Capitolo
1. L'inizio di una
grande(?) avventura
Makoto
Hinamori, tredici anni e mezzo e quattro
medaglie conquistate, passeggiava quieto per il bosco Smeraldo.
Nonostante
l’alta vegetazione crescesse tanto fitta da oscurare quasi
completamente
l’ambiente circostante, rendendolo un tantino lugubre e
intimidatorio, il
ragazzo non sembrava provare timore alcuno, anzi, camminava tronfio e
fiero nel
mezzo della foresta, sfoggiando un sorriso strafottente mentre
carezzava la
prima Pokéball presente nella sua cintura. Quando le foglie
dei cespugli
frusciavano leggermente, lanciava infuocate occhiate ai punti
incriminati, come
se quello sguardo bastasse a far scappare i Pokémon
selvatici pronti ad
attaccar briga con un allenatore forte come lui.
Fu però un fruscio troppo pesante a farlo voltare, lo
sguardo prima tanto
audace era animato da una scintilla di inquietudine.
«C’è qualcuno?»
Gracchiò, ma non ricevette alcuna risposta.
Sbuffando, tornò a voltarsi per proseguire il proprio
cammino, quando il sonoro
fruscio si ripeté ancora. E ancora. E ancora.
Qualche Pokémon selvatico gli stava andando incontro e, a
giudicare dal rumore,
doveva essere bello grosso.
«Ti avverto, ho vinto quattro medaglie ed ho una squadra
fortissima!» minacciò,
ma la sua voce tremula sembrò non aver del tutto convinto il
misterioso Pokémon
selvatico, che si faceva più vicino ogni secondo che passava.
«Mamma, aiuto!» con uno scatto repentino, Makoto
corse via, lasciando che
qualche spicciolo gli cadesse dalla borsa dei risparmi, proprio come
accadeva
dopo aver perso contro Pokémon selvatici.
Nel bosco era calato nuovamente il quieto e quasi spaventoso silenzio
che lo
caratterizzava, fatta eccezione per quel continuo brusio che proveniva
da un
albero non molto distante dal punto in cui Makoto aveva fatto cadere i
pochi
spicci.
Con un balzo spaventoso, qualcosa
scese agilmente da uno dei rami più alti, piombando al suolo
come solo un
primate sarebbe stato capace di fare, avvicinandosi alle monete
sparpagliate
sul muschio fresco. Ne prese una e l’annusò,
arricciando il naso per il penetrante
odore di ferro.
Appurato che il denaro non fosse commestibile, la cosa
lo gettò via con riluttanza.
«Non sono nemmeno di cioccolata.»
borbottò, sedendosi a gambe incrociate
sull’erba «Perché gli allenatori non
perdono mai qualcosa di buono da mangiare?»
Scuotendo affranta il capo, e lasciando che l’arruffata massa
di capelli
castani si muovesse assieme alla testa, la cosa – che, se non
fosse stato per
gli abiti sporchi e logori e il disordine dei capelli tanto crespi da
sembrare
una criniera, sarebbe potuta apparire un essere umano qualsiasi
– iniziò a
raccattare tutte le monetine daccapo.
«Però posso chiedere ad un viaggiatore di
comprarmi qualcosa al supermarket di
Smeraldopoli, con questi soldi. Qualcuno che non fugge via.»
rifletté ruotando
gli occhi al ricordo dell’allenatore che prima faceva tutto
il gradasso, poi,
sentendola arrivare, era fuggito a gambe levate come una femminuccia.
Gemendo scocciata e con lo stomaco che aveva preso a reclamare
prepotentemente
del cibo, la cosa s’arrampicò
su per
il tronco dell’albero, tornando a nascondersi tra le folte
fronde verde scuro
del bosco Smeraldo.
***
«Qui Julia Geller, in diretta da
Pokénews
24. Abbiamo qui con noi Makoto Hinamori, ultima vittima del fantomatico
mostro
smeraldo, la tutt’ora sconosciuta belva che si diverte da due
mesi a questa
parte ad aggredire e spaventare allenatori rubando loro cibo, soldi e,
talvolta, strumenti.» sullo schermo televisivo,
oltre la curata figura
della giornalista – il giorno in cui una reporter di
Pokénews 24 si fosse
presentata senza tailleur e stucco in faccia i poli terrestri si
sarebbero
invertiti –, era apparsa anche quella di un ragazzino che si
guardava inquieto
attorno, alle parole “mostro smeraldo”, era
rabbrividito terrorizzato.
«Hai qualche dichiarazione da fare,
Makoto?» Alla domanda della reporter, il ragazzino
annuì fragorosamente,
per poi scipparle il microfono di mano ed iniziare ad ululare «È stato orribile! Era buio
quando mi ha
assalito, l’unica cosa che sono riuscito a vedere era lo
sguardo assatanato! I
miei Pokémon erano stanchi, così ho preferito
farmi derubare e non metterli in
pericolo, ma se avessi avuto la squadra in piena forma, a quest'ora il
mostro
Smeraldo non sarebbe che un lontano ricordo!»
Strappando il microfono di mano all’allenatore
– che aveva preso a
raccontare di come l’avrebbe fatta pagare al mostro se
l’avesse rincontrato in
futuro – e passandosi una mano tra i capelli, la giornalista
riprese a parlare «Quel che ci dici
è davvero terribile,
Makoto. Ma chi è davvero il mostro smeraldo, abitanti di
Kanto? Cosa si
nasconde dietro questa spaventosa belva che si diverte ad atterrire
sprovveduti
allenatori, derubandoli dei loro averi? Un pazzo? O forse un
Pokémon
particolarmente feroce? Purtroppo, per oggi è tutto, ripasso
la linea allo
studi –»
Yuri spense la TV, un’espressione furbesca s’era
disegnata sul lentigginoso
volto. Dal momento del suo risveglio, alle sei circa, non riusciva
più a
prender sonno, ed aveva passato ben un’ora e mezza a seguire
con disinteresse
il notiziario mattutino, fino a quando s’erano fatte
finalmente le otto e
mezza. Il professor Oak sarebbe giunto a momenti a Smeraldopoli.
Saltando giù
dal letto, corse verso l’armadio e
l’aprì, infilandosi letteralmente nel
guardaroba, iniziando a scavare, e ne uscì solo quando
finalmente trovò uno
zaino, sommerso tra tanti abiti spiegazzati e gettati alla rinfusa.
Passandosi una mano tra i corti e spettinati capelli rossicci per
acconciarli
almeno un po’, corse animatamente fino alla cucina, scendendo
due a due i
gradini della scala che dal primo piano portava al piano terra,
rischiando di
inciampare più volte; quando spalancò la porta
della cucina trovò, come
previsto, la madre ai fornelli, intenta a preparare qualcosa di davvero
squisito, a giudicare dall’odore.
Osservandola con il verde sguardo pieno di sicurezza, Yuri
urlò «Mamma, è ora!»
alzando una mano come uno scolaretto che risponde all’appello.
La donna, posando per un attimo le pentole con cui stava armeggiando,
si voltò
verso Yuri, le labbra piegate in un dolcissimo sorriso stonavano con
gli occhi,
arrossati e rivestiti da una leggera patina
d’umidità.
La fronte lentigginosa di Yuri si corrugò
«Mammina, stai … bene?»
La donna sospirò «Certo, è solo che
… – la donna avanzò, avvolgendo Yuri in
uno
stretto abbraccio – Mi mancherai terribilmente. Mi sembra di
averti partorito
solo ieri, e ora guardati … Stai già per ricevere
il tuo primo Pokémon.»
«E non sei felice?» chiese ingenuamente.
La donna sciolse l’abbraccio, guardando Yuri negli occhi e
asciugandosi col
polso due lacrimucce che erano spuntate ai lati degli occhi
«Certo che lo sono!
È solo che mi manchi già ora, figuriamoci come
potrò sentirmi tra uno o due
mesi!» scherzò ridacchiando.
Yuri sbuffò pesantemente, gettandosi in modo piuttosto
sgraziato su una sedia
«Ti ho già detto che ti chiamerò ogni
volta che arrivo in un centro Pokémon,
mamma.»
«Oh, magari sarà così per i prossimi
due –tre mesi, massimo sei, ma poi
inizierai a farti sentire sempre meno, lo so per esperienza, visto che
tuo
padre fece la stessa identica cosa quando partì per
diventare allenatore.
Quella tua povera nonna non ricevette sue notizie per tre mesi, una
volta.
Stava per morire di crepacuore, credo.» rispose la madre,
accennando un
sorrisetto furbo che a Yuri non sfuggì «Ed
è per questo che sei mesi fa ho
ordinato un aggeggio molto utile dalla regione di Johto.»
Da una delle mensole prese una scatoletta e la porse a Yuri, che
l’afferrò con
titubanza. Sopra vi era stampata l’immagine di uno strano
apparecchio, non
somigliava vagamente nemmeno al Pokédex arrivato la
settimana prima, o alla
mappa città, regalo del padre, e sotto quella figura
c’era la scritta
“Pokégear”. Aveva un brutto
presentimento.
«Ha un telefono incorporato.» spiegò la
madre «Oltre che funzione radio e anche
mappe incorporate di tutte le regioni e isole esistenti. Si aggiorna in
rete.
Non so cosa significhi, ma mi sembra una buona cosa, no?»
Yuri sorrise ampiamente, mostrando la dentatura da decenne a cui
è da poco
caduto un premolare da latte. Iniziò a rigirarsi tra le mani
il pacchetto,
tentando di capire come aprirlo. Quando finalmente ci
riuscì, quello che si ritrovò
tra le mani fu un apparecchio dall’apertura a sportello e un
laccio per
appenderlo al collo, dal design semplice ma estremamente bello, ed era
talmente
nuovo e lucido da sembrare splendere.
«Ma è rosa!» esclamò Yuri
lasciandosi scappare una smorfia di disappunto.
«E allora?» domandò la madre con tono
disinteressato.
«Il rosa non mi piace! È così
… da femmine!» sbottò Yuri, saltando
dalla sedia
e rizzandosi in piedi.
«Ma tu sei femmina Yuri.
Basta già
quello che piace a te a farti sembrare un maschietto, lascia che almeno
quello
che piaccia a me ti ricordi cosa sei.»
«Ma …» cercò di intervenire
la ragazzina
«Niente ma, Yuri Hazuki. – quando la madre
pronunciava nome e cognome della
figlia con tono tanto serio, c’era da preoccuparsi
– Ora tu prendi questo
Pokégear senza fare storie, te lo infili al collo e non te
lo levi fino a
quando non compirai quarant’anni, chiaro?»
La ragazzina fissò con un’ultima occhiata
contrariata la madre.
«Va bene.» sbottò, mettendo il
Pokégear rosa al collo, nonostante stonasse
terribilmente con la maglietta verde e i jeans strappati sulle
ginocchia che
indossava quel giorno. «Ma questo è
l’ultimo favore che ti faccio per otto
mesi.» urlò poi, prima di voltarsi e correre verso
la porta d’ingresso, pronta
a dirigersi verso il punto d’incontro col professor Oak.
«Ti voglio bene anche io, tesoro!» rispose la donna
scoppiando a ridere.
Quella piccola belva della figlia le sarebbe mancata da morire.
***
«Suvvia, Izumi, non ti ho mica chiesto
l’impossibile!»
La ragazzina continuava a nascondersi terrorizzata dietro la figura
forte e
muscolosa del padre, che aveva l’aria di chi a momenti
avrebbe perso la
pazienza.
Machop intanto osservava confuso la scena con il capo reclinato e
l’aria di chi
aveva voglia di essere da tutt’altra parte.
«Chop?»
«Aiyah … Papà! – si
lagnò la ragazzina singhiozzando, stringendosi
convulsamente alla vita del genitore con un braccio – Ti
prego, ho paura!»
L’uomo sospirò «Izumi, tesoro, so bene
che non ti piacciono i Pokémon, ma in
quanto mia primogenita, spetta a te mantenere alta la tradizione di
famiglia ed
ereditare il dojo di famiglia.»
«E non posso imparare solo il kenpo?»
«No, Izumi, mi dispiace, ma il kenpo stile Wong prevede mosse
combinate con i
Pokémon, e lo sai bene.» scostando con delicatezza
il braccio della figlia che
gli cingeva la vita, si voltò verso di lei e si
abbassò quanto bastava per
guardarla dritto negli occhi – nel suo caso si
abbassò parecchio, vista
l’indecente statura della figlia, che rasentava il metro e
trentacinque –,
asciugandole il volto rigato dalle lacrime «Ti
dovrà pur passare prima o poi
questa fobia.»
« … Aiyah.» La piccola calò
lo sguardo, sfiorandosi il braccio sinistro. Quel
gesto non sfuggì al padre, che le prese la mano tra le sue
grandi e forti.
«So che da quando l’incidente
ha
causato l’atrofia del braccio sinistro hai paura dei Pokemon,
ma devi capire
che è per il tuo bene se insisto affinché superi
questo problema.»
Izumi annuì col capo, lasciando che i capelli neri legati in
due codini oscillassero,
poi tirò su col naso e asciugò i lacrimoni che
già si erano formati ai lati dei
grigi occhi a mandorla.
«… Chop?»
Quando vide il Machop avvicinarsi a lei con aria curiosa, la ragazzina
s’irrigidì, cercando di contenere il panico come
spesso il padre le aveva detto
di fare, (inspira, espira, inspira,
espira, inspira, espira …) ma non
riuscì a trattenere un grido quando il
Pokémon lotta provò a toccarle il braccio
atrofizzato.
Nell’attimo che seguì, il piccolo Machop,
circondato improvvisamente da un’aura
blu, fu scaraventato via da una misteriosa forza, andando a sbattere
contro il
tronco di un albero; Izumi lo fissava con gli occhi sbarrati dal
terrore, occhi
diversi da quelli grigi e dolci che aveva pochi istanti prima. Le iridi
erano
divenute color cremisi e solo un sottile anello argentato attorno alla
pupilla
richiamava l’originario colore dell’iride. Anche il
braccio sinistro della
ragazzina era circondato dall’aura bluastra e, piegato in una
posizione
abbastanza innaturale, copriva con la mano la piccola bocca della
cinese, che
stava nuovamente per scoppiare in lacrime.
Soccorrendo il Machop ferito, il padre di Izumi si voltò
verso la figlia,
fulminandola «Adesso basta, accetterò da te
comportamenti tanto infantili non
un secondo di più.» urlò, puntandole un
dito contro «In quanto figlia del
Maestro del dojo di Zafferanopoli esigo che tu la pianti di aver paura
dei
Pokémon. Anche perché – sorpresa,
figlia mia – oggi partirai con Sabrina per
Smeraldopoli, da lì inizierà il tuo viaggio come
allenatrice.»
«Papà, tu non puoi …»
cercò di protestare la figlia.
«Oh, sì che posso.» ringhiò
l’uomo, assumendo un’espressione tanto rude e
cattiva da far fuggire via la piccola Izumi, ancora in lacrime.
Inspirando un paio di volte per calmarsi, l’uomo
aiutò il piccolo Machop ad
alzarsi, poi lo fece rientrare nella sfera Poké.
«Perdonami, mia piccola Izumi.» sussurrò
poi «Vedrai che un giorno riuscirai a
comprendere tutto il bene con cui ho agito oggi.»
«Scusa l’attesa Izumi, ma stavo finendo di
prepararti lo zaino … Sai, tuo padre
mi ha preso completamente alla sprovvista quando mi ha detto che hai
accettato
di diventare allenatrice! Dopo l’incidente,
non me lo sarei mai aspetta - …» Sabrina,
Capopalestra di Zafferanopoli, entrò
nel piccolo privè della sua palestra, quello in cui gli
allenatori di Pokémon
psichici che ospitava si riposavano durante il tempo libero o si
allenavano
nell’utilizzo della telecinesi. Quando si ritrovò
una bambina in lacrime,
anziché una sorridente come si aspettava, sgranò
scioccata gli occhi.
«Izumi, che hai?» esclamò, correndo
incontro alla piccola ed abbracciandola.
Sabrina era sempre stata gelida con chiunque, ma con la figlia del
maestro Lee,
che tanto considerava una sorellina dal giorno dell’incidente che ebbe la piccola a cinque
anni circa – incidente di
cui a tutti faceva terribilmente male anche solo il ricordo –
il lato dolce e
tenero che era in lei riusciva sempre ad avere la meglio
sull’algido e serioso
carattere della Capopalestra.
«… Ai – Aiyah! Papà
… arrabbiato … il viaggio …
Pokémon … » balbettò la
piccola
tra i singhiozzi che scuotevano l’esile corpo, mentre il
braccio destro
ricambiava la stretta della Capopalestra, il sinistro era tornato a
giacere
inerte lungo il fianco, anche il colore delle iridi era tornato grigio.
«Su, su. – iniziò Sabrina con tono
dolce, tentando di calmare la piccola –
Adesso prendi un profondo respiro, fai mente locale come ti ho
insegnato e
raccontami tutto con più calma.»
Seguendo le indicazioni della Capopalestra, Izumi smise di balbettare e
prese
un profondo respiro, per poi iniziare a spiegarle con calma
l’intero accaduto:
l’ennesimo allenamento col padre per farle passare la fobia
per i Pokémon, il
padre infuriato per l’ennesima volta, l’ennesima
volta in cui i suoi esp
si erano attivati senza che lei se
ne rendesse conto quando il Pokémon l’aveva
toccata e l’inaspettato momento in
cui il padre le aveva comunicato che avrebbe iniziato il suo viaggio
come
allenatrice di Pokémon. Il tutto fu detto versando una
copiosa quantità di
lacrime.
Sabrina, dedicandole un sorriso di conforto, si limitò a
posarle una mano sul
capo, accarezzandolo lentamente. Quel gesto ebbe il potere di far
calmare la
piccola cinese, che smise di piangere e alzò lo sguardo
gonfio e arrossato
verso la donna.
«Tuo padre non sa proprio cosa significhi avere a che fare
con una bambina. –
sospirò Sabrina – Se solo riuscisse ad essere un
po’ più gentile riuscirebbe a
farti capire quanto davvero ci tenga a te.» le disse poi,
abbozzando un nuovo
sorriso «Viaggiare con i propri Pokémon
è una delle cose più belle che la vita
possa offrirti, e tuo padre desidera solo che la tua fobia non ti
precluda di
vivere l’incredibile esperienza
dell’avventura.»
Izumi abbassò lo sguardo «Ma se non riesco a stare
a dieci metri da un Pokémon
che inizio a tremare, come ci divento allenatrice?»
mugugnò gonfiando le guance
con disappunto.
Sabrina ridacchiò per la buffa espressione della piccola,
poi continuò «Magari
i troppi anni di allenamento avranno sottosviluppato il cervello del
tuo
vecchio, Izumi – senza offesa –, ma credo proprio
che, decidendo di farti
partire, abbia fatto una scelta giusta. Secondo me, quel che ti serve
per
comprendere che i Pokémon non sono pericolosi è
affezionarti ad uno di loro.»
La piccola cinese si morse il labbro inferiore «I
Pokémon lottatori non mi
piacciono.» sbuffò, tenendo lo sguardo basso come
se stesse confessando
un’enorme colpa «Si muovono un po’
troppo. Oh, e picchiano.»
«Allora ti somigliano.» sorrise Sabrina, ricevendo
una finta sfuriata da parte
della cinese, che le saltellava attorno come una scimmietta lasciandole
lievi
colpi.
«Comunque, Izumi, – la interruppe la Capopalestra,
tornando seria – per te
avevamo già pensato che un Pokémon di tipo lotta
fosse poco adatto. Per farli
obbedire ci vuole un allenatore tosto, e tu, terrorizzata come sei dai
Pokémon,
ti faresti sottomettere facilmente.»
«Avevamo
pensato?» ripeté dubbiosa
Izumi.
«Io e tua madre.» spiegò Sabrina
«Non penserai che stia facendo agire tuo padre
tutto solo, vero? Sappi che il suo zampino c’è
sempre, anche se nell’ombra.»
«Aiyah! Donna malvagia.» si limitò a
rispondere Izumi scuotendo il capo,
facendo scoppiare a ridere Sabrina.
«Tornando al discorso sui Pokémon, –
riprese la donna, a cui non sfuggì la
smorfia della cinesina, a giudicare dalla dolce occhiata che le
dedicò poi – io
e tua madre abbiamo ritenuto che la scelta migliore sarebbe stata
affidarti un
Pokémon Psico. Hanno poteri immensi e creano con
l’allenatore un legame
empatico fortissimo. E poi sono più semplici da allenare per
chi ha poteri
extrasensoriali. E i tuoi, Izumi, sono tra i più forti che
abbia mai visto.»
sorrise la Capopalestra, porgendo alla piccola una sfera bianca e
rossa,
semi-trasparente per permettere di osservarne l’interno. La
ragazzina sgranò gli
occhi e s’irrigidì quando notò che
dentro c’era qualcosa. Un Pokémon. Il suo
Pokémon.
Sabrina premette il pulsante al centro della sfera, per rimpicciolirla
e
porgerla ad Izumi. «Vedrai che ti piacerà. Su,
prendi!» la esortò.
La cinesina porse titubante la mano scossa da lievi tremiti, per poi
ritrarla
quando Sabrina fece cadere sul suo palmo minuto la Pokéball.
Reclinando la testa di lato, Izumi premette il bottone per ingrandire
la
Pokéball, così da poter osservare meglio il
Pokémon che conteneva: i colori non
si distinguevano bene, e la forma le sembrava tanto quella di una
specie di
mazza da baseball corta e grossa. O quella di una lattina schiacciata
attaccata
ad una palla. O qualcosa di altrettanto strambo.
«È proprio brutto.» Izumi
corrucciò le sopracciglia, assumendo
un’espressione
offesa, il che fece nuovamente ridere Sabrina.
«Fa’ poco la schizzinosa, che tra poco devi andare!
Lo zaino con dentro il
Pokédex e qualche oggetto utile ce l’ho qui, te lo
dovrai portare a
Smeraldopoli. A proposito, sicura di farcela a teletrasportarti tanto
lontano?»
Afferrando il borsone che la Capopalestra le stava porgendo, Izumi
sorrise
sghemba «Aiyah, per chi mi hai presa?»
esclamò, prima di rimpicciolire la
Pokéball ed infilarla nella cintura nera da artista marziale
che il padre aveva
provveduto a rendere capace di portare sei sfere Poké.
Prese una lunga boccata d’aria, portando la mano destra con
indice e medio tesi
a sfiorarle la punta del piccolo naso all’insù,
sgombrò la mente ed iniziò a
concentrarsi immensamente su Smeraldopoli, mettendone lentamente a
fuoco
l’entrata del Centro Pokémon – quelli
erano identici in ogni città, bastava
cambiare scritta del cartello che augurava benvenuto ai viandanti.
Quando le
sue iridi si fecero scarlatte e un anello argenteo si
disegnò attorno alla
pupilla, un misterioso flusso d’energia prese a scompigliarle
capelli e
vestiti, l’immagine del Centro medico appariva ormai nitida
nella sua mente.
Ogni volta che usava i suoi esp,
sentiva un leggero pizzichio dietro la retina dell’iride,
come se il diventare
scarlatte le facesse anche bruciare.
«Allora io vado! Ciao, ci vediamo presto, Sabrina!»
urlò a Sabrina, prima che
una luce la avvolgesse e la trascinasse, con la solita morsa che le
tirava la
bocca dello stomaco per qualche istante, in un vorticoso tunnel scuro,
quello
che l’avrebbe portata in pochi secondi lontana chilometri e
chilometri dalla
stanza in cui la Capopalestra era ormai rimasta sola.
Angolino
dell'autrice:
Era davvero,
davvero tanto che non mi cimentavo in
una long-fic, però questa storia ce l'avevo in mente da un
po' di tempo, quindi
mi sono detta: Perché no? Forse perché domani mi
ritroverò sicuramente a
piangermi addosso chiedendomi perché cavolo l'abbia fatto,
che sono troppo
pigra per alzare e abbassare le dita sulla tastiera, che troppe parole
manderebbero in tilt il mio povero cervello, che cercare di pubblicare
più di
un capitolo al mese potrebbe portarmi alla follia; ma ormai ho deciso,
quindi,
miei cari rimpianti, con voi farò i conti in un momento di
maggiore lucidità
mentale.
Parliamo un po' di
questa fic, Hurricanes.
Uragani, caotici e travolgenti, e cosa è più
caotico e travolgente di un
decenne in preda alla più vivace foga di vivere il proprio
sogno? Forse un branco
di decenni. La storia non vuole esser altro che il racconto di come
questo
particolare branco abbia deciso di inseguire i
propri sogni, qualcosa
che rimpiazzi nel mio povero animo ferito il deludente anime che
continua a
farmi dannare da quasi vent’anni.
Vorrei spendere un
paio di parole sul contesto: la
fic è ambientata a circa cinque anni dagli avvenimenti di
Rosso, Verde e Blu,
ma il contesto non è propriamente né quello del
videogioco, né quello del
manga, anche se attinge un po' dall'uno, un po' dall'altro, un po'
dalle mie
congetture mentali (il contesto dell'anime l'ho completamente abolito),
spero
di riuscire a rendere tutto nel migliore dei modi!
Per ora non ho
più nulla da aggiungere, se non che
ringrazio tantissimo anticipatamente chi leggerà la storia e
chi sarà così
gentile da lasciarmi un commento.
Ape