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Autore: Koa__    09/02/2015    5 recensioni
Sherlock Holmes, pazzo, geniale, sociopatico e talentuoso musicista, ha sempre vissuto con un violino in una mano e la solitudine nell’altra. Almeno fino al giorno in cui, una sera d’estate, su di un treno da Siviglia diretto a Londra, non incontra un insolito zoppo un po’ meno idiota degli altri e che rivoluziona radicalmente tutta la sua vita.
[Sequel di: ‘Blu come la neve’]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Blu come la neve'
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Sequel di "Blu come la neve", per quanti di voi non l'avessero letta, vi sconsiglio di proseguire con questa. In quanto è necessario leggere l'altra per comprendere alcune dinamiche, specie perché è un universo alternativo in cui Sherlock non è un consulente investigativo, ma un violinista con la passione per il mestiere di detective. E John non è mai stato un medico, ma è un ex maggiore dell'esercito, che dopo il congedo è diventato uno scrittore.
Ringrazio Amaerise che l'ha letta in anteprima.



He, Jawn
 

 

Mozart è leggero, delicato, ha un fraseggio dolce e lineare, ma abbellito da tanti piccoli dettagli che Sherlock ama sottolineare dando loro maggior enfasi, regalandogli così una vita che un comune interprete non si premurerebbe di dar loro. Mozart è una boccata d’aria fresca dopo una giornata di polveroso studio ed è talmente differente dalla complessità narrativa di Bach che, spesso, quando attacca un Andante si estrania al punto da riconoscersi a stento. Non gli pare d’essere lui nemmeno l’uomo che, ora e vestito della sola vestaglia, suona alla finestra di un Grand Hotel parigino, scrutando le linee della città attraverso i ricci della frangetta che gli ricadono sulla fronte. Mozart. Ha optato per lui stamattina, perché sa quanto a John piaccia e visto che oggi è una giornata importante (a meno, a detta sua). Quindi ha pensato bene di festeggiare con qualcosa di speciale. Lui, che suona solo Bach perché è la matematica che diventa arte ciò di cui interessa, il rigore scientifico dei numeri quello che gli importa, lui che non suona mai Mozart per nessuno se non per sé stesso e soltanto nell’intimità della sua vasta mente, è disposto a farlo per rendere felice lo scrittore abbastanza famoso con cui ora divide casa e vita. John Watson, che non gli muove mai richieste specifiche e non gli dice: suona questo o quello, perché sostiene di non intendersene di musica classica, il che è piuttosto vero dato che, dopo un anno e mezzo che lo sente suonare, ammette di non notare le differenze tra barocco e romantico. Lo stesso suo quasi fidanzato, che con molto imbarazzo, ha ammesso di sapere chi fosse Mozart esclusivamente per sentito dire e che in un’occasione, quando Sherlock gli ha regalato l’Allegro della Sonata in Si bemolle maggiore, ne è rimasto estasiato. Quella volta, la prima in cui suonava Mozart per lui, dopo che ha concluso il brano sottolineando il finale con uno svolazzare di vestaglia ed un’arcata più marcata del dovuto, l’apatico Holmes si è ritrovato ad arrossire come una scolaretta. Sì, è proprio arrossito. Non gli era mai capitata prima d’allora una cosa del genere, ma le sue guance si sono tinte di rosso alla vista di quel volto stralunato e ai complimenti dirompenti che ne sono seguiti subito dopo. Fantastico, stupendo, eccezionale, unico! Quando John inizia a snocciolare belle parole riguardo il suo talento musicale, è in grado di far scongelare quell’iceberg che di nome fa Sherlock Holmes. Di tanto in tanto, quindi, succede che gli suona un qualcosa di Mozart per il puro desiderio di fargli piacere. Perché è così delicato, tanto leggero ma ricco al tempo stesso, che non si può non amarlo. E sempre, sempre il moto d’orgoglio che prende possesso della sua mente frenetica, è un po’ più prepotente, un po’ più dirompente. In pratica, si sente come se gli iniettassero in vena della gioia pura. È la sensazione più bella che abbia mai provato in tutta la vita. Lui a cui danno del genio pazzo, del brillante stronzo, lui che viene lodato e infangato della stampa e spesso in un unico articolo, si scioglie come un fiocco di neve sotto il sole d’agosto, quando Watson, scrittore di successo, lo guarda in quel modo lì. Pare che, incredibilmente, John abbia un’espressione soltanto per lui. I suoi occhi infatti si tingono di stima e rispetto, d’ammirazione e sincerità. E se durante i primi tempi insieme si meravigliava di quanto quell’uomo più che normale, potesse renderlo assurdamente orgoglioso semplicemente mormorando un: meraviglioso, pronunciato a bocca aperta e con sguardo trasognante, adesso non si stupisce più. Perché è un dato oggettivo, è acclarato, il fatto che gli abbia donato sensazioni che anima viva si sarebbe mai premurato di fargli avere. Ciò che presto è riuscito ad accettare è che, in nome di quello sguardo colmo di venerazione, Sherlock farebbe ogni cosa. Suonare per qualcuno che non sia lui stesso, pertanto, è il minimo. E anche se si tratta di Mozart. Mozart che è prezioso. Mozart che è l’emblema di quel lato dolce e sensibile che con tanta fatica ha mascherato dietro un logico rigore matematico. Nessuno merita di ascoltarlo suonato da lui, se non John Hamish Watson scrittore di successo; e oggi più che in altre occasioni. Sospira, Sherlock mentre lo sguardo gli si perde in direzione dell’Arc de Triomphe ed accentua un passaggio, enfatizzando il movimento dell’arco. Non sa come mai stia pensando alla bellezza senza tempo di Parigi, di solito è John quello che ama perdersi in sciocche fantasie, ma tornare lì e dopo più di un anno gli fa venire in mente quella notte. Pare sia accaduto ieri, il che è assurdo a dirsi. Ma più della stranezza di quei ricordi in sé, c’è una sensazione che non riesce ad accantonare; dopo un anno e mezzo gli pare sia trascorso un solo giorno. Il che è a dir poco insensato, eppure le immagini che ha di loro su quel treno da Siviglia gli scorrono nitide e chiare davanti agli occhi. Ci sono lui e John ed una scatola di latta piena di gioielli, un bacio rubato in una cambusa, Bach, i tetti di Parigi, Blu come la neve. È tutto lì a portata di memoria e non è necessario nemmeno concentrarsi eccessivamente, gli bastano le note di Mozart e l’idea che quel legame, il loro, sia nato proprio per i vicoli di Parigi. Sherlock ha conservato ogni più piccolo ed insignificante dettaglio in quell’enorme palazzo della memoria che è il suo cervello. C’è tutto lì dentro. Ed in quell’enorme marea di sensazioni ce n’è uno, il più prezioso, che conserva come fosse una reliquia: ci sono loro due sul tetto che guardano le linee della città in una notte che persino lui è riuscito a sentire come fosse speciale. In quella serata estiva, oltre al vento fresco e ai profumi di Montmartre, c’è lo sciocco idealismo di John e la logica di Sherlock. Ci sono due universi così distanti fra loro da sembrare irraggiungibili l’uno all’altro, ma che si incastrano perfettamente una volta avvicinatisi. Quanto poco senso c’è nel ritornare con la mente a quel periodo… E pensare, tutto sommato, che si ritiene un uomo razionale e indugiare nei sentimenti non è attività adatta a lui. Non lo è mai stata. Dev’essere Parigi a farlo vacillare in questo modo, o magari è l’accostamento di quella città al loro incontro dopo il concerto. Non sa di preciso di chi sia la colpa, se lo stare con John abbia rammollito le sue facoltà mentali, ma si perde nei ricordi e indugia in essi e nelle emozioni. Rivive quella notte, la loro notte, come se stesse accadendo adesso con il fraseggio impudente Mozart, così ricco di sberleffi e classicismi, a fargli da sottofondo. Ed è soltanto dopo che la musica cessa che Sherlock ritorna brutalmente alla realtà. Si è lasciato cullare dalle note di quella sonata e ora il presente è quasi fastidioso, doloroso al punto che percepisce un brivido di freddo corrergli giù lungo la schiena e gelargli le ossa. La bolla è scoppiata, la magia si è spezzata e non c’è nemmeno la sua Londra fuori dalla finestra a rincuorarlo. No, perché non si trova nel suo soggiorno al 221b di Baker Street, ma in una camera d’albergo fredda e asettica. E non gli piace. Si innervosisce tutte le volte che deve andar via da casa, specie se ha del lavoro da fare come ne avrebbe in questo periodo. Dovrebbe essere seppellito tra le partiture sparpagliate ovunque, ma disposte secondo un senso che solo per lui ha una logica. In effetti, è dove vorrebbe trovarsi adesso. Ma ha fatto un’eccezione e l’ha fatta per John, il quale ha scelto Parigi per la presentazione del suo ultimo romanzo domandandogli di esserci. Gli ha detto che le volte in cui sarebbe voltato, tra una domanda di un giornalista e l’altra, avrebbe voluto incrociare il suo sguardo e vederlo, scorgere il suo volto di certo annoiato tra la folla. Terribilmente romantico, ha commentato Sherlock con fare sardonico, ma acconsentendo senza fare troppe storie. Gli ha detto di sì perché… beh, perché per Jawn farebbe ogni cosa e sarebbe ogni cosa e no, non c’è sensatezza in questo. [1] Del romanzo non gli importa niente, non ne hanno nemmeno mai parlato anche se gliel’ha dato da leggere, chiedendogli un parere. Sherlock però non ricorda se lo ha sfogliato oppure no, e se lo ha fatto lo ha rimosso perché non degno di considerazione. E non hanno discusso neanche del motivo per cui sono dovuti venire sino in Francia per presentare un libro. A questa domanda, già sa la risposta. Si tratta di un fatto sentimentale, il che è drammaticamente tipico di John.
«Se avessi con me» esordisce, appena il riecheggio delle note svanisce, attutito da mura e tende «tutta la polvere di casa nostra sarebbe venuta meglio, Mozart viene sempre meglio con la polvere» borbotta Sherlock, divertito, piegando gli angoli della bocca all’insù e ridendo senza darlo troppo a vedere. Sa che quando sfiora l’argomento pulizia lo fa arrabbiare molto più di quanto non sarebbe lecito. John gradirebbe vivere in una casa pulita e non in una topaia, è così che lo rimprovera aiutato ovviamente dalle petulanti lamentele di Mrs Hudson, sempre pronta a dar manforte a chiunque gli dia contro con simili sciocchezze.
«Questo posto è troppo pulito» rincara la dose, prima di posare il violino sulla poltrona al suo fianco, ma è esattamente in quel momento che si rende conto che uno strano silenzio impera nella stanza.

Ora, intelligente, Sherlock Holmes lo è sempre stato. Fin da bambino quando, già al di sopra della media, veniva sostenuto dai suoi insegnanti che gli mostravano un tenue e distaccato entusiasmo per le sue abilità. Era decisamente geniale, come esultavano invece i suoi genitori sprizzando gioia ed orgoglio da tutti i pori ed era anche “pur sempre meno intelligente di me”, come blaterava suo fratello maggiore Mycroft e con il solo scopo di ingigantire il suo ego. Ovviamente con la crescita le sue doti non sono che migliorate, anche se le sfrutta per attività meno piratesche di quelle a cui auspicava quando era un bambino; in ogni caso è sempre più soddisfatto di sé. Pertanto, non gli occorrono che pochi istanti per intuire che c’è qualcosa di strano, che la camera d’albergo nella quale alloggiano è fin troppo silenziosa. Dov’è John? Si chiede in principio, con fare più istintivo che razionale. Per un frangente viene addirittura preso dal panico, ma tenta immediatamente di porre rimedio alla propria immotivata emotività e si guarda attorno, deciso ad agire con più sensatezza. Fa quindi quel che gli riesce meglio oltre che suonare, ovvero deduce. Non si trova in bagno, si dice come prima cosa perché se lì fosse si sarebbe fatto sentire con un bravo, un bellissimo, un complimento di quelli che fa sempre… e poi, John non va al bagno mentre Sherlock suona Mozart. No, non è lì che si trova e dato che mancano anche giacca e cellulare e che le scarpe non sono più sotto al letto, intuisce che è uscito. Il pensiero che se ne sia andato mentre erano nel bel mezzo di un brano, inizialmente lo infastidisce soltanto, ma dopo che afferra il telefono già è più stizzoso nei movimenti. Il messaggio che John gli ha inviato è di un quarto d’ora prima, non l’ha sentito! Il che non è poi così assurdo dato che neanche si è reso conto dello scorrere del tempo.
‒ Sono con Mike  recita il breve testo. Parole che sono in grado di suscitare una rabbia immotivata, un’ira profonda che viene fuori come in un’esplosione. Non c’è ragione di provare simili sentimenti, non è di sicuro la prima volta che John si vede con un amico e lui stesso ha incontrato Mike Stamford in qualche rara occasione. Non c’è motivo di essere geloso e non dovrebbe neanche essere tanto arrabbiato. Eppure, quel vuoto che percepisce allo stomaco e che gli attanaglia le viscere come in una morsa, è lì con un senso ben preciso. Forse è esagerato metterla in questi termini, ma si sente tradito perché stava suonando per lui ed è sparito prima che finisse. E non si trattava di un Rondò qualsiasi, era un Concerto di Mozart, quello che a lui, al suo John, piace davvero tanto. Quindi non risponde al messaggio, si limita a lasciarsi cadere sulla poltrona ed avvolto dalla sua vestaglia azzurrina e da un umore nero come la pece, attende che faccia ritorno. Perché John è suo. Perché i momenti al violino sono solo loro e nessuno, nessuno può permettersi di rubarli.
 


 
*



Quando John rientra in camera, Sherlock nemmeno se ne rende conto. Sa solo che ad un certo punto si trova il suo volto a pochi centimetri dal proprio, e per poco non sussulta violentemente. Il che non è nemmeno poi tanto strano, ha perso la cognizione del tempo e dello spazio e dopo che ha finito di suonare, si è immerso nel suo palazzo della memoria e da lì non ne è più uscito. In un primo momento il suo unico scopo era quello di sedare la rabbia, e placare l’ira, ma poi ha iniziato a ricordare tutte le liti vissute con John, ognuna di essere dalla più grave alla più stupida. Per qualche frangente è stato addirittura tentato di andare giù di sotto e trascinarlo via, intimandogli di mettersi a sedere alla sua poltrona e di non allontanarsi fino alla fine del Concerto. Non l’ha fatto. Ed anche se ci è andato terribilmente vicino, non si è mai alzato dalla poltrona. Sa che si sarebbe arrabbiato se lo avesse fatto e stranamente da quando dividono casa, di quello che pensa John, gli importa molto più di quanto non gli sia mai importato di anima viva. Vero è che ogni tanto è divertente litigarci, gli stuzzica un non so che cosa alla bocca dello stomaco facendogli battere forte il cuore. Altre volte invece non gli piace perché lo fanno con una violenza tale, da far credere realmente che sì, potrebbero addirittura lasciarsi. John, in quelle occasioni se ne va via sbattendo la porta, per poi fare ritorno dopo un paio d’ore ed infilarsi a letto al suo fianco. Lo stringe e gli bacia la nuca, cingendolo da dietro e senza nemmeno parlare, non spiega mai le sue motivazioni, nessuno di loro ha bisogno di sapere perché stiano ancora insieme nonostante tutto. Così è, e basta. Eppure, Sherlock non può fare a meno di domandarsi se l’ennesimo diverbio si risolverà al solito modo, se l’uomo che gli ha cambiato la vita deciderà che vale la pena continuare a vivere al suo fianco. Sherlock non può ritenersi un esperto in relazioni sentimentali, non ne ha mai avuta una perché per lui c’era solo la musica. Il suo Stradivari e le sue note, messe una di fila a quell’altra, piccole e nere, preziose più di un bacio. Sono sempre stati soli, lui e il suo violino, e mai ha avuto spazio per dell’altro. Mai gli è importato di qualcuno. Tranne forse… ma no, Redbeard è un discorso chiuso e poi era un bambino all’epoca. Eppure e nonostante abbia vissuto sempre senza nessuno a fianco, non si è lamentato una singola volta della propria emarginazione, si diceva che era meglio che condividere momenti preziosi dell’esistenza con persone troppo idiote anche solo per stargli vicino. Questo è sempre stato Sherlock Holmes: un uomo con un violino in una mano e la solitudine nell’altra. A meno fino al momento in cui, una sera d’estate, su di un treno da Siviglia a Londra, non ha incontrato un insolito zoppo un po’ meno idiota degli altri e che ha radicalmente condizionato tutta la sua vita. E nel giro di poche ore si è ritrovato a fare le cose più impensate, come baciare qualcuno e, fatto ben più grave, a chiedere aiuto a suo fratello. Sherlock detesta domandare favori specie a quel grassone saccente di Mycroft, che non perde occasione di rimarcare quanto più bravo lui sia, quanto madre natura lo abbia dotato di un’intelligenza decisamente superiore e di come il piccolo di casa Holmes non ci possa fare proprio niente. Ma questo, in effetti, ancora è un’inezia. La cosa più incredibile che John Watson gli ha fatto fare, è stata tremare. Sì, tremare. Là, all’Operà di Parigi, prima di entrare in scena e con violino ed archetto impugnati con mano insolitamente più salda del solito, tremava di paura. Perché per la prima volta avrebbe avuto un pubblico di cui gli importava, qualcuno a cui far sentire per davvero la sua musica, le grandi abilità tecniche ed interpretative, qualcuno il cui giudizio era prezioso quanto un diamante blu. Ed è una sensazione indescrivibile e indimenticabile e che, dannazione, ancora adesso lo fa fremere. Per fortuna ora riesce a domare i sussulti e si limita a mandare all’aria qualche zona del suo cervello; il che è esattamente ciò che è accaduto adesso. Dopo aver visto la camera da letto vuota, la sua prima reazione è stata violenta, estrema e assolutamente passionale e Sherlock non è abituato ad esserlo, a sentirsi geloso. Già, geloso. Si è scoperto ad esserlo terribilmente ed in una maniera totalizzante e brutale, quasi ossessiva a volte, oscura e non buona, di certo. In parte lo è sempre stato, questo sì, ma in maniera del tutto differente. Ogni musicista lo è del proprio strumento, ad ognuno piace coccolarlo e trattarlo con le dovute attenzioni, riporlo nella custodia facendo sì che anima viva lo tocchi è quasi un bisogno fisico. È un rapporto quasi simbiotico e come se lo strumento fosse un prolungamento di sé stesso, un’appendice del corpo. E chi non ha cura delle proprie mani? O della propria voce? Sherlock ne ha del proprio Stradivari, ma non può affermare si tratti dello stesso sentimento che nutre per John. No, quella ha a che vedere con la passione e col possesso, che con il prendersene cura. Sherlock non ha mai saputo spiegare il concetto neanche a sé stesso, tantomeno è riuscito a dirlo a John. Anzi, soprattutto a lui. Di sentimenti non parlano mai, seppur si sia sentito ripetere fino allo sfinimento questi “ti amo” di cui tanto ha sentito parlare e che per chiunque sembrano essere così importanti. Semplicemente, non sa cosa significhi. Se amare è sentire tutto questo, il possesso, la gelosia, la rabbia, l’ira, il desiderio, la voglia di suonare solo per lui, il tenere al proprio pubblico al punto da dare il meglio di sé una mattina di un lunedì alle otto, con John ancora in pigiama che sorseggia del tè ai mirtilli e Billie sopra il camino. Se amare è tutto questo, allora sì: lo ama. Ma se non lo è? Sherlock non ne ha idea e non vuole sbagliare perché il rischio è che John fugga, e non può permettersi di perderlo. Non ora che l’ha trovato. Per questo motivo quando solleva il volto e se lo ritrova di fronte carico di un fare indagatore che difficilmente gli appartiene, non gli risponde. Non reagisce con quella rabbia appassionata che ha provato oramai ore fa perché, in effetti, già è svanita. Soltanto, rimane fermo dove si trova e con le dita intrecciate a sorreggere il mento, fissa uno Watson preoccupato della sua salute.

«Sherlock, sei tra noi? Non vorrei distoglierti da, beh, qualsiasi cosa tu stia facendo, ma è ora di andare se vogliamo mangiare prima della conferenza stampa.» Pranzo? Conferenza stampa? Tenta di ritornare alla realtà, ma adesso che ha aperto tutte le porte non è facile riporre al loro posto brandelli di conversazione, piuttosto che pezzi di frasi sull’amore raccattate da qualche libro di sua madre. Ed infatti, John è costretto a ripetersi visto che rientrare al presente pare essere tanto difficile.
«Sherl, se non ti sbrighi me ne vado da solo al ristorante e sai quanto mi scocci, visto che passerei tutto il tempo a pensare a te che non hai mangiato come al solito, e che te ne stai rinchiuso qui dentro a pensare a chissà che.» Si ritrova ad annuire proprio mentre richiude l’ultimo cassetto mnemonico ed aver riordinato ogni pensiero come si deve. Fa addirittura per alzarsi, ma proprio quando si sta per sfilare la vestaglia, si volta e con fare precipitoso gli dice ciò che gli preme di fargli sapere. Perché ci sono tante cose (troppe) che è più saggio tenere per sé, come la propria follia, ma altre che vale la pena confessare.
«Io voglio che tu sia felice, John.» Ed è già un termine così complesso da discernere, che Sherlock si sente un emerito stupido. Cos’è la felicità? Inizialmente credeva che per John fosse riuscire a scrivere un romanzo, ma poi ha capito che era anche il sentirlo suonare. Con il tempo e la convivenza ha compreso che la felicità, per il suo scrittore è stare immerso nel proprio universo, ma farlo convivere nella medesima stanza di Sherlock Holmes. Questo è essere felici, o almeno lo è stato. Infatti non è mai accaduto che lo lasciasse a metà di un’esecuzione; perché oggi invece sì? Che cosa è cambiato? Forse perché sentirlo suonare non lo rende più felice. Sì, è senz’altro così ed è esattamente per questo motivo che glielo deve dire, gli deve dire assolutamente che è disposto a fare qualsiasi cosa per tenerlo con sé.
«Intendo dire» mormora, senza dargli tempo di ribattere, né di tentare di capire che cosa diavolo stia blaterando «che posso suonare anche Beethoven se è questo quello che vuoi. Se preferisci la musica contemporanea o quella schifo di roba celtica io posso dartela, posso imparare anche un altro strumento se il violino non ti piace più. E posso anche stare con te mentre ti fanno domande stupide sul tuo ultimo libro, basta che tu non… che…»
«Sherl, Sherl, fermo» mormora John, in risposta facendosi più vicino e prendendo le mani fra le sue come se desiderasse placare un tremito che però non lascia trapelare. Non più, almeno. «So bene che detesti tutto questo e che vorresti essere a casa a  comporre o a studiare, non credere che non apprezzi la tua presenza qui. Per me è importante e sì, saperti al mio fianco mi rende felice e anche sentirti suonare il violino. Te lo dico sempre che sei così bravo, non capisco perché dovresti imparare un altro strumento.»
«E allora perché te ne sei andato?» Non sa perché glielo domanda, ma le parole sono uscite dalla sua bocca senza che se ne rendesse neanche conto. Sa di aver detto troppo e di aver portato la situazione ad un passo dal baratro, nel momento in cui posa lo sguardo sul di un viso non più sereno, ma teso e nervoso. Tornare indietro è ora impossibile, adesso dovrà riuscire ad affrontare le conseguenze; d’altra parte non è ciò che Mycroft gli ripete da che sono bambini?
«E questo cosa vorrebbe dire?» gli chiede John, è arrabbiato e lo deduce facilmente dalle labbra contratte e dai pugni serrati. Forse è in quel momento che sbaglia atteggiamento, ma lì per lì non se ne rende neanche conto. Non capisce che la finta noncuranza e l’indifferenza provocano nello scrittore Watson un’ira, probabilmente, più che motivata.
«Quello che ho detto, John» ribatte lui, prontamente «mi ripeti che ti piace sentirmi suonare e che ti va bene quello che ti propongo, però oggi sei andato via nel bel mezzo di un Concerto di Mozart e il fatto è inconcepibile. Non ti eri mai comportato così prima di oggi, è stato irritante non trovarti quando ho finito di suonare. Se lo vuoi sapere ho provato sentimenti di rabbia che, sai, non gradisco affatto.»
«Tu ti sei arr…» John è incredulo, lo si intuisce perfettamente dal tono di voce carico di stupore misto a rimprovero, però non si tratta solo di questo è furente e sembra che più Sherlock parli e più lo faccia innervosire. Beh, si dice in un lampo di cieca crudeltà, se lui sta affrontando le conseguenze del troppo parlare, il suo compagno lo deve fare del suo essersene andato. E, per la miseria, non è John che dovrebbe essere arrabbiato.
«Ascolta» prosegue lo scrittore, con fare ora più condiscendente e probabilmente tentando di porre rimedio. Probabilmente. Già perché ciò che dice dopo, lascia Sherlock assolutamente basito.
«Comprendo che sia assurdo anche semplice il pensarlo, ma il mondo non gira attorno a te. E sai cosa? Sono stato proprio un idiota a pensare che mi avresti appoggiato e che ci saresti stato.»
«Mi pare di essere qui, no?» ribatte, di nuovo, ma ora è decisamente molto più seccato. Non capisce l’irritazione di John, il che lo rende nervoso e stranamente agitato.
«Oh, certo e mi hai fatto davvero un gran favore; non è vero? Cos’è ora vuoi farmela pure pesare? Io giro il mondo per poterti stare accanto mentre sei in tour e tu non puoi una volta, una singola volta, fare lo stesso per me e senza farmi notare che hai speso un po’ del tuo preziosissimo tempo per il fottutissimo sottoscritto? E no, caro, in questa storia siamo in due. Oggi è il mio giorno e a te invece non frega niente e, cazzo sì, stamattina sono uscito mentre suonavi perché, tu pensa, Mike Stamford ovvero l’uomo a cui devo la mia intera carriera, è venuto apposta da Londra per assistere al lancio del libro.»
«Anch’io sono venuto apposta da Londra, ma questo non ti impedisce di darmi contro e senza una ragione» mormora Holmes, sempre più acido, sempre più carico di un evidente fastidio. Non gradisce la conversazione che lui stesso ha causato, che i suoi stupidi sentimenti di gelosia hanno provocato. Il fatto è che ha scatenato un uragano e nemmeno se ne rende conto. Conseguenze. Questa lite è la causa delle sue azioni, delle sue parole, delle sue emozioni e non può fare niente altro se non affrontarle. Se non tentare di capire le ragioni di John e accettare i propri sentimenti.
«Se ti do contro è perché tu nei fai un dramma!» grida, furente.
«Qui se c’è uno che sta facendo dei drammi sei solo tu, John Watson e non capisco che cos’abbia Mike Stamford da meritare tanta attenzione.»
«Oh, Cristo» sbotta, a voce alta e mettendosi le mani nei capelli «Oh, Cristo santissimo! Tralascio le offese gratuite ad un mio amico, ma siamo a questi livelli adesso? Sei persino geloso di Mike?»
«Io geloso?» ribatte Sherlock, inorridendo vistosamente e con un fare teatrale del tutto tipico del personaggio che si è cucito addosso, una regina del dramma come pochi altri. «Per essere geloso di qualcuno, bisogna prima considerarlo quel qualcuno e Mike mi sembra davvero troppo poco se paragonato a me. Davvero non posso pensare che potresti tradirmi con un uomo del genere.»
«Eh, certo perché tu sei Dio, giusto? E io devo vivere in tua sola funzione e venerazione, non sia mai che qualcuno se ne vada nel bel mezzo di un’esecuzione del grande Sherlock Holmes. No, perché tu sei il miglior violinista al mondo, il più grande, il più geniale, l’unico in grado di suonare un brano di quel cazzo di Mozart e io devo rimanere seduto fino alla fine dei tuoi stupidissimi concerti senza fiatare perché altrimenti vai in crisi esistenziale. Ma la smetti una buona volta di pensare soltanto a te e di mettere me, per una volta, al primo posto? Io ti sto accanto perché ti amo e voglio farlo e tu invece… tu non puoi fare neanche lo sforzo di leggere il mio romanzo? Perché lo so che non l’hai letto. E no, perché noi, poveri e patetici mortali, siamo tutti troppo poco per il grande Sherlock Holmes. Sai che ti dico? Hanno ragione quelli che ti criticano e che dicono che tanta bravura è vanificata dal tuo essere un emerito stronzo. Perché lo sei, un gran bastardo figlio di puttana. Vorrei davvero averti tradito con Mike, almeno sarei colpevole di qualcosa di grave invece di averti soltanto lasciato per un paio d’ore.»
«L’avermi lasciato mentre suonavo è grave tanto quanto il tradirmi con un altro» urla Sherlock, anch’egli esasperato.
«Gesù santo, ma sei serio?» borbotta quindi John, ora però è diverso il suo atteggiamento e Sherlock se ne rende conto nell’istante in cui vede un lampo di delusione e dolore passare sui tratti di quel viso sempre sorridente. Infatti, poco dopo lo vede prendere la giacca e poi aprire la porta. Tuttavia, prima di chiudersela alle spalle si ferma sulla soglia e con ancora una mano a stringere la maniglia, si volta scrutandolo ed è di nuovo dolore quello che scorge nelle sue iridi blu. Un dolore che è ora lampante e chiaro così come la confusione e il disagio che prendono possesso della mente eccezionale di Holmes, mandando in tilt ogni cosa. Lo ha ferito e non comprende il motivo, non ha idea di come abbia fatto.
«Per mesi mi sono chiesto che cosa provassi per me, Sherlock. So quanto i sentimenti ti spaventino e credevo che se dirmelo era un problema allora me lo dimostravi con i fatti, con le tue musiche che tanto ami suonare per me. Ero fiero del fatto che riuscivi a dirmi che mi amavi in questo modo diverso, ma intenso e speciale. Mi sentivo un eletto. Una sorta di prescelto, uno che aveva avuto la più grande delle fortune. Ma oggi… tu non mi ami e ora finalmente l’ho capito. Perché se non sei disposto a mettere l’uomo con cui stai al primo posto, allora non c’è amore. Ma non ci voglio pensare, non ci devo pensare, questo è il mio giorno e tu e il tuo ego non me lo rovinerete» detto ciò, chiude la porta che sbatte violentemente. E Sherlock Holmes si ritrova solo.


Per un momento ogni cosa rimane cristallizzata, ma forse è Sherlock stesso a restare congelato dove si trova. Il fatto è, che è come se le parole di John ancora riecheggiassero nella stanza, come se fosse ancora lì a gridargli di essere uno stronzo. Forse è stato tutto un sogno, magari un incubo. No, se dormisse ora non sarebbe tanto spaventato. A fare la differenza con le illusioni c’è il respiro accelerato e il battere del cuore frenetico: ha sbagliato qualcosa, ne è certo. O meglio, erano le parole che John gli ha rivolto ad essere molto poco giuste perché non è vero che no lo ama e che non lo mette al primo posto. Lui è sempre al primo posto. Lui è in tutte le stanze del suo palazzo della memoria, è in ogni nota che suona, è ovunque anche quando non c’è, anche quando va da Mike. Non era Mike Stamford che voleva offendere, ha solo costatato l’ovvio ovvero che John Watson non potrebbe mai tradirlo, e per il semplice fatto che è limpido e onesto. E mentre pronunciava quelle parole gli sembrava così logico e giusto, che è rimasto stupito quando ha ribattuto in quel modo. Ha dato davvero l’impressione di essere geloso? Sherlock sa di esserlo, è uno di quei sentimenti che ha ormai ammesso di provare, che ha accettato assieme alla possessività e al volerlo avere accanto in ogni istante. La gelosia è un difetto nel suo sistema perfetto e ben funzionante di matematica, un sistema che ora è pieno di falle come una nave alla deriva su un fondale oceanico. Ha smesso da tempo di essere un faro solitario, Sherlock Holmes, di essere senza sentimenti, né emozioni. Adesso niente più Mr Spock. Ora è il passionale Bones. Un uomo istintivo, che si ritrova ad essere spaventato e impaurito, ad agire senza una logica ben precisa. È una sensazione del tutto nuova, quella che sta provando, perché trema come se fremesse di desiderio o rabbia. Allo stesso tempo però è differente dall’eccitazione o dal timore di deludere, adesso c’è un inquietudine di fondo che gli scava le viscere, che gli fa battere il cuore e vorticare i pensieri come fossero impazziti. Sherlock non ha mai avuto paura; sa cosa sia il dolore per la perdita e l’abbandono, ma non li hai mai temuti perché era convinto che ciò che ha sentito per la morte di Redbeard non gli si sarebbe mai più presentato. Adesso però è terrorizzato ed è costretto a stringersi le mani perché queste non tremino, e deve chiudere gli occhi per poter normalizzare il respiro e riportare la mente ad una più pacata tranquillità. Sta quasi per riuscirci quando un barlume di lucidità si impossessa di lui; e se John lo lasciasse? No, non lo può permettere. Perché lui lo ama e glielo dirà a costo di rendersi stupido o ridicolo, ma lo farà. Sì? Lo farà? E quindi lo ama? Davvero? Si era detto di non poter dare un nome a tutti quei sentimenti, ma forse se glieli elencasse, se gli dicesse tutti le emozioni che prova, magari John lo aiuterebbe a dare un senso a ciò che prova. Già, e se non lo facesse? Se non lo stesse a sentire dicendogli che deve cavarsela da solo? Sherlock non sa come reagirebbe ad una risposta del genere, ad un rifiuto netto. Pertanto si lascia cadere sul letto e prende a respirare lentamente. Ad occhi chiusi tutto è più facile ed immergersi nel proprio edificio mnemonico è decisamente più semplice. Lì, nella sua testa, Jawn è ovunque. È in ogni ricordo, anche in quello più remoto. È in ogni stanza. È sempre al suo fianco e lo osserva con un sorriso sghembo stampato in viso. Probabilmente è in quel momento, mentre si perde nel sorriso gioviale del suo John mentale, che si capisce, che comprende sé stesso fino ad accettarsi. Il punto è non aveva mai fatto caso al fatto che quello scrittore gli fosse entrato dappertutto. Ora però ha il possesso di ogni ricordo, di ogni nota, di ogni spartito; ha la chiave per tutte le emozioni possibili e il coltello per ferirlo a morte, una lama affilata ed appuntita che ora ha alla gola e che preme con forza sulla sua carotide. Una leggera pressione e Sherlock è morto, un’altra parola da parte di John Watson e la loro storia è finita. E non può, anzi non deve vivere un altro singolo e giorno senza di lui. Non ora che gli è entrato ovunque, non adesso che è dappertutto. John è il suo boccaglio, è la sua sacca di sangue, la sua bombola di ossigeno, la sua coperta di Linus: senza, Sherlock Holmes è perduto. E no, non si interroga su quando tutto questo abbia avuto inizio, su come abbia fatto a scorrergli nelle vene e a navigargli sotto pelle. Lo sa che è iniziato tutto un giorno d’estate di un anno e mezzo fa quando, lì a Parigi, ha intravisto John Watson dietro la porta del suo camerino. In quel momento si è sentito invaso da un’emozione senza controllo, da un sentimento insolito e atipico, assurdo per lui che è un Holmes. Perché non poteva essere certo che lo avrebbe raggiunto, nonostante le rassicurazioni di Mycroft sul fatto che ci fosse. Sì, si dice annuendo lievemente, è stato in quel momento che lo ha fatto entrare, che gli ha permesso di divampare come un incendio, di possederlo mente e cuore. E da allora non ha potuto fare altro che farsi bruciare e ora se ne sta lì, steso sul materasso di una camera da letto parigina e si domanda come mai John non sia al suo fianco. O perché lo abbia lasciato andare senza corrergli dietro. Deve pensare. Sherlock ha bisogno di pensare e come prima cosa prende tutti i sentimenti che sa di nutrire e li raduna in una scatola, un cofanetto che fatto di velluto e che si tinge di rosso scarlatto. Dolcezza e passione, come il suo Jawn. Lì dentro ci finisce ogni cosa, tanto che ad un certo punto tutto diventa persino incontrollato e spaventosamente irruente. C’è paura di tornare solo. Timore che lo lasci. Ma anche passione e desiderio fisico e carnale. C’è voglia di baciarlo e di lasciarsi baciare. Di abbracciare e abbracciarsi, magari nudi, in un letto, fiato contro fiato. Ci sono le risate a colazione e quelle bagnate sotto la doccia. C’è il tè, nero e con latte e il caffè senza zucchero. C’è Bach e Mozart e il loro violino. Ci sono le litigate per delle sciocchezze e la malizia di certi istanti. Ma ci sono anche sentimenti oscuri di cui Sherlock ha paura come la gelosia, il possesso o la dipendenza. È drogato di John Watson? Si chiede in un attimo di nera follia. È lui la sua soluzione al sette percento? No, John non è una droga perché una droga dopo che te la tolgono, ti senti meglio, ma se gli togliessero John, Sherlock ne morirebbe. Anche questo è un dato oggettivo. È questo l’amore? Si domanda mentre osserva tutta la sua vita con lui a Baker Street in quel cofanetto tinto di rosso scarlatto. John lo ama, lo sa, gliel’ha detto proprio prima di andarsene ed è lo stesso anche per Sherlock. Rendersene conto lo fa scattare in piedi, si alza con uno scatto agile e felino e dopo aver camminato nervosamente avanti a indietro, porta lo sguardo alla poltrona. Il suo Stradivari è lì e una parte di lui vorrebbe suonarlo, vorrebbe proseguire lo studio di quella fuga che sta preparando per il concerto, una parte di sé gli urla che ha bisogno di suonare come di respirare. Suonare per placare i sensi e per poter pensare lucidamente. Eppure non lo prende in mano, perché i suoi occhi sono ben concentrati su altro. A terra infatti, gettato malamente, c’è il libro di John. Quello che non ha mai letto (e se lo ha fatto lo ha dimenticato) e che ora afferra con premura. E dopo essersi steso sul letto, lento e pigro, prende a leggere. Sì, gli urla la voce del John Watson che sta nel suo palazzo della memoria, sta mettendo un’altra persona al primo posto e lo sta facendo per amore. E mentre inizia a sfogliare, si rende conto di quanto sia stato stupido perché quella scritta tra le pagine e dipinta dalla mano abile del suo Jawn, è la loro storia. Forse da oggi lo saprà, lo saprà davvero, quanto quell’uomo lo ama.


 
*



Sherlock Holmes adora i travestimenti. Da bambino si mascherava da pirata e si divertiva con le bende sugli occhi e a fingere di avere una gamba di legno. Anche da adulto ha mantenuto quella passione, spesso lo fa per sfuggire ai fan o per star dietro ad un caso per cui ha interesse. Un’altra volta lo ha fatto per il sesso: quando il suo strano ma normale compagno lo ha fatto mascherare per fare l’amore, ancora deve capire come abbia fatto a lasciarsi convincere a fare una cosa tanto stupida. Quasi sorride al ricordo del battibecco che ne è seguito e del suo non capire il significato, il suo essere vestito da dottore con tanto di stetoscopio, e il dover inscenare una visita medica. Ma subito il suo divertimento si spegne e quando mette piede nella grande sala dell’hotel dove si sta tenendo la conferenza stampa per il nuovo libro, si rende conto di essere in ritardo. In quel momento viene preso da un leggero stato d’ansia; e se non facesse in tempo? Ha pensato bene a che cosa dirgli, ma c’è la possibilità che non giunga in tempo. Pertanto si fa largo tra la folla, con una premura che raramente gli appartiene, fino a che non riesce a raggiungere la prima fila. Sta già per sollevare un braccio, così da richiamare l’attenzione, quando un uomo vicino a lui solleva la biro che tiene stretta tra le dita e subito gli viene data parola. [2]
«Bill Newman. Daily Mirror. John, il suo romanzo è straordinario» esordisce l’uomo, stirando un gran sorriso mentre agita la penna. «Non ci saremmo mai aspettati una storia d’amore fine a sé stessa, lei che ha descritto gli orrori della guerra come pochi altri sono stati in grado di fare. La mia domanda è, la scelta di questo genere arriva forse dalla sua relazione con il celebre violinista Sherlock Holmes?» A quella domanda, John arrossisce e tossicchia di imbarazzo prima di aggiustarsi meglio sulla sedia e poi allungarsi fino al microfono.
«Beh, sì, il libro parla proprio di questo: è così che io e Sherlock ci siamo conosciuti, su un treno. E il mio libro parla di un uomo che riempie la propria vita viaggiando sui treni perché è triste e solo, ma che un giorno incontra una persona che gliela cambierà radicalmente, rivoluzionandola in modo del tutto inaspettato. Questa persona lo tirerà fuori dall’apatia e dalla malinconia. Ed è inutile nascondermi perché è ciò che è successo a me. Prima di conoscere Sherlock ero decisamente infelice.»
«Dan Robertson. Sunday Times. E ora invece è felice?» chiede un altro giornalista. In quel momento, Sherlock lo nota, un lampo di tristezza che però il suo Jawn riesce a mascherare sapientemente dietro un sorriso ampio e gentile. Eccola, la finzione più pura. Quella maschera che quando sono insieme mai indossa e che, proprio per questo, Sherlock riesce ad identificare benissimo. Lui, in quella grande sala stracolma di gente, è il solo a riuscire a vederla, l’unico a poterla demolire con una sola sillaba. Perché la conosce bene, quella faccia, è l’espressione bonaria dietro la quale il suo uomo si nasconde. Sa che ci sono mille emozioni contrastanti lì dentro, in quel cuore che è certo stia battendo all’impazzata. Sa che è ancora arrabbiato, che è deluso e furente e che vorrebbe solo discutere di nuovo con lui, magari per poter appianare le cose o chiarirle in modo definitivo. John detesta le situazioni irrisolte e odia il dover stare lì, senza poter rivelare a nessuno di quella litigata. Detesta dover affrontare tanta gente da solo, senza di lui. E proprio per questo, Sherlock si maledice dandosi dell’idiota.
«Abbiamo le nostre divergenze» annuisce poco dopo, con fare fintamente convinto. «Siamo due persone molto diverse, ma viviamo la nostra vita come fanno tutte le coppie normali. Ora, se non ci sono altre domande io…»
«Io ne avrei una» interviene Sherlock, alzando una mano. Per un frangente sente gli occhi di John su di sé e sarà per via del fatto che è uno dei suoi difetti, il guardare ma non osservare, ma non lo riconosce ed annuisce. Di certo è per via degli occhiali, grandi e spessi, o per il cappello buffo che ha calato sulla testa o piuttosto per la barba imponente.
«Sono… Sono P. Grossman. Della rivista… consulenti investigativi. È una rivista di consulenti investigativi» chiarisce, tossicchiando d’imbarazzo e soffocando al contempo una risata, dopo che ha sentito l’intera sala scoppiare in una risata fragorosa. Addirittura è arrossito lievemente e le guance si sono colorate adorabilmente di rosso, non aveva pensato al dover inventare anche un nome e un il titolo di un giornale, ha improvvisato, ecco. Subito però si affretta e continua: «Nella penultima pagina del libro, Ernest dice a Violet che lei è la miglior cosa che gli sia capitata nella vita, e conclude dicendo che la fa arrabbiare da morire perché non riesce assolutamente a viverci insieme, visto che Violet è insopportabile e spesso odiosa, eppure lui la ama lo stesso e quindi rimarrà sempre con lei.»
«Sì, esatto e se mi sta chiedendo se è un dialogo avvenuto per davvero la risposta è no.»
«No» nega Sherlock, con un cenno leggero del capo, prima di levarsi barba e cappello e gettarli a terra sotto lo sguardo stupito di John e dei centinaia di fotografi e giornalisti che gli stanno attorno e che fanno presto a riconoscerlo, fissandolo stupefatti.
«La mia domanda è un’altra» precisa. «Se ti dicessi, John, che Violet è una grande stronza, egoista e patetica e che non merita affatto l’amore di Ernest, tu cosa mi risponderesti?»
«Che non è vero» afferma John, ben deciso. Ora non c’è più imbarazzo sul volto del suo scrittore, non c’è alcuna maschera a coprigli il volto e a celargli le espressioni. Adesso è lui in tutto e per tutto, sincero come sempre.
«Anche lui è stato uno stronzo» prosegue «Ernest e Violet son… ma cosa dico, tanto è chiaro che si sta parlando di noi. Siamo diversi e litigare è normale. Commetti sempre un grande errore, Sherlock, hai il difetto di idealizzarmi, il che è ridicolo visto che accusi me di essere un idealista, marcando il fatto che sei tu quello razionale. Beh, devi smetterla perché non sono perfetto. Ho un brutto carattere tanto quanto il tuo.»
«No, Jawn, io sono un patetico bastardo, un manipolatore, egocentrico e misogino, spesso mi dimentico che esistono anche gli altri a questo mondo, mi scordo che tu hai bisogno di certe cose e ti faccio soffrire. Come tu riesca a vivermi a fianco non riesco a capirlo. Io che nemmeno volevo leggere il tuo libro e che non l’ho letto fino a due ore fa. E non ti ho messo al primo posto solo perché mi accusavi di non farlo, tu sei sempre stato al primo posto, è solo che l’ho fatto con ciò che io ritenevo buono. È come ti dicevo: posso fare tutto per te anche dirti quello che non ti ho mai detto. Cosa di cui non mi pento, tra l’altro. E non ti arrabbiare, ma volevo esserne sicuro, io non ho mai provato queste cose per nessuno prima che tu arrivassi, prima di quella notte sul treno ero solo e non mi importava di anima viva fuorché di me stesso. Quindi non te l’ho mai detto perché, prima, dovevo capire e pensare perché sì, amarti mi spaventa. Ma oggi te lo dico qui e in mezzo a tutta questa gente. Io ti, ecco, John, io, ah… mi sono irrimediabilmente innamorato di te, ecco. E mi piacerebbe molto se tu… se… ecco» diavolo, perché proprio ora faticano ad uscirgli le parole? «Mi piacerebbe molto se tu decidessi che stare con me per tutta la vita sarebbe, mh, buono. Intendo di renderlo ufficiale.»
«Mi stai chiedendo di sposarti?» gli risponde, spalancando la bocca.
«Io potrei a-averlo fatto, sì.»

John non sta sorridendo come Sherlock aveva preventivato facesse, anzi se ne sta fermo e seduto alla sua sedia, con il suo libro stretto tra le mani e la loro storia che, adesso, gli scivola dalle dita ricadendo sul tavolo con un tonfo leggero, che riecheggia in quella sala strapiena ma silenziosa in un modo quasi irreale, assurdo. Si sente soltanto il rumore dello scatto di qualche macchina fotografia e poco altro, ora tutti hanno gli occhi puntati su John in attesa di una risposta. Ed è Sherlock Holmes colui che se ne sta fermo in mezzo a loro, circondato da gente che ora lo occhieggia con fare commosso, ed ora sorride di un divertimento dolce e compassionevole. Lui però li ignora, non gli importa di loro, perché c’è solo Jawn e null’altro. Quasi ne sente il macchinare dei pensieri e il picchiettare delle dita sulla superficie liscia del legno, così come il ciondolare delle gambe sotto al tavolo, mosse da un tremore leggero. John è il ritratto del nervosismo, tutto l’opposto di lui che è in piedi, con il mento alto e le mani incrociate dietro la schiena, impettito e rigido come se stesse per attaccare una fuga bachiana, come se tutto quello, se la dichiarazione accorata appena fatta, non gli appartenesse e riguardasse qualcun altro. Qualcuno, magari, di troppo idiota per meritare la sua considerazione. Per questo rimane rigido e fermo, ma con nella mente un terremoto emotivo che lo sconvolge e lo spaventa. Di fatto, sta mettendo tutta la vita nelle sue mani e invece che farlo nascondendo messaggi d’amore tra trilli e virtuosismi, lo fa con le parole. Amandolo davanti a tutti e come non ha mai avuto coraggio di fare. E trema dentro, il cuore gli batte veloce ed il respiro accelerato è quasi impossibile da placare. Le gambe quasi gli cedono, le dita gli prudono, eppure resta fermo e rigido. Apparentemente indifferente. A tradirlo è lo sguardo. Perché la maschera che sta indossando è fin troppo sottile e tutto il mondo, lì e adesso, sta vedendo il suo amore. Un amore che è tanto forte da risultare palpabile, da avere l’illusione di poterlo toccare con mano. Sono, infatti, occhi grandi e sgranati quelli di Sherlock Holmes, stronzo di fama mondiale, violinista dal tocco geniale. Sono occhi che sperano e bramano, che vivono per un sì. Sono occhi che amano uno scrittore abbastanza famoso, che lo adora al punto da aver messo la loro storia per iscritto sancendola ai posteri. Un ex militare che, in fondo, è un uomo molto normale e che gli ha detto di amarlo in tanti ed infiniti modi, da perderci il conto, da perderci il senno, da perderci la vita a radunarli tutti. E quando John si schiarisce la voce, Sherlock sussulta appena. Lo vede avvicinare la bocca al microfono e chiudere gli occhi per un istante, leccandosi nel frattempo le labbra secche. E Sherlock trema ora più vistosamente, tanto che è costretto a stringere le mani ancora di più, ad irrigidirsi e a serrare le labbra che mordicchia con nervosismo. Mentre il suo sguardo lucido è ancora posato su di lui, spaventato e sconvolto, terrorizzato da un possibile no.
«Sì» pronuncia e subito dopo un boato si espande per la sala, come il rombo di un temporale. Adesso e lì, con lo scatto dei flash che lo accecano e i microfoni che gli vengono puntati ovunque, con domande che piovono e un fastidiosissimo ciarlare, Sherlock Holmes sorride. Sorride ad un John Watson confuso e felice, sorride e John gli risponde in rimando senza distogliere lo sguardo dal suo, anzi cercandolo quando qualcuno gli si para davanti oscurandogli la vista. Sorridono perché tutti ne parleranno. Perché Mycroft già lo sa e già rotea gli occhi sbuffando per colpa del suo, al solito, esibizionista fratellino. Ridono perché scriveranno di loro. Tutti. Stampa. Internet. Televisioni. E vedranno e rivedranno quella strampalata dichiarazione d’amore fino alla nausea. Ma a loro, ad entrambi, non importa. E si sorridono perché ora anche John ha capito, ha capito che se Sherlock è arrivato ad un punto simile, al limite di sfidare la folla e l’idiozia che tanto desta e di confessare i propri sentimenti di fronte a tutti, quando a stento lo fa con sé stesso, beh, se ha fatto tutto questo allora è davvero innamorato. E quindi sorride, a quello Sherlock Holmes allampanato e rigido, a quegli occhi dentro i quali tutti hanno potuto scorgere un mare in tempesta, un cielo in tormenta. Ha detto sì? Si chiede John in un frangente? Ha detto sì.


Raccontami la storia di Ernest e Violet, Jawn.
Raccontami la storia di come ci siamo innamorati.




 
‒ He ‒

Fine



[1] Citazione da Queer as Folk.
[2] L’intera scena che segue è ispirata al film Notting Hill, e dalla canzone di Elvis Costello: “She” a cui è ispirato anche il titolo della storia. Vi linko anche la versione in italiano "Lei" cantata da Laura Pausini, che a me piace molto. Consiglio di ascoltare il brano mentre si legge quella scena.


Citazioni musicali:

- Mozart, Sonata n.32 in Si bemolle maggiore
- Mozart, Concerto n. 3 il Sol maggiore per violino e orchestra
- Mozart, Concerto per piano e orchestra in Do maggiore
   
 
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