pavimento per almeno tre metri; subito dopo Yu-Ling tentò un nuovo assalto, e allora Kyuzo, rialzato lo sguardo, le sparò contro una delle sue bombe d’aria che colpendola la fecero esitare il tempo sufficiente per colpirla allo stomaco e costringerla a indietreggiare.

  «Te l’ho detto. Non voglio combattere con te. Ti prego, Yu-Ling. Tu non sei così. Hai sempre detestato la violenza».

  Forse ciò che diceva Kaito era vero, ma di sicuro non corrispondeva all’attuale situazione, perché Yu-Ling dopo poco, muovendosi a grande velocità, gli fu nuovamente addosso.

  Fra i due si generò un secondo, tremendo scontro fisico, interrotto di tanto in tanto dai piccoli terremoti provocati dal cedimento di alcune strutture dell’albergo.

  Ad un certo punto Kyuzo cercò di assestare alla ragazza un pugno al volto, ma lei, afferratogli il braccio, lo storse lateralmente, quindi colpì il nemico con un calcio, buttandolo a terra, e prima che potesse rialzarsi gli si buttò sopra.

  Alzò la mano, pronta ad infliggere il colpo di grazia; se non che, incrociando in quella gli occhi di Kyuzo, che malgrado tutto rimanevano carichi del loro solito ardore, Yu-Ling di colpo parve esitare, e differentemente da come aveva fatto fino a quel momento seguitò a perdersi in quei riflessi neri.

  «Yu-Ling. Non farlo.

  Dicevi sempre che persino la forza fisica poteva essere usata per fare del bene. Harue è viva, e ha bisogno di te. Io ho bisogno di te».

  La ragazza non si mosse, come paralizzata, poi i suoi occhi sembrarono, lentamente, inumidirsi di alcune lacrime, che alla fine presero a rigare le sue candide guance.

  «Ka… i… to…».

  Era quello che Kyuzo stava aspettando, il segno evidente che la personalità e lo spirito di Yu-Ling c’erano ancora, che non erano andati perduti nel corso della lunga inerzia alla quale era stata costretta; lei era ancora in grado di riprendere il controllo, bastava solo aiutarla, eliminare ciò che la teneva incatenata.

  Senza più esitazioni Kaito chiuse gli occhi afferrò saldamente la ragazza, avvicinandola a sé quel tanto che bastava per far toccare le loro fronti.

  Vi fu una specie di scarica, poi, come d’incanto, fu possibile per il giovane vedere direttamente dentro la sua testa; malgrado avesse gli occhi chiusi, riusciva a distinguere distintamente ogni singola parte del cervello di Yu-Ling, come se fosse stato personalmente dentro di lei.

  “Dove sei? Vieni fuori!”.

  Non c’era molto tempo.

  La personalità di Yu-Ling poteva essere rimessa a tacere in qualunque momento, e con ogni probabilità non sarebbe mai più stata in grado di emergere, offrendo a Kaito l’occasione propizia per poterla salvare.

  Finalmente, dopo interminabili secondi, ecco apparire un minuscolo congegno nero simile ad un chip per computer, installato all’interno della scatola cranica.

  Era lui, non c’erano dubbi. Il computer famoso di cui Samejima aveva parlato, quello in grado di annullare la coscienza dell’individuo per trasformarlo in un mero strumento.

  “Ti ho trovato!”.

  Il resto del lavoro fu facile; bastava solo spingere i nanorobot presenti nel corpo di Yu-Ling a considerare quell’apparecchio come un’entità estranea, e quindi pericolosa, da attaccare e distruggere.

  Nessuno tuttavia poteva sapere se la distruzione del congegno avrebbe avuto ripercussioni sulla ragazza; poteva anche darsi che da esso dipendesse ormai la sua stessa vita, ma Kaito conosceva Yu-Ling abbastanza bene da sapere che mai avrebbe accettato di diventare una mera macchina dispensatrice di morte.

  I nanorobot, ricevuto il comando, immediatamente si diressero sul loro obiettivo, aggredendolo, fagocitandolo e ricavando da esso il nutrimento necessario alla loro sopravvivenza.

  Terminata l’operazione Kyuzo interruppe il contatto telepatico, e nel giro di pochi secondi Yu-Ling, apparentemente svenuta, cadde sopra di lui. Era esausta, spossata, ma viva.

  «Yu-Ling. Yu-Ling, apri gli occhi. Riprenditi».

  Dopo qualche minuto la ragazza riaprì gli occhi; erano tornati ad essere quelli di sempre, gli occhi gentili, innocenti ma determinati della Yu-Ling che Kyuzo aveva sempre conosciuto e, forse, amato.

  «Kaito… sei tu…»

  «Meno male. Stai bene.»

  «Io… sì. Ma cosa è successo? Ho come… un vuoto di memoria.»

  «Abbi pazienza.» rispose lui aiutandola a rialzarsi «Ci sarà tempo per parlare di questo».

  Improvvisamente, pochi piani più sotto, una delle tante cucine disseminate nell’hotel saltò interamente in aria; con la struttura già così destabilizzata l’esplosione fu così forte da mandare in frantumi la cupola del planetario, ed enormi pezzi di cemento armato piovvero sui due ragazzi.

  Yu-Ling gridò per la paura, dimostrando di non avere la benché minima idea del potere che le scorreva nelle vene; Kaito, invece, alzò il braccio, e lentamente i tre blocchi più grandi si fermarono, per poi andare a cadere pochi metri più in là, dove non c’era pericolo.

  «Ma… come hai fatto!?» domandò Yu-Ling piena di stupore

  «Anche di questo si parlerà in seguito. Andiamo ora, prima che crolli tutto!».

  Alzatisi e presisi per mano, Kaito e Yu-Ling guadagnarono a loro volta l’uscita della stanza, salirono le scale e sbucarono sul tetto; l’elicottero di Hotel Moskow, senza più nessuno a dargli fastidio, aveva già acceso i motori, ed era pronto a partire.

  «Venite, da questa parte!» gridò Revy affacciandosi dal portellone «Presto, presto!».

  I due ragazzi li raggiunsero, e Yu-Ling, subito dopo essere salita, cadde in un sonno profondo, dovuto probabilmente ai postumi dello scontro; Rock, invece, scese dal posto accanto al pilota per correre incontro al suo amico.

  «Felice di rivederti, Kaito.»

  «Felice di rivedere te.»

  «Possiamo andarcene anche subito, Kyuzo!» disse Steven «Quel mostro è già morto!»

  «Davvero!? Ne sei sicuro?»

  «Sicurissimo! Ringrazia Hibraim!».

  Invece, in quello stesso istante, il medesimo, terrificante ruggito, mille volte più animalesco e assordante di prima, rimbombò in tutto l’albergo, gettando tutti coloro che ne comprendevano l’origine nel panico più nero.

  «Non ci posso credere, è ancora vivo!» disse Revy «Ma quante vite ha quel bastardo!»

  «Muoviti, Kaito!» disse Steven «Sbrigati a salire, così ce ne andiamo e lo facciamo saltare!».

  Il ragazzo, però, non diede alcun segno di risposta, ed abbassò il capo con espressione sconsolata.

  «E pensare che per un attimo ci avevo sperato.»

  «Kaito, che stai dicendo?» domandò Rock.

  Lui restò un altro po’ con la testa bassa, poi, con uno strano sorriso, mise in mostra il proprio orologio da polso; somigliava molto a quello usato da Revy e dagli altri, ma aveva uno schermo leggermente in basso, sul quale lampeggiava incessantemente un led rosso.

  Steven, vedendo quelle flebile lucina, sentì un colpo al cuore, il suo sguardo parve spegnersi per un istante e la sua espressione si fece di indicibile angoscia.

  «No… no…»

  «Che… che succede?» chiese Okajima vedendo le loro espressioni

  «La bomba nei sotterranei è difettosa.» rispose Kyuzo con un’indifferenza apparentemente sconfinata «E il sistema di detonazione a lunga distanza è fuori uso.»

  «Ma allora… come farai ad attivarla?».

  A Rock Bastò guardare Kyuzo negli occhi per capire quale fosse la risposta alla sua domanda, ed allora comprese il motivo dello sgomento che si era materializzato in meno di un secondo sul viso di Steven.

  «No… Kaito, tu non…».

  Prima che potesse finire la frase, prima che potesse anche solo pensare alle parole per pronunciarla, Kaito lo scaraventò letteralmente dentro l’elicottero, chiudendo immediatamente il portello e attivando la chiusura di sicurezza in modo che Rock non la potesse riaprire.

  «Kaito!» urlò Okajima buttandosi sul finestrino.

  Il ragazzo affondò una mano nella giacca, prendendone fuori i cd ricevuti da Boris e l’unico flacone di nanorobot rimasto in circolazione.

  «Da’ questi a mia sorella!» disse passandoglieli dalla piccola fessura fra il portello e la cima del finestrino «Dalli a mia sorella, capito?»

  «Kaito! Non puoi fare questo! Pensa ad Harue! Devi badare a lei!»

  «Lo farai tu, amico mio.» rispose lui con voce sommessa, quasi completamente oscurata dal rumore dell’elicottero «Quello è compito tuo, ora. Abbi cura di lei».

  Kyuzo si girò quindi verso Revy, che lo osservava dal portello. Si guardarono a lungo, poi il ragazzo posò per l’ultima volta i propri occhi su Yu-Ling, che dormiva profondamente distesa su una branda a rete.

  «Dille… dille che le volevo bene. E che le auguro ogni felicità.»

  «Non sarà necessario.» rispose Two-Hands col suo sorriso provocatorio «Credo che lo sappia già».

  Anche Kaito sorrise un istante, poi però fissò Revy con sguardo ammonitorio.

  «Two-Rands! C’è sempre un’alternativa! Ricordalo!».

  Lei rimase attonita, e per lunghi istanti non le riuscì di proferire parola, ma poi, nuovamente, sorrise.

  «Lo terrò a mente. E non preoccuparti, dirò alla piccola Harue che razza di fratello si ritrovava.»

  «Ti ringrazio… andate ora!».

  Revy chiuse il portello, quindi il Mi-26 cominciò lentamente ad alzarsi mentre Rock, con gli occhi inondati di pianto, sembrava cercare in tutti i modi di tornare giù.

  «Kaito! Kaito! Non puoi farlo! Kaito! Amico mio!»

  «Perdonami, Okajima! Alla fine di tutto, avevi ragione!».

  «No! Non farlo!».

  Kyuzo stette immobile ad osservare l’elicottero che si allontanava, poi, quando fu certo che fosse abbastanza lontano, si strappò l’orologio da polso, sul quale caddero alcune lacrime.

  «E così, siamo giunti alla fine».

  Stava quasi per premere il bottone laterale e mettere fine a tutto, quando un’intera porzione di tetto venne sfondata con incredibile fragore, e Samejima riemerse in tutta la sua spaventosa potenza.

  Come preannunciato la sua figura era ugualmente mutata dall’ultima volta; le tre dita carnose della mano sinistra si erano trasformate in altrettante, affilatissime spade di trenta centimetri ognuna, e i piedi inizialmente umani avevano assunto un aspetto quasi felino, con solo le punte a toccare terra.

  Prima che Kaito potesse compiere il suo dovere il mostro gli lanciò contro uno dei suoi tentacoli, che dopo avergli afferrato una caviglia lo sollevò in aria come fosse una piuma, scaraventandolo poi contro il parapetto del tetto. L’orologio, a causa del tremendo impatto, gli cadde di mano, scivolando sulla pietra liscia fin quasi sul lato opposto.

  “Merda!”.

  Dopo poco la creatura ripartì alla carica, cercando di usare la sua forza erculea per fracassare la testa di Kyuzo, ma il ragazzo riuscì a spostarsi in tempo, così a venire distrutta fu un’intera porzione di parapetto.

  A causa della grossa voragine aperta da Samejima nel fare irruzione il tetto era pericolosamente instabile, e si generavano costantemente delle crepe profonde, ma questo non impedì ai due avversari di battersi furiosamente.

 D’un tratto, quando Kaito cercò di correre per recuperare l’orologio, nuovamente fu afferrato per la caviglia da un tentacolo e lanciato via; sarebbe caduto nella voragine al centro se, per un vero miracolo, non fosse riuscito ad aggrapparsi ad una tubo di metallo sporgente.

  Sotto di lui si apriva un vuoto spaventoso, segno che Samejima doveva aver sfondato uno dopo l’altro i pavimenti di tutti i piani per riuscire ad arrivare fino a lì; le fiamme e il fumo la facevano già da padroni in gran parte della struttura, e ormai non mancava più molto tempo al cedimento definitivo.

  Se l’albergo fosse crollato la bomba avrebbe potuto diventare inutilizzabile, e così facendo Samejima sarebbe sopravvissuto, quindi non c’era un secondo da perdere.

  Il mostro si avvicinò al buco determinato a finire il lavoro, ma prima che i suoi lunghi artigli tranciassero il tubo al quale era aggrappato Kaito, sfruttando unicamente la forza dell’unica mano che stringeva la sua precaria ancora di salvezza, riuscì a compiere un salto fuori dalla voragine di parecchi metri, e mentre era ancora in aria sparò un poderoso spostamento d’aria verso la creatura, determinato a farla cadere nel buco da lei stessa provocato per fargli guadagnare un po’ di tempo.

  Quello fu centrato in pieno, ma il colpo non fu sufficientemente potente da ottenere l’effetto sperato; poi, all’improvviso, emise un ruggito più forte, quasi liberatorio, ed ecco che anche dal suo corpo si sprigionò un uragano di proporzioni colossali.

  Kyuzo venne colpito mentre era ancora in aria, e nuovamente fu scagliato via come non avesse avuto peso; stavolta, però, nulla gli avrebbe impedito di volare oltre il bordo del parapetto.

  “Non posso! Non posso arrendermi ora!”.

  Il giovane cercò di fare appello a tutto il potere di cui disponeva, consapevole del fatto che tanto non ne avrebbe più avuto bisogno, e che quindi valeva la pena di spenderlo fino all’ultima goccia; così divenne in grado di fare ciò che ogni essere umano avrebbe sempre voluto sperimentare di persona, e dopo aver rallentato la sua caduta all’indietro Kaito rimase sospeso nel nulla, come il migliore dei prestigiatori.

  Non c’era niente a trattenerlo, e niente a collegarlo a terra; lui… stava volando.

  L’ultimo traguardo raggiungibile dai nanorobot, o almeno dal modello originario.

  Era certo che se Yu-Ling si fosse impegnata seriamente cose come quella sarebbero risultate per lei ordinaria amministrazione, ma non era quello il momento di pensare a cose simili.

  Il mostro, che a sua volta pareva stupito nel trovarsi davanti ad un simile evento, restò a guardarlo mentre scendeva placidamente verso il basso e tornava ad appoggiare i piedi sul tetto dell’hotel, poi, visibilmente infuriato, gli corse nuovamente addosso, ma prima che potesse colpirlo un uragano poderoso come non mai lo investì, sparandolo via come una palla di cannone.

  Samejima cadde a terra sul torace, e a quel punto Kyuzo, allungato un braccio, sollevò in aria una decina di lunghi pali metallici accantonati da una parte che come tante lance trafissero il mostro in più punti, inchiodandolo al suolo; quello gridò ancora più forte, schiumando e ringhiando come un cane rabbioso.

  Ad un nuovo cenno di Kyuzo, ormai completamente libero da qualsiasi minaccia, l’orologio ancora immobile si sollevò leggermente da terra e finì nella sua mano, poi il ragazzo guardò, con un misto di disprezzo e compatimento, il mostro, che fece altrettanto, digrignando le sue fauci spaventose.

  «Non sarò più il tuo burattino.» disse alzando l’orologio «Questa… è la fine… per entrambi.» quindi, chiusi gli occhi, spinse il pulsante.

  Un secondo dopo, un boato assordante scosse l’intera città, e ad esso fece seguito un’esplosione che fece tremare la terra.

  Il marciapiede tutto intorno all’Hotel Universe fu spazzato via, poi, come un letale effetto domino, uno dopo l’altro tutti i piani dell’edificio esplosero fragorosamente assieme ai loro morti, da Mr.Chang a Buffalo Kid, da Shenhua a Balalaika, trasformando quello che si proponeva di diventare il più lussuoso ed invitante albergo di Bangkok in un grande, immenso braciere che illuminò a giorno la capitale del divertimento nel sud-est asiatico.

  «No, no! Kaito!» urlò Rock vedendo crollare la struttura fra il fuoco e il fumo.

  Tutti piansero, anche Revy, per la prima volta dopo tanti anni.

  «Addio, Kaito.» disse Steven asciugandosi le guance «E grazie».

 

Al sorgere del sole, su indicazione di Two-Hands, il Mi-26 raggiunse una piccola piattaforma oceanica a poca distanza dalla baia cittadina, un tempo usata per il rifornimento delle grandi navi contenier, ma ridotta ormai ad un quadrato di metallo arrugginito perso nel blu senza fine del Golfo di Thailandia.

  Lì, sul bordo, accanto alla Lagoon, attendevano Dutch, Eda e Benny.

  Per lunghissimi minuti tutti rimasero immobili a guardare quella colonna di fumo nero che si sollevava da un punto imprecisato di Bangkok, accompagnata dal suono ininterrotto delle sirene.

  Regnava il silenzio; nessuno aveva voglia di parlare.

  Troppe cose erano cambiate quella notte, troppe vite erano state sacrificate, troppi uomini valorosi avevano dato la loro vita per concedere a chi li avrebbe succeduti una seconda possibilità.

  Steven, rimasto nell’elicottero, cercava in qualche modo di fare forza a Yu-Ling, che prima ancora di apprendere della morte del padre era scoppiata in lacrime quando aveva saputo cosa era successo a Kaito.

  Poco lontano, Revy fumava la prima sigaretta del mattino, mantenendosi però a distanza dai suoi compagni, per evitare forse che si accorgessero delle lacrime che non smettevano di scenderle dal viso.

  Lei era forse la persona che più di tutte aveva avuto la possibilità di trarre gli insegnamenti maggiori dalla terribile serie di eventi che si erano succeduti all’interno di quell’hotel maledetto, da quella casa del dolore mascherata da culla del benessere e del divertimento.

  In quel momento, osservando il sole che a oriente cominciava la sua lenta ascesa, promise a sé stessa di non lasciar cadere nel vuoto le ultime parole che quel supereroe da quattro soldi le aveva affidato.

  Per lei, era giunto il momento di cercare l’alternativa, la sua seconda scelta; non sarebbe stato facile, ma alla fine ci sarebbe riuscita; doveva riuscirci, per rispetto nei confronti di colui che l’aveva salvata, ma soprattutto per sé stessa.

  Rock, Dutch e Benny rimanevano seduti sulla prua della Lagoon, con gli occhi piantati sulla bella Bangkok che si preparava, nonostante tutto, ad un nuovo giorno.

  Okajima aveva smesso di piangere; non era quello il momento del pianto. Gli era stata affidata una missione, un compito importante, e doveva portarlo a termine.

  «Ehi, Rock.» disse ad un certo punto Dutch senza distogliere lo sguardo dalla città «L’altro giorno, prima di venire interrotti, avevi detto di avere una cosa importante da dirci. Di che si tratta?».

  Già. La cosa da dirgli.

  La decisione che aveva preso già da tempo.

  Non era cambiata, tutt’altro, ma ora la vedeva con occhi completamente diversi; se prima la considerava una decisione dettata dalla testa, e senza alcuna certezza per il futuro, ora invece era dettata dal cuore, ed il futuro che essa apriva dinnanzi a lui appariva senza confini.

  «Sì, hai ragione.»

  «E allora?» domandò Benny con uno strano sorriso, come se sapesse già in anticipo di che si trattava «Avanti, fuori la voce.»

  «Io do le dimissioni».

  Quelle quattro parole non sortirono per nulla l’effetto che Rock aveva inizialmente immaginato; neanche Revy, che pure doveva aver sentito, si scompose, ma anzi sembrò quasi sorridere, e altrettanto fecero Benny e Dutch.

  «Dimissioni accettate.» rispose il gigante nero passandogli la sua sigaretta

  «E adesso cosa farai?» chiese Benny.

  Rock guardò i due cd e la capsula di contenimento appoggiati accanto a lui, li prese in mano e sollevò gli occhi al cielo, quel cielo azzurro baciato dal sole che, forse, non avrebbe più rivisto per molto tempo.

  «Innanzitutto, c’è una cosa che devo fare. Una cosa importante. Poi, si vedrà».

  Qualche ora dopo, all’orizzonte, comparve un lussuoso yacht con le insegne delle Industrie Kinomiya dipinte sulla prua; dalla grande imbarcazione si stacco quindi una lancia con a bordo un giovane marinaio che raggiunse in pochi minuti le sponde della piattaforma.

  Steven e Yu-Ling furono i primi a salirvi, poi fu il turno di Okajima.

  Tuttavia, quando vi fu davanti, qualcosa lo trattenne.

  Forse era il ricordo, il ricordo di ciò che quei quattro anni avevano saputo dare alla sua anima; quante esperienze incredibili aveva vissuto, quante genti aveva incontrato. Tutto ciò non lo avrebbe mai abbandonato, ma ora che si preparava a lasciare quel mondo fatto di avventura, rischio e malvagità per tornare a quello che, paradossalmente, costituiva il suo principale nemico sentiva crescere dentro di sé il seme del dubbio.

  Preoccupato, quasi sognante, si volse, incrociando gli sguardi dei suoi quattro compagni, che lo guardavano sorridendo.

  Avrebbe voluto parlare, ma non trovava le parole.

  «Ecco… io…»

  «Abbi cura di te, Rock.» disse Dutch sollevando il pollice

  «E sappi che comunque vada» disse Benny facendo l’occhiolino «Questa porta sarà sempre aperta.»

  «Vi… vi ringrazio».

  Revy gli si avvicinò, lo guardò dritto in volto quindi gli mollò un piccolo schiaffo sulla guancia.

  «Revy, ma cosa…»

  «Guai a te se oserai tornare in questo buco, mi sono spiegata?»

  «Revy…»

  «Tu» disse sorridendo la ragazza «Eri portato per questa vita. Ma non è quella per cui sei nato. Vai, torna al tuo mondo, e fai il possibile per cancellare questo.»

  «Io…»

  «Una volta ti ho detto che non esistono Robin Hood nel tempo in cui viviamo, quel cretino di Benny che dobbiamo tenerci questo mondo così com’è, e Dutch che qualsiasi strada si tenti di percorrere le cose non possono cambiare.

  Beh, dimostra a questi tre idioti che si sbagliavano».

  Nuovamente, Rock si sentì vicino al momento del pianto, poi, senza capire niente di ciò che stava facendo, afferrò Two-Hands, tirandola verso di sé. Lei, malgrado il comprensibile stupore, non si ribellò, né durante né dopo quel bizzarro gesto.

  «Tornerò, Revy. Quando sarà tutto finito, verrò a riprenderti. Verrò a riprendere tutti voi. Costruiremo insieme un mondo migliore.

  Lo dobbiamo a Kaito; lo faremo per lui, e per noi».

  Revy ringraziò che nessuno potesse vederla piangere, e anche mentre la lancia di allontanava con Rokuro Okajima che continuava a salutarli con il braccio alzato tenne gli occhi rivolto a terra; non riusciva a vederlo mentre si allontanava, e avrebbe tanto voluto gridare il suo nome.

 

Nota dell’Autore

Eccoci qua! Eccoci dunque arrivati alla fine dell’ultimo capitolo della fiction più breve che abbia mai scritto.

I capitoli conclusivi, a mio avviso, sono sempre i più difficili da scrivere, perché hai sempre paura di risultare banale o ripetitivo, quindi nessuna pietà nel dirlo se noterete la stessa cosa anche qui.

Ringrazio come al solito i miei recensori, Selly, Beat, Gufo, Lisy, Carlitz e Diaras per i loro commenti.

Domani, o anche stasera, l’epilogo.

A presto!^_^

Carlos Olivera

  
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