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Autore: __Ape_    11/02/2015    1 recensioni
Prendete una particolare ragazzina costretta dal padre a diventare allenatrice, una selvaggia che ha completamente dimenticato cosa significhi vivere civilmente desiderosa di diventare la più forte di tutti, una peste che viene costantemente scambiata per un maschio, una capturer entomofoba con la passione per l’antichità, una timida allenatrice totalmente priva di senso dell’orientamento, una ragazzina decisamente carina dal carattere scostante e il passato misterioso e mettetele assieme a girovagare per il mondo, inseguendo ognuna il proprio sogno; aggiungete una buona dose di stupidità e di disavventure, qualche sprazzo di passato qua e là pronto a rimescolare le carte in tavola ed otterrete la storia di sei uragani che solo assieme possono ritrovare il sereno.
Genere: Avventura, Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Manga, Videogioco
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Capitolo 1. L'inizio di una grande(?) avventura


Makoto Hinamori, tredici anni e mezzo e quattro medaglie conquistate, passeggiava quieto per il bosco Smeraldo. Nonostante l’alta vegetazione crescesse tanto fitta da oscurare quasi completamente l’ambiente circostante, rendendolo un tantino lugubre e intimidatorio, il ragazzo non sembrava provare timore alcuno, anzi, camminava tronfio e fiero nel mezzo della foresta, sfoggiando un sorriso strafottente mentre carezzava la prima Pokéball presente nella sua cintura. Quando le foglie dei cespugli frusciavano leggermente, lanciava infuocate occhiate ai punti incriminati, come se quello sguardo bastasse a far scappare i Pokémon selvatici pronti ad attaccar briga con un allenatore forte come lui.
Fu però un fruscio troppo pesante a farlo voltare, lo sguardo prima tanto audace era animato da una scintilla di inquietudine.
«C’è qualcuno?» Gracchiò, ma non ricevette alcuna risposta.
Sbuffando, tornò a voltarsi per proseguire il proprio cammino, quando il sonoro fruscio si ripeté ancora. E ancora. E ancora.
Qualche Pokémon selvatico gli stava andando incontro e, a giudicare dal rumore, doveva essere bello grosso.
«Ti avverto, ho vinto quattro medaglie ed ho una squadra fortissima!» minacciò, ma la sua voce tremula sembrò non aver del tutto convinto il misterioso Pokémon selvatico, che si faceva più vicino ogni secondo che passava.
«Mamma, aiuto!» con uno scatto repentino, Makoto corse via, lasciando che qualche spicciolo gli cadesse dalla borsa dei risparmi, proprio come accadeva dopo aver perso contro Pokémon selvatici.
Nel bosco era calato nuovamente il quieto e quasi spaventoso silenzio che lo caratterizzava, fatta eccezione per quel continuo brusio che proveniva da un albero non molto distante dal punto in cui Makoto aveva fatto cadere i pochi spicci.
Con un balzo spaventoso, qualcosa scese agilmente da uno dei rami più alti, piombando al suolo come solo un primate sarebbe stato capace di fare, avvicinandosi alle monete sparpagliate sul muschio fresco. Ne prese una e l’annusò, arricciando il naso per il penetrante odore di ferro.
Appurato che il denaro non fosse commestibile, la cosa lo gettò via con riluttanza.
«Non sono nemmeno di cioccolata.» borbottò, sedendosi a gambe incrociate sull’erba «Perché gli allenatori non perdono mai qualcosa di buono da mangiare?»
Scuotendo affranta il capo, e lasciando che l’arruffata massa di capelli castani si muovesse assieme alla testa, la cosa – che, se non fosse stato per gli abiti sporchi e logori e il disordine dei capelli tanto crespi da sembrare una criniera, sarebbe potuta apparire un essere umano qualsiasi – iniziò a raccattare tutte le monetine daccapo.
«Però posso chiedere ad un viaggiatore di comprarmi qualcosa al supermarket di Smeraldopoli, con questi soldi. Qualcuno che non fugge via.» rifletté ruotando gli occhi al ricordo dell’allenatore che prima faceva tutto il gradasso, poi, sentendola arrivare, era fuggito a gambe levate come una femminuccia.
Gemendo scocciata e con lo stomaco che aveva preso a reclamare prepotentemente del cibo, la cosa s’arrampicò su per il tronco dell’albero, tornando a nascondersi tra le folte fronde verde scuro del bosco Smeraldo.

***


«Qui Julia Geller, in diretta da Pokénews 24. Abbiamo qui con noi Makoto Hinamori, ultima vittima del fantomatico mostro smeraldo, la tutt’ora sconosciuta belva che si diverte da due mesi a questa parte ad aggredire e spaventare allenatori rubando loro cibo, soldi e, talvolta, strumenti.» sullo schermo televisivo, oltre la curata figura della giornalista – il giorno in cui una reporter di Pokénews 24 si fosse presentata senza tailleur e stucco in faccia i poli terrestri si sarebbero invertiti –, era apparsa anche quella di un ragazzino che si guardava inquieto attorno, alle parole “mostro smeraldo”, era rabbrividito terrorizzato.
«Hai qualche dichiarazione da fare, Makoto?» Alla domanda della reporter, il ragazzino annuì fragorosamente, per poi scipparle il microfono di mano ed iniziare ad ululare «È stato orribile! Era buio quando mi ha assalito, l’unica cosa che sono riuscito a vedere era lo sguardo assatanato! I miei Pokémon erano stanchi, così ho preferito farmi derubare e non metterli in pericolo, ma se avessi avuto la squadra in piena forma, a quest'ora il mostro Smeraldo non sarebbe che un lontano ricordo!»
Strappando il microfono di mano all’allenatore – che aveva preso a raccontare di come l’avrebbe fatta pagare al mostro se l’avesse rincontrato in futuro – e passandosi una mano tra i capelli, la giornalista riprese a parlare «Quel che ci dici è davvero terribile, Makoto. Ma chi è davvero il mostro smeraldo, abitanti di Kanto? Cosa si nasconde dietro questa spaventosa belva che si diverte ad atterrire sprovveduti allenatori, derubandoli dei loro averi? Un pazzo? O forse un Pokémon particolarmente feroce? Purtroppo, per oggi è tutto, ripasso la linea allo studi –»
Yuri spense la TV, un’espressione furbesca s’era disegnata sul lentigginoso volto. Dal momento del suo risveglio, alle sei circa, non riusciva più a prender sonno, ed aveva passato ben un’ora e mezza a seguire con disinteresse il notiziario mattutino, fino a quando s’erano fatte finalmente le otto e mezza. Il professor Oak sarebbe giunto a momenti a Smeraldopoli. Saltando giù dal letto, corse verso l’armadio e l’aprì, infilandosi letteralmente nel guardaroba, iniziando a scavare, e ne uscì solo quando finalmente trovò uno zaino, sommerso tra tanti abiti spiegazzati e gettati alla rinfusa.
Passandosi una mano tra i corti e spettinati capelli rossicci per acconciarli almeno un po’, corse animatamente fino alla cucina, scendendo due a due i gradini della scala che dal primo piano portava al piano terra, rischiando di inciampare più volte; quando spalancò la porta della cucina trovò, come previsto, la madre ai fornelli, intenta a preparare qualcosa di davvero squisito, a giudicare dall’odore.
Osservandola con il verde sguardo pieno di sicurezza, Yuri urlò «Mamma, è ora!» alzando una mano come uno scolaretto che risponde all’appello.
La donna, posando per un attimo le pentole con cui stava armeggiando, si voltò verso Yuri, le labbra piegate in un dolcissimo sorriso stonavano con gli occhi, arrossati e rivestiti da una leggera patina d’umidità.
La fronte lentigginosa di Yuri si corrugò «Mammina, stai … bene?»
La donna sospirò «Certo, è solo che … – la donna avanzò, avvolgendo Yuri in uno stretto abbraccio – Mi mancherai terribilmente. Mi sembra di averti partorito solo ieri, e ora guardati … Stai già per ricevere il tuo primo Pokémon.»
«E non sei felice?» chiese ingenuamente.
La donna sciolse l’abbraccio, guardando Yuri negli occhi e asciugandosi col polso due lacrimucce che erano spuntate ai lati degli occhi «Certo che lo sono! È solo che mi manchi già ora, figuriamoci come potrò sentirmi tra uno o due mesi!» scherzò ridacchiando.
Yuri sbuffò pesantemente, gettandosi in modo piuttosto sgraziato su una sedia «Ti ho già detto che ti chiamerò ogni volta che arrivo in un centro Pokémon, mamma.»
«Oh, magari sarà così per i prossimi due –tre mesi, massimo sei, ma poi inizierai a farti sentire sempre meno, lo so per esperienza, visto che tuo padre fece la stessa identica cosa quando partì per diventare allenatore. Quella tua povera nonna non ricevette sue notizie per tre mesi, una volta. Stava per morire di crepacuore, credo.» rispose la madre, accennando un sorrisetto furbo che a Yuri non sfuggì «Ed è per questo che sei mesi fa ho ordinato un aggeggio molto utile dalla regione di Johto.»
Da una delle mensole prese una scatoletta e la porse a Yuri, che l’afferrò con titubanza. Sopra vi era stampata l’immagine di uno strano apparecchio, non somigliava vagamente nemmeno al Pokédex arrivato la settimana prima, o alla mappa città, regalo del padre, e sotto quella figura c’era la scritta “Pokégear”. Aveva un brutto presentimento.
«Ha un telefono incorporato.» spiegò la madre «Oltre che funzione radio e anche mappe incorporate di tutte le regioni e isole esistenti. Si aggiorna in rete. Non so cosa significhi, ma mi sembra una buona cosa, no?»
Yuri sorrise ampiamente, mostrando la dentatura da decenne a cui è da poco caduto un premolare da latte. Iniziò a rigirarsi tra le mani il pacchetto, tentando di capire come aprirlo. Quando finalmente ci riuscì, quello che si ritrovò tra le mani fu un apparecchio dall’apertura a sportello e un laccio per appenderlo al collo, dal design semplice ma estremamente bello, ed era talmente nuovo e lucido da sembrare splendere.
«Ma è rosa!» esclamò Yuri lasciandosi scappare una smorfia di disappunto.
«E allora?» domandò la madre con tono disinteressato.
«Il rosa non mi piace! È così … da femmine!» sbottò Yuri, saltando dalla sedia e rizzandosi in piedi.
«Ma tu sei femmina Yuri. Basta già quello che piace a te a farti sembrare un maschietto, lascia che almeno quello che piaccia a me ti ricordi cosa sei.»
«Ma …» cercò di intervenire la ragazzina
«Niente ma, Yuri Hazuki. – quando la madre pronunciava nome e cognome della figlia con tono tanto serio, c’era da preoccuparsi – Ora tu prendi questo Pokégear senza fare storie, te lo infili al collo e non te lo levi fino a quando non compirai quarant’anni, chiaro?»
La ragazzina fissò con un’ultima occhiata contrariata la madre.
«Va bene.» sbottò, mettendo il Pokégear rosa al collo, nonostante stonasse terribilmente con la maglietta verde e i jeans strappati sulle ginocchia che indossava quel giorno. «Ma questo è l’ultimo favore che ti faccio per otto mesi.» urlò poi, prima di voltarsi e correre verso la porta d’ingresso, pronta a dirigersi verso il punto d’incontro col professor Oak.
«Ti voglio bene anche io, tesoro!» rispose la donna scoppiando a ridere.
Quella piccola belva della figlia le sarebbe mancata da morire.

***


«Suvvia, Izumi, non ti ho mica chiesto l’impossibile!»
La ragazzina continuava a nascondersi terrorizzata dietro la figura forte e muscolosa del padre, che aveva l’aria di chi a momenti avrebbe perso la pazienza.
Machop intanto osservava confuso la scena con il capo reclinato e l’aria di chi aveva voglia di essere da tutt’altra parte. «Chop?»
«Aiyah … Papà! – si lagnò la ragazzina singhiozzando, stringendosi convulsamente alla vita del genitore con un braccio – Ti prego, ho paura!»
L’uomo sospirò «Izumi, tesoro, so bene che non ti piacciono i Pokémon, ma in quanto mia primogenita, spetta a te mantenere alta la tradizione di famiglia ed ereditare il dojo di famiglia.»
«E non posso imparare solo il kenpo?»
«No, Izumi, mi dispiace, ma il kenpo stile Wong prevede mosse combinate con i Pokémon, e lo sai bene.» scostando con delicatezza il braccio della figlia che gli cingeva la vita, si voltò verso di lei e si abbassò quanto bastava per guardarla dritto negli occhi – nel suo caso si abbassò parecchio, vista l’indecente statura della figlia, che rasentava il metro e trentacinque –, asciugandole il volto rigato dalle lacrime «Ti dovrà pur passare prima o poi questa fobia.»
« … Aiyah.» La piccola calò lo sguardo, sfiorandosi il braccio sinistro. Quel gesto non sfuggì al padre, che le prese la mano tra le sue grandi e forti.
«So che da quando l’incidente ha causato l’atrofia del braccio sinistro hai paura dei Pokemon, ma devi capire che è per il tuo bene se insisto affinché superi questo problema.»
Izumi annuì col capo, lasciando che i capelli neri legati in due codini oscillassero, poi tirò su col naso e asciugò i lacrimoni che già si erano formati ai lati dei grigi occhi a mandorla.
«… Chop?»
Quando vide il Machop avvicinarsi a lei con aria curiosa, la ragazzina s’irrigidì, cercando di contenere il panico come spesso il padre le aveva detto di fare, (inspira, espira, inspira, espira, inspira, espira …) ma non riuscì a trattenere un grido quando il Pokémon lotta provò a toccarle il braccio atrofizzato.
Nell’attimo che seguì, il piccolo Machop, circondato improvvisamente da un’aura blu, fu scaraventato via da una misteriosa forza, andando a sbattere contro il tronco di un albero; Izumi lo fissava con gli occhi sbarrati dal terrore, occhi diversi da quelli grigi e dolci che aveva pochi istanti prima. Le iridi erano divenute color cremisi e solo un sottile anello argentato attorno alla pupilla richiamava l’originario colore dell’iride. Anche il braccio sinistro della ragazzina era circondato dall’aura bluastra e, piegato in una posizione abbastanza innaturale, copriva con la mano la piccola bocca della cinese, che stava nuovamente per scoppiare in lacrime.
Soccorrendo il Machop ferito, il padre di Izumi si voltò verso la figlia, fulminandola «Adesso basta, accetterò da te comportamenti tanto infantili non un secondo di più.» urlò, puntandole un dito contro «In quanto figlia del Maestro del dojo di Zafferanopoli esigo che tu la pianti di aver paura dei Pokémon. Anche perché – sorpresa, figlia mia – oggi partirai con Sabrina per Smeraldopoli, da lì inizierà il tuo viaggio come allenatrice.»
«Papà, tu non puoi …» cercò di protestare la figlia.
«Oh, sì che posso.» ringhiò l’uomo, assumendo un’espressione tanto rude e cattiva da far fuggire via la piccola Izumi, ancora in lacrime.
Inspirando un paio di volte per calmarsi, l’uomo aiutò il piccolo Machop ad alzarsi, poi lo fece rientrare nella sfera Poké.
«Perdonami, mia piccola Izumi.» sussurrò poi «Vedrai che un giorno riuscirai a comprendere tutto il bene con cui ho agito oggi.»

«Scusa l’attesa Izumi, ma stavo finendo di prepararti lo zaino … Sai, tuo padre mi ha preso completamente alla sprovvista quando mi ha detto che hai accettato di diventare allenatrice! Dopo l’incidente, non me lo sarei mai aspetta - …» Sabrina, Capopalestra di Zafferanopoli, entrò nel piccolo privè della sua palestra, quello in cui gli allenatori di Pokémon psichici che ospitava si riposavano durante il tempo libero o si allenavano nell’utilizzo della telecinesi. Quando si ritrovò una bambina in lacrime, anziché una sorridente come si aspettava, sgranò scioccata gli occhi.
«Izumi, che hai?» esclamò, correndo incontro alla piccola ed abbracciandola. Sabrina era sempre stata gelida con chiunque, ma con la figlia del maestro Lee, che tanto considerava una sorellina dal giorno dell’incidente che ebbe la piccola a cinque anni circa – incidente di cui a tutti faceva terribilmente male anche solo il ricordo – il lato dolce e tenero che era in lei riusciva sempre ad avere la meglio sull’algido e serioso carattere della Capopalestra.
«… Ai – Aiyah! Papà … arrabbiato … il viaggio … Pokémon … » balbettò la piccola tra i singhiozzi che scuotevano l’esile corpo, mentre il braccio destro ricambiava la stretta della Capopalestra, il sinistro era tornato a giacere inerte lungo il fianco, anche il colore delle iridi era tornato grigio.
«Su, su. – iniziò Sabrina con tono dolce, tentando di calmare la piccola – Adesso prendi un profondo respiro, fai mente locale come ti ho insegnato e raccontami tutto con più calma.»
Seguendo le indicazioni della Capopalestra, Izumi smise di balbettare e prese un profondo respiro, per poi iniziare a spiegarle con calma l’intero accaduto: l’ennesimo allenamento col padre per farle passare la fobia per i Pokémon, il padre infuriato per l’ennesima volta, l’ennesima volta in cui i suoi esp si erano attivati senza che lei se ne rendesse conto quando il Pokémon l’aveva toccata e l’inaspettato momento in cui il padre le aveva comunicato che avrebbe iniziato il suo viaggio come allenatrice di Pokémon. Il tutto fu detto versando una copiosa quantità di lacrime.
Sabrina, dedicandole un sorriso di conforto, si limitò a posarle una mano sul capo, accarezzandolo lentamente. Quel gesto ebbe il potere di far calmare la piccola cinese, che smise di piangere e alzò lo sguardo gonfio e arrossato verso la donna.
«Tuo padre non sa proprio cosa significhi avere a che fare con una bambina. – sospirò Sabrina – Se solo riuscisse ad essere un po’ più gentile riuscirebbe a farti capire quanto davvero ci tenga a te.» le disse poi, abbozzando un nuovo sorriso «Viaggiare con i propri Pokémon è una delle cose più belle che la vita possa offrirti, e tuo padre desidera solo che la tua fobia non ti precluda di vivere l’incredibile esperienza dell’avventura.»
Izumi abbassò lo sguardo «Ma se non riesco a stare a dieci metri da un Pokémon che inizio a tremare, come ci divento allenatrice?» mugugnò gonfiando le guance con disappunto.
Sabrina ridacchiò per la buffa espressione della piccola, poi continuò «Magari i troppi anni di allenamento avranno sottosviluppato il cervello del tuo vecchio, Izumi – senza offesa –, ma credo proprio che, decidendo di farti partire, abbia fatto una scelta giusta. Secondo me, quel che ti serve per comprendere che i Pokémon non sono pericolosi è affezionarti ad uno di loro.»
La piccola cinese si morse il labbro inferiore «I Pokémon lottatori non mi piacciono.» sbuffò, tenendo lo sguardo basso come se stesse confessando un’enorme colpa «Si muovono un po’ troppo. Oh, e picchiano.»
«Allora ti somigliano.» sorrise Sabrina, ricevendo una finta sfuriata da parte della cinese, che le saltellava attorno come una scimmietta lasciandole lievi colpi.
«Comunque, Izumi, – la interruppe la Capopalestra, tornando seria – per te avevamo già pensato che un Pokémon di tipo lotta fosse poco adatto. Per farli obbedire ci vuole un allenatore tosto, e tu, terrorizzata come sei dai Pokémon, ti faresti sottomettere facilmente.»
«Avevamo pensato?» ripeté dubbiosa Izumi.
«Io e tua madre.» spiegò Sabrina «Non penserai che stia facendo agire tuo padre tutto solo, vero? Sappi che il suo zampino c’è sempre, anche se nell’ombra.»
«Aiyah! Donna malvagia.» si limitò a rispondere Izumi scuotendo il capo, facendo scoppiare a ridere Sabrina.
«Tornando al discorso sui Pokémon, – riprese la donna, a cui non sfuggì la smorfia della cinesina, a giudicare dalla dolce occhiata che le dedicò poi – io e tua madre abbiamo ritenuto che la scelta migliore sarebbe stata affidarti un Pokémon Psico. Hanno poteri immensi e creano con l’allenatore un legame empatico fortissimo. E poi sono più semplici da allenare per chi ha poteri extrasensoriali. E i tuoi, Izumi, sono tra i più forti che abbia mai visto.» sorrise la Capopalestra, porgendo alla piccola una sfera bianca e rossa, semi-trasparente per permettere di osservarne l’interno. La ragazzina sgranò gli occhi e s’irrigidì quando notò che dentro c’era qualcosa. Un Pokémon. Il suo Pokémon.
Sabrina premette il pulsante al centro della sfera, per rimpicciolirla e porgerla ad Izumi. «Vedrai che ti piacerà. Su, prendi!» la esortò.
La cinesina porse titubante la mano scossa da lievi tremiti, per poi ritrarla quando Sabrina fece cadere sul suo palmo minuto la Pokéball.
Reclinando la testa di lato, Izumi premette il bottone per ingrandire la Pokéball, così da poter osservare meglio il Pokémon che conteneva: i colori non si distinguevano bene, e la forma le sembrava tanto quella di una specie di mazza da baseball corta e grossa. O quella di una lattina schiacciata attaccata ad una palla. O qualcosa di altrettanto strambo.
«È proprio brutto.» Izumi corrucciò le sopracciglia, assumendo un’espressione offesa, il che fece nuovamente ridere Sabrina.
«Fa’ poco la schizzinosa, che tra poco devi andare! Lo zaino con dentro il Pokédex e qualche oggetto utile ce l’ho qui, te lo dovrai portare a Smeraldopoli. A proposito, sicura di farcela a teletrasportarti tanto lontano?»
Afferrando il borsone che la Capopalestra le stava porgendo, Izumi sorrise sghemba «Aiyah, per chi mi hai presa?» esclamò, prima di rimpicciolire la Pokéball ed infilarla nella cintura nera da artista marziale che il padre aveva provveduto a rendere capace di portare sei sfere Poké.
Prese una lunga boccata d’aria, portando la mano destra con indice e medio tesi a sfiorarle la punta del piccolo naso all’insù, sgombrò la mente ed iniziò a concentrarsi immensamente su Smeraldopoli, mettendone lentamente a fuoco l’entrata del Centro Pokémon – quelli erano identici in ogni città, bastava cambiare scritta del cartello che augurava benvenuto ai viandanti. Quando le sue iridi si fecero scarlatte e un anello argenteo si disegnò attorno alla pupilla, un misterioso flusso d’energia prese a scompigliarle capelli e vestiti, l’immagine del Centro medico appariva ormai nitida nella sua mente. Ogni volta che usava i suoi esp, sentiva un leggero pizzichio dietro la retina dell’iride, come se il diventare scarlatte le facesse anche bruciare.
«Allora io vado! Ciao, ci vediamo presto, Sabrina!» urlò a Sabrina, prima che una luce la avvolgesse e la trascinasse, con la solita morsa che le tirava la bocca dello stomaco per qualche istante, in un vorticoso tunnel scuro, quello che l’avrebbe portata in pochi secondi lontana chilometri e chilometri dalla stanza in cui la Capopalestra era ormai rimasta sola.

 

Angolino dell'autrice:

Era davvero, davvero tanto che non mi cimentavo in una long-fic, però questa storia ce l'avevo in mente da un po' di tempo, quindi mi sono detta: Perché no? Forse perché domani mi ritroverò sicuramente a piangermi addosso chiedendomi perché cavolo l'abbia fatto, che sono troppo pigra per alzare e abbassare le dita sulla tastiera, che troppe parole manderebbero in tilt il mio povero cervello, che cercare di pubblicare più di un capitolo al mese potrebbe portarmi alla follia; ma ormai ho deciso, quindi, miei cari rimpianti, con voi farò i conti in un momento di maggiore lucidità mentale.
Parliamo un po' di questa fic, Hurricanes. Uragani, caotici e travolgenti, e cosa è più caotico e travolgente di un decenne in preda alla più vivace foga di vivere il proprio sogno? Forse un branco di decenni. La storia non vuole esser altro che il racconto di come questo particolare branco abbia deciso di inseguire i propri sogni, qualcosa che rimpiazzi nel mio povero animo ferito il deludente anime che continua a farmi dannare da quasi vent’anni.

Vorrei spendere un paio di parole sul contesto: la fic è ambientata a circa cinque anni dagli avvenimenti di Rosso, Verde e Blu, ma il contesto non è propriamente né quello del videogioco, né quello del manga, anche se attinge un po' dall'uno, un po' dall'altro, un po' dalle mie congetture mentali (il contesto dell'anime l'ho completamente abolito), spero di riuscire a rendere tutto nel migliore dei modi!
Per ora non ho più nulla da aggiungere, se non che ringrazio tantissimo anticipatamente chi leggerà la storia e chi sarà così gentile da lasciarmi un commento.

Ape

   
 
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