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Autore: silvia_carl    10/02/2015    0 recensioni
Quando sei un adolescente non capisci granché della vita, pensi di sapere tutto, ma anche un solo errore può esserti fatale. Michelle non può commettere errori, lei non è un adolescente come gli altri, lei è cresciuta in fretta, oppressa da problemi troppo pesanti da trasportare da sola. Ora però è arrivato il momento di chiedere aiuto, che a dartelo sia una nonna snob e un po' altezzosa, quel ragazzo misterioso incontrato sulla spiaggia, o quella nuova compagna di classe con i capelli di fuoco, poco importa. Non importa chi ci salva, basta essere salvati.
Un giorno, dopo l'abbandono del padre, e le continue crisi della madre, Michelle è costretta ad andare a vivere con sua nonna, lontano da casa e da tutto il suo mondo. E' qui che riesce a ritornare a vivere, che ritrova la serenità e l'amore grazie a persone straordinarie, ma poi sembra che il destino non la voglia aiutare, è così precipita di nuovo tutto, Michelle compresa.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~~Se penso al passato mi rendo conto di non aver mai avuto la vita che desideravo. Ci andavo sempre tanto vicino e poi, di colpo, tutto quello che avevo costruito crollava. Probabilmente era colpa mia, lo è sempre stata. Gli eventi, le circostanze, sono sempre stata io l’artefice di tutto, di quel destino che odiavo, di quell’esistenza da cui volevo fuggire. Sfiorai più di una volta la fine, convinta ogni volta di non aver più paura di lasciare tutto. Quel vuoto che provavo lo riempivo solo facendomi del male, ma dopo tornava, e capivo che niente avrebbe mai potuto colmarlo. A poco a poco divenni la delusione di tutti, l’esempio di nessuno. I pomeriggi, i sabati sera, tutto vuoto, il deserto più completo. Io con tazze enormi di latte e caffè, nient’altro, niente cibo, niente amici, niente vita. E poi la musica, le sigarette, il telefono che suonava incessantemente senza che io rispondessi. Ora ero qualcuno, non ero più una sfigata, ma quel qualcuno mi faceva schifo, avevo rovinato tutto, io con la mia voglia di voler cambiare. Disprezzavo i vecchi amici, non amavo quelli nuovi, adoravo quelli lontani, gli unici che mi capivano, ma con cui non potevo stare. Volevo andare via, ma non riuscivo a lasciare la mia stanza, il letto caldo e accogliente, i libri che narravano storie che nessuno avrebbe mai potuto vivere realmente, le canzoni che parlavano di amori irraggiungibili, di felicità inesistenti. Quel disagio nel camminare per strada, quella felicità nel fumare, nel respirare la mia morte, quel masochismo che ancora ora mi appartiene, quella voglia di scappare o di sparire, che poi per me era un po’ lo stesso. Sarei andata via in qualche modo, in un modo o nell’altro sarei fuggita da tutto quello schifo che mi circondava, dalle giornate grigie, dalla monotonia, dall’odio che provavo per chi mi era intorno, dal disprezzo nei confronti di chi non capiva, di chi non sapeva leggere i miei occhi in cui quella sofferenza era scritta a caratteri cubitali, di chi non ascoltava il mio silenzio che gridava aiuto.
La prima volta che vomitai avevo diciassette anni, avevo sempre odiato il mio corpo, ma allora quel problema peggiorò. Gli adolescenti non capiscono la gravità delle cose, pensano che il fumo non faccia poi tanto male, che la droga crei semplicemente assuefazione, che il sesso renda solo più grandi, e io pensavo che il vomito non mi avrebbe rovinato, pensavo che la bulimia mi avrebbe aiutato. Avevo bisogno di tutto quel cibo, dovevo sentirlo entrare, scendere nello stomaco per capire che dopo sarebbe finito sui fianchi e sulla vita, che mi avrebbe fatto diventare le gambe enormi, le braccia molli, solo allora sentivo quell’impulso irrefrenabile di vomitare tutto, di correre in bagno e spingere bene le dita in gola ed eliminare ogni traccia di quel peccato che avevo commesso, della mia ingordigia, della mia rovina, della mia malattia. Il problema del vomito è che a volte non va giù, tu continui a tirare lo scarico ad intermittenza, apri le finestre per mandar via l’odore, fai scorrere l’acqua per non far rumore, inventi mille scuse per gli occhi rossi, per i tagli sulle mani. Quando il vomito va giù si porta via tutto, le speranze inutili, l’amore perduto, la sofferenza, ti svuota, ti svuota completamente, e per quell’istante ti senti bene, e pensi di aver fatto la cosa giusta. Tanto anche se ti porterà alla morte almeno ti farà scomparire, e quando non ci sarai più la gente se ne accorgerà della tua assenza, quell’assenza sarà più presente di quanto tu non lo fossi, lo sai che sarà così.
Il mio telefono squillò di nuovo, lo odiavo quel suono, interrompeva sempre la canzone che ascoltavo, rompeva quel momento in cui non pensavo, in cui non seguivo le parole, in cui i suoni annientavano perfettamente la realtà e io guardavo il soffitto bianco, pensando che quello fosse il colore più bello che esistesse. Questa volta dovevo rispondere, odiavo la gente, ma lei era la mia sola eccezione, chi tentava ogni giorno di salvarmi, di svegliarmi, senza capire che non puoi riportare in vita chi è morto da così tanto.
 «Michelle? Ci sei?», si sentiva il vento ululare dietro di lei, la giornata non doveva essere delle migliori, ma io non avevo nessuna intenzione di aprire la finestra per vedere cosa succedesse intorno a me. «Michelle?», insistette.
«Sì, sono qui …», sussurrai.
«Sono da te tra dieci minuti, scendi», ordinò schietta, con quel solito tono di superiorità che usava per farmi uscire di casa. Non mi dava mai il tempo di rispondere, di ribattere, e alla fine vinceva sempre. Non mi sarei potuta inventare nessuna scusa, non avrei potuto dirle di dover studiare o di aver mal di testa.
Misi le stesse cose di sempre, quei jeans aderenti che incredibilmente non mi facevano sentire troppo grassa, quel maglione più grande di almeno due taglie, le scarpe nere, una maschera di matita scura, ancora più cupa del colore del mio smalto. Guardai le unghie rovinate, consumate. I segni dei denti sulle mani. Non importava, stavo uscendo dopo giorni che non mettevo il naso fuori dalla porta della mia stanza.
 «Come va la scuola?», chiese Nicole, lei l’aveva lasciata quell’anno, proprio ora che eravamo diventate amiche non eravamo più in classe insieme.
«Va», risposi aspirando forte e accendendomi una sigaretta. «Mi bocceranno per le troppe assenze probabilmente», ammisi aprendo la bocca e facendo uscire il fumo che si mescolava con i nostri respiri nel gelo di quel piovoso febbraio.
 «Ce la puoi ancora fare, sei sempre andata bene, ti aiuteranno», continuò facendo un tiro dalla mia sigaretta. La guardai male, come se mi stesse rubando l’ultimo goccio d’acqua in una stagione di completa siccità. «Da quanto non fumavi?», sorrise divertita.
 «Un po’, non posso farlo in casa, ma scommetto che mia madre lo sa, scommetto che lei sa tutto, ma finge bene, addirittura meglio di me», sorrisi anch’io.
 Quella situazione cominciava a non farmi più né caldo né freddo, i sensi di colpa se ne erano andati. Non ero più la ragazza perfetta, avevo avuto però la forza di cambiare, di accettare chi fossi davvero, finalmente avevo capito quali fossero le priorità, chi ero sempre stata non esisteva, io ero diversa, io ero la storia d’amore breve, ma intensa, io ero le sigarette il sabato sera, io ero l’eccesso, gli estremi, ero chi odiava la vita, ma chi voleva vivere, chi pensava di non aver paura di farla finita e temeva la morte.
 Gocce taglienti come coltelli cominciarono a strisciare crudeli sulla mia pelle, guardai in alto chiudendo leggermente gli occhi: pioveva, ora che non serviva, ora che non avevo lacrime da nascondere. Eppure l’acqua sulla pelle mi piaceva, la pioggia mi faceva sentire meno sola, chissà quanta altra gente in quel momento era toccata da quelle goccioline meschine, quanti erano nella mia situazione, quanti mi somigliavano senza volerlo. La pioggia cadeva dal cielo, da quel cielo che in tanti condividevamo, io sola in quel metro quadrato di terra, ma non sola sotto quel cielo. Poi Nicole mi riportò alla realtà, mi scrollò forte facendomi sobbalzare. «Dai andiamo sotto ai portici, svelta!», mi incitò gridando forte, e la sua voce riusciva a sovrastare persino lo scrosciare monotono della pioggia. Non mi mossi, mi voleva portare dove tutto era iniziato e anche finito, mi voleva portare nel teatro della storia d’amore più importante che avessi avuto, in quel luogo che racchiudeva il motivo della mia disperazione, delle conseguenze, del fumo, della bulimia, il posto che aveva visto nascere, crescere e morire un sentimento così potente e distruttivo come l’amore. Scossi la testa. «Preferisco bagnarmi che tornare lì», gridai con tutta l’aria che avevo nei polmoni. I capelli grondavano pesanti, sapevo che avevano sicuramente assunto un colore molto più scuro del solito miele. Quelli di Nicole erano neri, si vedevano le ciocche viola anche nel buio di quella tempesta. «Basta, ti prego!», ribatté scocciata, come se il mio fosse solo un capriccio. «E’ passata una vita», continuò. Io la guardai con occhi diversi, comprendendo che non aveva capito proprio niente di come stessi, pensavo di aver trovato qualcuno che sapesse leggere la mia sofferenza e invece neanche Nicole era in grado di farlo, persino lei era troppo superficiale per capirmi davvero. «Cos’hai ora?», lei mi guardava dritta negli occhi, io ricambiavo, ma non vedevo le sue iridi castane, no, io vedevo il passato, guardavo i ricordi, ciò che era successo fino ad allora, pensavo a Marco che mi aveva lasciato, a mia mamma che non mi capiva, alle mie vecchie amiche che mi guardavano male per un sette a scuola o per lo smalto nero. Non avrei retto tutto quello senza Nicole, ma ora lei non mi capiva più e io non capivo lei. «Quattro mesi, Nicole. Non una vita, quattro mesi», girai i tacchi e me ne andai.
 
   
 
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