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Autore: Alex Wolf    11/02/2015    2 recensioni
ATTENZIONE: AVEVO IN PRECEDENZA DECISO DI INIZIARE UNA NUOVA STESURA DI QUESTA STORIA, IN SEGUITO HO DECISO CHE CONTINUERO' QUESTA!
«Eleonora. Isil. Hai perso i tuoi nomi non appena sei morta e sei caduta qui, nelle mie lande» spiegò placidamente lui, giocando con un grosso anello in cui vi era incastonata un’ambra. Dello stesso, identico colore dei suoi occhi. «Hai rinunciato a loro per sempre nell’esatto momento in cui hai accettato di divenire mio Generale. Perciò, era mio dovere sceglierti un nome, e quale più si adirebbe a una donna della tua fama –che ha cavalcato draghi; vinto battaglie; ucciso uomini e sedotto il Signore di Mordor- più che Morwen? La Dama Oscura?»
Genere: Fantasy, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Legolas, Nuovo personaggio, Thranduil, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
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Storia d'Inverno.
 


“L’uomo è ombra, l’ombra è il confine tra luce e tenebre.”
 
— Erasmo da Rotterdam



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Eleanor.
 
«Si, così. Muoviti più velocemente. Esattamente così, stai andando benissimo.» Non sapevo se le parole di Sauron fossero più un incoraggiamento rivolto a me o a lui, fatto sta che solo sentire la sua voce lodarmi riusciva a far si che sorridessi. Mi piaceva stare in sua compagnia. Era un uomo che - nonostante le brutte voci che avevo sentito sul suo conto- mi divertiva, riusciva a mettermi a mio agio.
Sarà perché era stato una specie di stregone. Sarà che capiva come mi sentivo. Sarà che riusciva ad aiutarmi più di Ringil o chiunque altro. Mi ci trovavo bene.
«Allunga leggermente il braccio, e lascia il polso più morbido» sussurrò al mio orecchio, poggiando la mano   sulla mia spalla. Le lunghe dita affusolate di quella libera corsero sul mio arto, posizionandolo nella giusta maniera, poi andarono a tastare leggermente il polso.
«Così?» la voce uscì leggera dalle mie labbra, come non succedeva durante gli allenamenti con la lupa.
No. E come avrebbe anche solo potuto essere così’? Quella donna proprio non potevo buttarla giù. Il solo pensarla era un affronto alla mia mente. Un affronto a mia madre. Continuavo a rievocare nella mia mente l’immagine di quel giorno, in cui aveva preso il suo posto e si era comportata come se nulla fosse successo. Come se lei sapesse quello che provavamo ma non se n’è preoccupasse minimamente. Ripensando ai suoi occhi scrutatori, mi veniva la pelle d’oca. La rabbia ribolliva in me come l’acqua in una pentola. Senza rendermene conto avevo digrignato i denti, e la liana su cui mi stavo esercitando era andata a contorcersi su se stessa. Sembrava un povero animale agonizzante. Cigolò, il legno, finché non andò a strozzarsi da solo e si ruppe cadendo a terra simile a tanti corpi viperini morti.
Sospirai. «Scusami tanto.» Il mio volto girò di due quarti, andando incontro agli occhi verdi del mio insegnante. Pareva sorpreso da quella mia improvvisa uscita, ma come dargli torto? Mi accarezzai le tempie, scuotendo il capo. «Ci riprov-»
«Credo che per oggi sia meglio concludere qui la nostra lezione, principessa», con un leggero sorriso, Sauron s’inchinò con grazia. « Vogliate scusarmi, ma ho da aiutare i miei fratelli, vostro padre e il resto del consiglio per la nuova strategia. Continueremo domani, siete d’accordo?» S’issò in tutta la sua altezza, prendendomi gentilmente la mano. Era calda, morbida e liscia. La mano di un nobile che non aveva mai lavorato in vita sua. E anche i suoi occhi, talmente verdi da ricordare la tormalina brillante, non sembrano altro che quelli di un uomo perbene. Non potevo pensare che lui, un tempo, avesse tentato di conquistare la Terra di Mezzo.
«Mia signora, siete d’accordo?» Risvegliatami dai pensieri e, a malincuore annuii congedandolo con un segno impercettibile del mento.
Lo osservai scomparire all’interno del palazzo, diventare nulla più che un ricordo. Una sagoma d’ombra che s’inabissava nelle tenebre. Prima che qualche domanda o pensiero potesse irradiarsi nella mia mente, mi guardai attorno improvvisamente annoiata. Ero rimasta sola al limitare del bosco, e stranamente, per la prima volta dopo tanto, quella verità non mi fece paura. Nei giorni successivi alla perdita di mia madre avevo sempre cercato di non restare sola –in quanto il silenzio trasformava tutto in realtà, e mi faceva paura. Ero spaventata dalla consapevolezza che lei non sarebbe più venuta a svegliarmi la mattina; che non avrei più udito le sue paternali la sera, quando mi trovava a zonzo per i corridoi; che non avrei più potuto abbracciarla o gridarle contro, o porgerle quesiti (persino i più elementari). Eppure, se adesso ripensavo a tutte quelle cose, invece che un pianto ininterrotto riuscivo solo a sorridere. Perché, passata la fase del dolore acuto non mi era rimasto null’altro che il sorriso. La pena era passata, era ora di pensare solo alle cose belle che erano state. E poi, lo sapevo, lei aveva sempre odiato vedermi piangere, perciò perché renderla triste adesso che mi osservava dall’alto delle stelle?
Consciamente alzai il viso verso i nuvoloni grigi che oscuravano il cielo, riuscendo a resistere all’impulso di chiudere gli occhi. Restai a osservare le nuvole macchiarsi di nero, bianco e argento, finché una voce non catturò la mia attenzione. Scattai con lo sguardo verso il campo d’addestramento, dove sagome indistinte si allenavano in lontananza. Una, in particolare, attirò la mia attenzione. Si muoveva con rigida fermezza fra i soldati, abbaiando contro chi errava per poi continuare. Persino sotto quella luce nivea, praticamente inesistente, i suoi capelli sembravano brillare dei raggi della luna. Correndo, lo raggiunsi, affiancandolo con velocità. Le mie vesti lunghe frusciavano contro l’erbetta del loro medesimo colore, creando un rumore appena percettibile. Ero così bassa in confronto a lui, ma non mi feci problemi a tirargli una bianca ciocca di capelli per attirare la sua attenzione. E, come avevo pensato, lo sguardò che mi riservò successivamente avrebbe fatto congelare il sangue nelle vene a chiunque. Ma non a me. Noi della famiglia c’eravamo abituati, perciò non mi scandalizzai più di tanto. Gli sorrisi, tirando per l’ennesima volta una treccina morbida.
«Eleanor» borbottò Haldir, con la voce più bassa che gli avevo mai sentito -che stesse male?- «che diamine ci fai qui?»
M’imbronciai. «La mia lezione è finita, così ho pensato di passare un po’ di tempo con te» ammisi, rigirandomi i pollici dietro la schiena. Ed era vero. Era tanto tempo che io e lui non stavamo assieme, come da bambini. Respirando l’aria frizzantina d’inizio inverno, aggiunsi: «Che ne pensi, fratellone?»
Lui si voltò dall’altra parte, sbraitando dietro una manovra mal eseguita di un giovane uomo. «Da quando l’esercito degli uomini è arrivato, ho molto più lavoro da fare Elanor. Non posso venire con te, cercati qualcun altro con cui bighellonare. Non sono tutti liberi di fare quello che vogliono.»
BANG!, la crudeltà di quella frase mi colpì dritta al cuore come una freccia. Sbattei velocemente le palpebre, gonfiando le guance per impedire alle lacrime di uscire. Piangere sarebbe stato inutile, non avrebbe aiutato a nulla se non a rendermi ridicola davanti all’esercito alleato. Perciò, strinsi i pugni e mi voltai amareggiata, allontanandomi da lui il più possibile. Non ne ero sicura, ma mi parve di sentire una specie di peso sul retro della nuca, come se quello sguardo glaciale mi stesse seguendo, minuziosamente. Ma era più probabile che mi sbagliassi, visto che mio fratello era talmente preso dai nuovi soldati da non avere tempo neppure per la famiglia. Al diavolo.
Che rabbia! Prima andavo male a lezione, poi venivo paccata da mio fratello e che altro mi dovevo aspettare? Furiosamente calpestai l’erba del prato, inconscia del fatto di essere arrivata nel luogo di lancio. Me ne accorsi solo quando una freccia sfiorò il mio petto, portandomi a indietreggiare e caracollare a terra come un sacco di patate. La rugiada mattutina mi bagnò le vesti, insinuandosi attraverso essi e arrestandosi contro la mia pelle, provocandomi brividi di freddo. Senza contare che, poi, un dolore lancinante aveva iniziato a farsi strada dal fondo schiena fin su, alle spalle. Probabilmente, anzi sicuramente, non era la mia giornata.
«Che male» mugolai, carezzandomi la schiena come se così il dolore potesse sparire. Non mi accorsi neppure dell’uomo che mi stava raggiungendo, con la calma di un gatto.
«Ehi, tu» alzai gli occhi verso l’alto, attirata dalla voce. «Perché non stai attenta a dove cammini, eh?» E subito mi ritrovai in piedi, con il bracco stretto in una morsa ferrea e decisa, per nulla delicata. La ruvidità dei calli sotto le dita mi fece capire che quell’uomo straniero era un combattente, e alcune cicatrici datate me lo confermarono.
Innaffiai il mio sguardo con il suo, di un azzurro tendente al verde. Acquamarina, appartenente a occhi severi, brillanti, pronti a scattare in qualunque direzione in qualsiasi momento. Per ora, però, sembrava si accontentasse di osservare me. Quando mi capacitai della cosa, strattonai il braccio per liberarmi e lo portai al petto, cullandolo con l’altro. Era così strano, quel mio gesto repentino. Non ero solita farne, al massimo gridavo contro chi si frapponeva tra me e la mia strada, successivamente ritiravo il braccio. Socchiusi le labbra, pronta a borbottare qualcosa –che poi, mi domandai, sarei riuscita a dire qualcosa, qualsiasi cosa sorpresa da me stessa com’ero?- ma qualcuno mi fermò, poggiandomi una mano sulla spalla. «Mia Signora, state bene?» Che voce dolce che aveva quel nuovo interlocutore. Talmente calma e suadente che, in un secondo, calmò il mio cuore palpitante. Comunque, ancora non riuscivo a spiegarmi il perché della corsa sfrenata del mio cuore. Che cosa strana.
Voltandomi, riconobbi solo dopo qualche secondo il nuovo arrivato e sorrisi. «Si. Tutto bene, Eldarion.» Incontrai i suoi occhi azzurri. Erano così splendenti che ne ero quasi invidiosa. «Grazie della preoccupazione.»
«Ne sei sicura, principessa? Ti ho vista cadere con non molta grazia» azzardò.
Mi parve di vedere sogghignare l’uomo che mi aveva colpita, mentre dalle mie orecchie usciva del fumo. Che vergogna! «C-COSA!? Ho già detto che sto benissimo!» borbottai, trattenendomi da battere un piede a terra. Era così degradante pensare che persino il Principe di Gondor mi avesse visto cadere. E che mi avesse trovata “poco graziosa nei movimenti”. Era così… frustrante.
«Come minimo ti sei ammaccata la testa, più di quanto già non è.» Rìnon comparve dal gruppo di cavalieri che ancora si stavano allenando. Una lunga spada gli pendeva sul fianco, mentre gli occhi sorridevano. Assomigliava molto a Eldarion.
Entrambi avevano occhi azzurri e capelli neri, pelle diafana e bel portamento, eppure erano molto diversi. Il principe di Gondor, come ci si aspettava da un essere umano, con i suoi tratti effimeri dava un’impressione più adulta, quasi simile a quella di Haldir.
«Guarda, credo che ti verrà un bernoccolo» rise mio fratello, toccandomi il retro della fronte.
Lo spinsi via, con poca grazia fanciullesca. «Oh, andate al diavolo rimbecilliti!» Una principessa non avrebbe dovuto dire quelle parole, non avrebbe nemmeno dovuto conoscerle. Ma non me ne importava nulla. «E adesso scusatemi, ho di meglio da fare che restare a ciarlare con delle comare da combattimento» e così dicendo, dopo aver dato una spinta a quell’umano dai corti capelli biondicci, mi avviai verso il castello sbattendo ovunque capitasse i bersagli del tiro con l’arco con le mie liane. Gli uomini mortali gridavano spaventati, mentre io rifacevo rinascere il mio sorriso sulle disgrazie altrui. Qualche volta i bersagli atterravano nel campo adibito alla spada, altre volavano lontano, dentro la foresta.
«ELEANOR, PIANTALA!» Sentì urlare in lontananza, dalla voce severa di Haldir. Involontariamente mi ritrovai a sorridere con più felicità mentre facevo spiccare il volo all’ultimo bersaglio, che atterrò con un tonfo accanto ai tre uomini che poco prima mi avevano deriso.
 
 
«Ma come ti viene in mente di far volare quella roba contro i nostri alleati?» Non avevo mai visto mio padre diventare rosso di rabbia, perciò era una novità. Con la mascella contratta, i pungi serrati sul tavolo e gli occhi lucidi di frustrazione il futuro Re di Bosco Atro trattenne l’ennesimo urlo. Le vene sul collo pulsavano, ingrossate.
All’inizio non avevo pensato molto alla conseguenza di quelle azioni repentine –nella mia testa c’era stato solo il desiderio di sfogarmi- e così ero finita dritta fra le grinfie del Generale. Non avevo fatto tempo a mettere piede in casa che quella dannata lupa era li, con le braccia conserte al petto e il piede tamburellante sul pavimento. Mi aveva caricata di peso e gettata, letteralmente, sulla mia solita sedia da pranzo. Tutti gli occhi dei nostri alleati si erano rivolti a noi, interdetti da quel comportamento. Poi Ringil aveva spiegato tutto.
«Insomma, Legolas, io non la trovo una cosa tanto sbagliata» intervenne Fanie, che tamburellava tranquillamente le dita sul legno scuro. La luce pallida conferiva ai suoi capelli bianchi un che di sinistro. Gli occhi grigi sorrisero quando incontrarono quelli del principe.
«Avrebbe potuto colpire degli alleati! E, per di più, ha quasi decapitato il soldato messo a protezione del principe con la sua ultima mossa. Ringrazio i Valar che Aragorn sia uscito a caccia con mio padre, perché non so bene come reagirà a queste notizie.»
«Ma non è successo. Quell’idiota la testa ce l’ha ancora» borbottai, incrociando le braccia al petto. Peccato.
«Sarebbe potuto succedere! E modera le parole!» ribatté prontamente lui, con acidità. Mi rifiutai di continuare il discorso, voltando il capo da tutt’altra parte in segno di dissenso. Era incredibile come mio  padre fosse tanto ostinato a battibeccare su una cosa del genere, quando non si curava neppure del perché l’avessi fatto.
Stufa di sentirmi sgridare, mi concentrai sul panorama che si diramava oltre le imponenti vetrate della sala in cui stavamo. Oltre il nostro riflesso, si estendeva l’immensa foresta del Reame Boscoso ormai interamente secca. I rami degli alberi formavano una fitta rete, simile alla tela di un ragno, che non avrebbe permesso a nessuno di sorpassarla. Aveva tutto un’aria così desolata, così morta. Mi ritrovai a chiedermi se era davvero quello il luogo in cui avrei voluto vivere per l’eternità, far crescere i miei figli, se mai ne avessi avuti. E poi pensai che, alla fine erano gli esseri umani a essere fortunati. Vivevano poco, ma in quel lasso di tempo potevano esplorare e non si annoiavano. Certo, le ore per loro erano come secondi per noi, ma nessuno se ne preoccupava mai. Mi domandai se anche io, se mai avessi deciso di diventare mortale a tutti gli effetti, avrei potuto girare il mondo e non annoiarmi mai. Non restare rinchiusa li. Non più.
«Io non la trovo una cosa giusta da fare» intervenne una voce chiara, gentile. Ci voltammo tutti, sorpresi, verso la parte destra del tavolo dove Cuinië aveva deciso di ritirarsi ad ascoltare. Era raro che intervenisse in dei litigi, pensai. Chissà cosa l’aveva spinta a intromettersi, lei che era come una macchia bianca di purezza in quell’insieme di inchiostri neri e ombrosi. «Ma non la trovo pure una cosa scorretta.» Si accarezzò i capelli mossi, esaminandone una ciocca con gli occhi cangianti. Le dita lunghe, la pelle diafana in netto contrasto con il rosso ramato di quei fili sottilissimi. «A dire la verità, trovo che questo sia un episodio da tenere da conto. Trovo che sia ora che i due guardiani intraprendano un viaggio. Non credo che restando qui abbiano le possibilità di imparare a dovere come controllare sia i loro poteri che le loro emozioni, e oggi ne abbiamo avuto la prova non credete anche voi?»
«Mh» Ringil scrocchiò le nocche, inarcando le sopracciglia. Negli occhi canini aveva una scintilla che faceva intuire il suo assenso all’idea.
«Lo penso anche io.» Passandosi una mano fra i corti capelli, Turion levò lo sguardo al cielo. Le labbra piegate in una linea sottile.
«Sono d’accordo» affermarono Sauron e la sorella, prima che lei lo fulminasse con uno sguardo felino. Fra di loro sembrò calare un sipario, perché lei voltò immediatamente la testa verso l’altro biondo vestito d’azzurro.
«Se la pensi così, Oracolo, credo che dovrò fidarmi» asserì mio padre infine, prima di alzarsi e dirigersi al fuoco. Lo seguii con gli occhi, poi analizzai tutti gli altri ma non trovai una solo scintilla che indicasse il loro dissenso all’idea. Quando giunsi agli occhi cristallini della rossa, lei mi attanagliò in una presa ferrea che mi congelò.
Fu come se il mio cuore avesse deciso di lasciarmi indietro. Smise di battere all’improvviso non appena metabolizzai appieno quelle parole, quello sguardo. Intraprendere un viaggio. Controllare le emozioni. Controllare i poteri. Sembravano frasi normali, giornaliere, ma stranamente riuscii a cogliervi il messaggio nascosto dietro. E mi face paura, sinceramente. Gettava su me e mio fratello un peso alto. Troppo alto. Ora, forse, potevo dire di riuscire a capire il motivo per cui la rossa se ne stava sempre in silenzio. Ogni qual volta che apriva bocca l’oracolo bianco prediceva solo sventure o ti affidava compiti talmente pesanti che le spalle si spaccavano dopo appena due minuti.
Ma potevo rifiutarmi? Potevo… Sospirai, chiudendo gli occhi e abbassando il capo per qualche minuto. Cosa avrebbe fatto la mamma? Lei, che alla fine di tutto si era dimostrata quella donna che sarei voluta divenire io stessa. Lei che aveva cavalcato draghi. Lei che ci aveva ripreso ogni giorno con l’amore negli occhi, senza che noi ce ne accorgessimo. Lei che era stata forte, che non aveva ceduto davanti alla morte che l’aveva invitata a seguirla se non per salvare Haldir? Lei, cosa avrebbe fatto?
Che cosa farebbe? Lo sapevo bene quale sarebbe stata la sua scelta. Perciò, dopo aver preso un bel respiro silenzioso rizzai le spalle e la schiena, e gettai sulla cerva uno sguardo deciso che lei ricambiò. «Trovo che sia giusto, quello che Cuinië ha detto. A quando la partenza?»
La giovane donna ignorò i borbottii di sottofondo dovuti a discorsi privati derivanti dai presenti, e accavallando le gambe mi sorrise, poi disse: «Domani all’alba. Riferiscilo anche a tuo fratello.»
 
◊  ◊  ◊  ◊  ◊
 
Volute di fumo nero e fuoco rosso si spandevano per il deserto di cenere, somiglianti a gaiser. S’innalzavano leggeri, creando danze mortali e tossiche. Alcuni fuochi erano velenosi, altri curativi, entrambi dolorosi. Gring li osservava compiaciuto, mentre vicino a lui l’oracolo si copriva il volto magro con il mantello. Per lei era sempre più difficile resistere in quel luogo di morte e desolazione, persino dopo settimane che vi si trovava. Le mancavano le sue montagne, il suo branco, sua nipote e la sua libertà. Sapeva, l’aveva visto chiaramente, che se fosse rimasta li ancora a lungo quel mondo d’odio l’avrebbe trasformata in cenere.
«Osserva» le stava ordinando l’uomo «ora che lei è morta non mi ci vorrà molto a schiacciare il mondo e i suoi abitanti, partendo dalla sua famiglia.» Aveva una luce assassina negli occhi scuri, faceva paura.
«Questo rimorso che provi nei suoi confronti, e in quelli dei suoi figli, è dovuto alla donna che sarebbe dovuta vivere al suo posto?» Era la prima volta che Aldëa si concedeva il lusso di parlargli così schiettamente, e poco le importava a dirla tutta. Avrebbe volentieri passato il tempo a sorseggiare succo di mela con la nipote nel loro frutteto, ma la situazione rendeva ciò solo un lontano e amabile desiderio. Per cui, tanto valeva aspettare la morte venendo a conoscenza di qualcosa di nuovo.
«Lei era così bella» iniziò Gring. «M’innamorai solo guardandola, e quando vidi e capii come funzionava la sua mente non feci altro che cadere di più per lei. Più lei sorrideva, macchinava e pianificava più io cadevo schiavo di quel sentimento tanto umano. Poi me l’ha portata via. Quell’assassina, l’ha uccisa davanti ai miei occhi e poi mi ha tolto la vita» la voce era rigida, graffiante come una roccia. Sul suo viso dalla barba incolta era calata un’ombra ben peggiore di quelle precedenti. «Quella donna. Quella dannata guerriera ha voluto sopravvivere fino alla fine! Dannazione!» L’uomo si voltò, furioso, a osservare la cerva nera e prima che lei potesse allontanarsi le strinse le spalle in una presa ferrea. «Con quella sua pellaccia dura, sono sicuro che non è ancora morta.» C’era pazzia nei suoi occhi neri. Pazzia e convinzione, un mix letale. «Lei non muore tanto facilmente, io lo so. Lei sta aspettando nell’ombra il momento giusto per attaccare di nuovo, come un serpente velenoso. Ma questa volta…» la strinse di più, portandola a mordersi le guance «questa volta sarò io il primo ad attaccare, e lei capirà cosa vuol dire perdere qualcuno che si ama.» Con forza la spinse lontano, poi alzò il viso al cielo e allargò le mani. « MI HAI SENTITO, GUARDIANA?! QUESTA VOLTA LA VITTORIA E’ MIA!» un coro di ruggiti accompagnò quel grido di guerra, con talmente tanta foga da far tremare la terra cosparsa di cenere.
«Tutto questo odio, condurrà alla morte» sussurrò Aldëa, voltandosi per ritornarsene al suo giaciglio. Mentre camminava osservò i draghi che la circondavano, ne esaminò i colori e le forme. Li guardò tutti negli occhi, sostenendo i loro sguardi vipereschi con forza e fegato. Quei lucertoloni erano grandi, grossi e pericolosi ma lei poteva prevedere ogni cosa, perciò sapevano bene di non poterla attaccare di sorpresa. In più, si trovava sotto la protezione di quello che era il loro capo padrone.
Tutto questo, è sbagliato. Si voltò nella direzione da cui era arrivata la voce e annuì a un giovane drago dagli occhi più pallidi della neve.
  
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