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Autore: A Dream Called Death    17/02/2015    0 recensioni
< Pensi a lei qualche volta? > chiese poi.
< In continuazione > risposi.
Mi alzai dallo sgabello.
Lui mi fissò, incuriosito.
< E come faccio a sapere che con lei al mio fianco tornerò a vivere? Può essere l'anestetico al dolore? > chiesi.
< Lei non è l'anestetico al tuo dolore... Ma potrebbe essere la cura definitiva. >
Anno 2006.
Il tour mondiale di American Idiot è stato appena cancellato ed i Green Day tornano in America dopo tre mesi dalla partenza.
Ma qualcosa è cambiato, fuori e dentro il gruppo.
Per Billie Joe Armstrong lo scontro con le ombre del passato non è mai finito.
I pensieri, i dubbi e le insicurezze di un uomo che deve fare i conti con se stesso: una vita spesa per la musica e per la propria band, ma anche colma di bugie e alcol, nemico ed amico da sempre del protagonista, unico rimedio al dolore ed alla rassegnazione.
Ma un incontro lo sconvolge, mescola i pezzi del puzzle della sua vita, lo mette di fronte alla cruda realtà: non si può fingere per sempre, si deve trovare il coraggio di prendere la decisione più difficile di tutte... Essere felici.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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Ciao a tutti, volevo scusarmi innanzitutto per l'enorme ritardo con il quale posto i nuovi capitoli della storia. In realtà, avevo terminato la fanfiction, ma non mi convincevano alcune parti: quindi l'ho riscritta! Mi scuso, capisco e sono consapevole che la maggior parte dei vecchi lettori probabilmente abbia poca memoria riguardo ai fatti accaduti precedentemente. Per chi non avesse molta voglia di mettersi a rileggere tutti i capitoli, che sono parecchi, ecco qui un breve riassunto di quanto accaduto fino ad adesso nella storia: 

La storia ha come protagonista principale Billie Joe Armstrong, cantante e chitarrista dei Green Day, ed inizia con il suo ritorno nel nuovo continente dopo il tour europeo di American Idiot, durato diversi mesi ma bruscamente interrotto. Trovandosi con i compagni, Billie si incammina verso casa ma non vi fa rientro e da lì ha inizio il lungo flashback che spiega quanto gli è accaduto in Europa ed il motivo per il quale non vuole rientrare subito a casa aspettando la mezzanotte. Viene quindi raccontata dal protagonista l`enorme voglia di evadere dalla solitudine che lo ha portato, nella sua vita, a commettere molteplici errori: il matrimonio con la moglie Adrienne Nesser, ormai scivolato nella monotonia, ed i suoi tradimenti con l`amico e collega di sempre Mike Dirnt, con il quale ha instaurato una relazione da oltre vent`anni, decidendo poi di chiudere ma continuando ad avere con lui rapporti occasionali. Billie, un uomo alla continua ricerca di se stesso, narra una serie di avvenimenti che lo hanno indotto a conoscere Jane Rosenberg, inglese, figlia di un organizzatore di un festival: una donna sola e fortemente disturbata. Fin dal primo incontro con la giovane donna, avvenuto in un centro commerciale, Billie ne rimane molto turbato. Iniziano i preparativi per il festival e l`uomo la rivede, continuando a rimanerne profondamente turbato. Ma Jane non sembra essere portata al dialogo e rifiuta ogni tentativo del protagonista di iniziare una discussione. Questo atteggiamento ossessiona ancora di piú Billie, che comincia a perseguitare la ragazza. Durante una lite i due si abbracciano e Billie ha una brutta sensazione che lo fa allontanare. Troppo preso dal mistero di Jane, Billie trascura Mike, che comincia a nutrire dei sospetti. Alla già complicata situazione si aggiungono sensi di colpa, frustrazione ed enormi dubbi che assillano il protagonista durante tutto il corso della storia. Billie affronta Mike rivelando di essere ossessionato da una donna e questi, geloso, se ne va. Finito il festival, la sera della partenza, tutto il team è invitato a cena nella casa di John Rosenberg, padre di Jane. Billie si reca alla cena con Trè, nella speranza di rivedere la donna. I due si vedono, Jane cede alle pressioni dell`uomo e vanno in camera per fare l`amore ma Billie ha un malore improvviso e non riesce nel suo intento. Passa la notte ed il giorno dopo l`uomo parte per Berlino, dove deve tenere un altro concerto con il gruppo. Inizia per lui una lenta e profonda depressione: la mancanza di Jane si fa sentire, impedendogli di continuare il suo lavoro, arriva anche ad ubriacarsi. Stanco di tutto, una sera decide di recarsi con i colleghi Trè e Jason White in un night club ma al locale non ci arriverà mai: in preda ad una crisi, scende improvvisamente dalla macchina e si allontana dagli altri due. Riceve una chiamata ed è proprio Jane, che gli comunica di essere a pochi passi da lui. I due finalmente si rivedono e si dichiarano il loro amore l`uno per l`altra. A quel punto la donna gli chiede di portarla nel palazzetto dove si è svolto il festival quella sera stessa, Billie acconsente senza capirne il motivo. Una volta arrivati Jane gli rivela di voler fare l`amore lì quindi si spoglia. Lui, sconvolto, acconsente scoprendo così che la ragazza è vergine. Una volta tornati in albergo i due vengono scoperti da Mike che, furioso, si scaglia contro Billie facendo fuggire la donna. 
Billie le corre dietro e tra i due scoppia una lite fisica, alla scena assistono sconvolti anche Trè e Jason White. Billie accompagna Jane alla stazione per prendere il treno e la supplica di non partire ma lei non gli da ascolto e sale. A quel punto Billie ha una perdita di sensi ed un`improvvisa febbre alta che costringe il gruppo a fermare il tour. Avvilito, il cantante si strugge per la sua condizione fisica e mentale. Dopo aver trovato una lettera nella tasca della giacca, chiama Jane al telefono e quest`ultima gli dice di dimenticarla. A quel punto l`uomo chiede ai compagni di tornare in America. Il team quindi organizza il rientro ma Billie ha delle strane allucinazioni e ciò fa preoccupare Trè ed il resto del gruppo, che ormai lo considera sulla via della pazzia. A pochi minuti dalla partenza Billie riceve una telefonata da John Rosenberg che gli comunica la sparizione della figlia. Dopo aver convinto Mike (che pare non sopportare proprio la presenza di Jane nella vita di Billie) a lasciarlo partire per Birmingham, il cantante si fa promettere cinque giorni di tempo per poter ritrovare la giovane. Tornato in Inghilterra e dopo aver parlato con John, Billie improvvisamente capisce di sapere dove si trova la ragazza, riuscendo a portarla in salvo. Jane, moribonda, viene quindi visitata da un medico che fa una sconvolgente scoperta: la giovane è incinta ed il padre del bambino è il cantante. Billie, felice, le chiede di sposarlo ma lei non risponde. Cinque giorni passano velocemente ed il rocker si trova costretto a tornare negli Stati Uniti. Jane soffre ma gli promette che una volta atterrato alla mezzanotte riceverà una telefonata da lei. Lui, tormentato dai dubbi, parte e torna dai compagni: qui viene anche lasciato definitivamente da Mike, che si dichiara stufo della loro storia e dei continui tradimenti. Il flashback termina e la narrazione riparte dal momento in cui Billie, seduto sopra una panchina, attende la tanto desiderata telefonata. Dopo aver parlato con l'amata, Billie fa ritorno a casa e, sfinito, si addormenta sulle scale. 

CAP. 45
American Idiot

Una luce molto forte mi illuminò il viso.
Le palpebre si aprirono.
Dall`oscuritá della notte piombai improvvisamente al chiarore del mattino.
La mia vicina, una donna sui trent`anni, mi osservava dall`uscio di casa.
-Signor Armstrong- disse, con tono quasi di rimprovero.
Non risposi. Mi alzai di scatto, tentando di ricordare dove cazzo ero e soprattutto cosa ci facevo steso sulle scale di casa.
Poi ricordai di aver preso sonno. La schiena era a pezzi e sulle due dita ingiallite della mano destra reggevo un mozzicone di sigaretta.
Non riuscivo a stare in piedi; avevo dormiro malissimo e sicuramente non potevo considerarmi l`uomo più riposato del mondo. Buttai via il mozzicone.
-Ha dormito qui?- chiese ancora la mia vicina. Curioso come i vicini siano le persone più vicine a te nella vita e allo stesso tempo le più distanti. O per lo meno, parlo dei vicini che ho sempre avuto io. Tutte le persone che conoscevo, anche di vista oppure incontrate qualche volta per strada, mi chiamavano per nome. Tutti i vicini, invece, mi avevano sempre chiamato "Signor Armstrong" e non ne so il motivo. 
-Sono stanco, giro il mondo dieci mesi su dodici. Chiamerà la polizia per farmi arrestare?- ribattei. La mia vicina non parve cogliere il mio senso dell`umorismo.
-Non ho detto questo. Solo che devo portare i bambini a scuola e mi sono spaventata- disse, tentando di giustificarsi come poteva. Sì, certo. Fosse stato per loro, i miei vicini, mi avrebbero volentieri sbattuto fuori da quel condominio. Colpa dell`invidia. In quel momento, Adrienne aprì la porta di casa, in camicia da notte.
-Billie!- esclamó, stupefatta.
Io non risposi, rimasi fermo immobile con la mano sulla ringhiera delle scale.
-Cos`è successo? Che ci fai qui? Non ti ho sentito rientrare-.
Sospirai.
-Si è addormentato sulle scale- precisò la vicina. Quanto avrei voluto spaccarle la testa, in quell`istante. Era necessario dire tutto quanto ad Adrienne? Forse voleva farci solo litigare.
Mia moglie si voltò guardandomi, ancora più sorpresa.
-Che cosa?- chiese, stupita.
-Ascolta, non ho voglia di parlare. Ho fatto tardi ieri notte, il volo ha ritardato e se permetti, sono stanco!- replicai, sulla difensiva.
Adrienne non rispose, si spostò dalla porta per farmi entrare.
Mi girai, guardando la vicina.
-E lei... Si faccia un pò i cazzi suoi-ribattei, poi entrai furiosamente in casa chiudendo la porta e dimenticandomi completamente di aver chiuso fuori Adrienne. Quindi, riaprii il portone e senza aspettare, andai in camera da letto. I miei figli erano svegli e si stavano preparando per andare alle lezioni mattutine.
-Ciao papà- mi salutarono in coro, reggendo i loro bicchieri con il succo d`arancia.
-Ciao- risposi.
Adrienne mi seguì.
-Si può sapere cosa ti è preso?- sbottò, innervosita, chiudendosi con le mani la vestaglia che ad ogni passo si apriva vistosamente.
-Sono stanco, Adrienne. Lasciami dormire- ribattei, togliendomi l`orologio.
-Cos`è successo ieri notte? Non mi hai chiamata per...-.
-Adrienne, sono stanco- ripetei.
Lei non rispose, rimase immobile dietro di me con le braccia conserte. Afferrai rabbiosamente le mie sigarette e me ne accesi una, poi la misi sul posacenere accanto a me. Adrienne andò alla porta per controllare dove fossero i nostri figli, poi la chiuse. Lo faceva ogni volta che voleva litigare senza farsi sentire da Joey e Jakob. La conoscevo troppo bene per non saperlo.
-Non ho voglia di parlare, Adrienne. Sono stanco- ripetei per l`ennesima volta, stendendomi a letto e dandole le spalle.
-Dobbiamo parlare, Billie. Si può sapere cosa ti è preso?- chiese, con tono cauto.
-Ero stanco. Ti ripeto, il volo ha tardato- risposi, senza nemmeno guardarla. Questa volta fu lei a sbuffare.
-Ho aspettato fino alle due della notte che tu mi chiamassi. Una telefonata avresti potuto farla-.
-Non ci ho pensato- giustificai.
-Ah, non ci hai pensato? Pensi solo quando ti fa comodo? Capisco che il volo abbia tardato ma...-.
In quel momento, il mio telefono cominciò a squillare. Mi alzai di scatto e lo afferrai, senza prestare la minima attenzione a mia moglie. Fui preso dalla paura.
Paura che potesse essere Jane a chiamare... Proprio in quel momento? Cosa avrei detto ad Adrienne?
Non era Jane.
Era Trè. Tirai un sospiro di sollievo e risposi.
-Sì?-.
-Big, dove sei?-.
-Dove cazzo vuoi che sia? A casa- risposi.
-Big, devi venire questa mattina, dobbiamo parlare con Pat-.
Si riferiva a Pat Magnarella, nostro manager e amico.
Mi alzai di scatto, la schiena emise uno strano rumore.
Non capivo di che cosa stesse parlando, non riuscivo a connettere.
-Cos`è successo?- chiesi.
-Mi ha chiamato poco fa e mi ha detto di passare sulle nove- affermò Trè.
La notizia non mi sorprendeva più di tanto.
-E allora?-.
-E allora mi sembrava preoccupato, Big- continuò Trè, esasperato.
Oh, Cristo santo. Ci mancava anche Trè, ci mancava proprio un`altra persona che arrivasse a dirmi quello che devo fare e come farlo. Ci mancava qualcun altro che mi esasperasse, anche in una triste giornata come quella, nella quale l`unica cosa che avrei voluto fare era mettermi a letto e non pensare a nulla. Tantomeno che a quei fottuti discorsi. Buttai la testa sul cuscino.
-È proprio necessario che io venga?- chiesi.
-Alle nove. Puntuale- precisò Trè, facendo finta di non aver nemmeno sentito la mia domanda.
-Sono stanco, Trè. Dannazione, vorrei andare a letto-.
-Ti ripeto: alle nove-.
Detto questo, riattaccò.
Dannazione.
-Chi era al telefono? Che succede?- chiese Adrienne. Io non le prestai attenzione, mi girai per guardare l`orologio.
Le 8.00.
Avrei fatto in tempo a farmi una doccia e poi partire. Mi alzai velocemente dal letto.
-Billie?- continuò lei.
-Non posso parlare, devo scappare- risposi.
-Che tipo di problemi ci sono?-.
-Di nessun tipo-.
Aprii le ante del mio armadio ed afferrai una maglietta pulita ed un paio di pantaloni neri. Poi presi i calzini. Andai da Adrienne e le diedi un veloce e freddo bacio sulla guancia.
-Ci vediamo dopo- dissi, distrattamente, uscendo dalla camera per andare in bagno.
-Io porto i ragazzi a scuola per le lezioni. Ti lascio la macchina, prendiamo il treno- affermò Adrienne. Io non l`ascoltai neppure.
Chiusi la porta del bagno e mi ritrovai nuovamente solo con i miei pensieri. Riuscivo a sentire da fuori i miei figli parlare ed il rumore delle ante dell`armadio: Adrienne si stava cambiando. Mi spogliai ed entrai in doccia, sotto il getto dell`acqua calda. Mi sentivo in pace, mi sentivo bene. Non pensavo ad altro se non all`acqua calda che in quel momento stava attraversando il mio corpo e si riversava a terra. Pensai a Jane... Cosa stava facendo in quel momento? Non sapevo che ora fosse in Inghilterra, probabilmente era già sera e forse lei si stava preparando per andare a dormire. Ma riusciva a dormire? Io non ci riuscivo. Chissá a cosa pensava quando stringeva quei cuscini, cosa provava dentro di se nel non vedermi accanto a lei, nel girarsi nel letto e non trovarvi nessun altro. E chissá quando avrebbe fatto la visita, chissá cosa le avrebbe detto il medico, chissà se la gravidanza era a rischio, chissà se mio figlio stava bene. Quelle erano le domande che mi ponevo. Troppe. E chissà, soprattutto, chi avrebbe potuto darmi una fottuta risposta a quelle domande. Nessuno. Come sarebbero andate le cose? In quel momento, l`unica cosa importante per me, era avere sue notizie. In primis, notizie sulla sua salute. La cosa più importante era che stesse bene, quella sola cosa contava in quel momento, in mezzo alle tante altre cose. Dovevo mettere in secondo piano la mia enorme tristezza, il peso che mi portavo dentro: dovevo accantonare il pensiero di volerla al mio fianco, solo per un istante, e mettere in primo piano la salute sua e di nostro figlio. Se lei stava bene davvero, non correva pericoli e tutto procedeva per il meglio, sarei stato sollevato ed avrei avuto la forza di andare avanti. In caso contrario, non potevo prevedere la mia reazione. Forse sarei stato preso dalla disperazione, dalla paura di perderla; forse, avrei rischiato un attacco di nervi. Non so cosa sarebbe successo ed onestamente preferivo non pensarci e rasserenarmi. Ma no, sarebbe andato tutto per il meglio. Lei sarebbe stata bene, avrebbe vissuto serenamente la sua gravidanza, avrebbe partorito felice ed in luogo sicuro. Tutto sarebbe andato per il meglio. In quel momento, mi resi conto di avere un altro grande problema: dove avrebbe partorito Jane? Sarei stato con lei nel momento piú importante della nostra vita, oppure sarei stato lontano per lavoro, intento nel proseguire uno dei nostri viaggi? Oh, non lo sapevo. Fui preso dall`ansia.
Ansia di ritrovarmi solo, di svegliarmi una mattina come tante e scoprire di essere nuovamente solo senza di lei. Quell`idea mi uccideva. Avrebbe retto alla lontananza, io avrei retto? Avrebbe retto quel nostro amore? Sì, quello sì, quel nostro amore così grande avrebbe retto e spaccato il mondo, se necessario. L`amore più grande di me, della mia vita, quello avrebbe retto. Noi eravamo stanchi, deboli, disillusi, ma quell`amore no. Era così forte, dannazione, com`è possibile che nel cuore di due persone così insicure possa radicarsi un sentimento così sicuro?
A tutte quelle persone che si chiedono: com`è l`amore, cosa vuol dire amore? Io dico che è meglio non saperlo, è meglio che se ne tengano alla larga, è meglio che si voltino dall`altra parte e facciano finta di niente, continuino a vivere le loro vite sicure. Perchè l`amore non ti risparmia, chiunque tu sia; che tu sia forte o debole ti spazzerá via, spazzerà via qualunque tua certezza come fosse cenere nella polvere. E tu cambierai, non sarai più lo stesso, ti guarderai allo specchio e stenterai a riconoscerti.
Uscii in fretta dalla doccia, afferrando l`asciugamano bianco alla mia sinistra. Percorsi i pochi centimetri che mi dividevano dallo specchio strofinandolo velocemente tra i capelli. Mi guardai allo specchio, nudo.
Dovevo stare calmo. Dovevo tranquillizzarmi.
Cominciai a canticchiare sottovoce. Una volta pronto, andai alla cabina armadio per prepararmi. Sì, Billie. Sì. Non devi fare altro che stare calmo, prepararti, mettere i tuoi bei vestiti, fumare una sigaretta e prendere tra le mani questa nuova e bella giornata invernale. 
Aprii la mano. Nulla. 
La felicità arriverà, vedrai. Questo ripeteva la mia mente, minuto dopo minuto, passo dopo passo. 
Vedrai che troverai qualche sprazzo di felicità anche in questa fottuta vita, anche in questa fottuta città. Anche adesso. Che ne sai, magari stasera vai a dormire e sei felice. Magari non penserai più a Jane, al figlio che aspetti, alla vita che sogni di vivere ma non puoi per cento e più motivi. Non pensi più a ciò che hai fatto di sbagliato nella tua vita, quante volte hai sbagliato, sofferto, mandato a fanculo qualcuno, sei stato mandato a fanculo a tua volta. Non ricordi più chi sei, sei Billie Joe Armstrong, per la miseria! Ti basterebbe sfogliare Rolling Stones per ricordarti chi cazzo sei. Non c'è giornale che non abbia mai messo la tua faccia in prima pagina. Non c'è giornalista che non voglia intervistarti. Non c'è fotografo che non brami di sbatterti in copertina. Ed ora spiegami, Cristo santo, quale fottuto motivo hai per guardarti allo specchio e piangere di te stesso. 
Basta pensare, basta. Ferma la mente. Fermati. 
Devi restare lucido, ricordi? Non puoi vacillare, continua a ripeterlo. Devi guardarti allo specchio, adesso come ogni fottuto giorno di questa vita, guardarti ed essere orgoglioso di ciò che sei. Orgoglioso, dannazione. Non hai neppure una vaga idea di quante persone provino invidia verso di te, verso la tua forza, la tua tenacia, il tuo carattere. Che ne sai di quanti si svegliano alla mattina, faticano e si sbattono per arrivare in ritardo al lavoro, si siedono su quella dannata sedia con in mano le proprie carte e sussurrano "Diamine. Quanto vorrei essere Billie Joe Armstrong". Ma che ne sai Billie, che ne sai di quanti ragazzi hanno sognato anche solo per un'istante di provare ciò che provi tu, una volta finito un concerto, che ne sai della forza che serve per stringere i pugni? 
Tu conosci solo te stesso e forse nemmeno quello. 
Tu conosci solo te, ma non sai buttarti fuori, non sai accettare questa vita e con essa tutti i doni che ti ha dato e che continua a darti. Dovresti essere grato di ciò che hai, di ciò che sei. Ed invece... Non sai cosa sei e di ciò che hai non sai cosa fartene. 
Stai commettendo un grave errore, il più grave di tutti: non sei felice. 
Accesi una sigaretta. 
Ecco. Già meglio. Un pizzico di serenità in più; la salute non ringraziava, ma il vuoto di me stesso decisamente. Si era fatto tardi. Forse era arrivato il momento di partire. 
Era arrivato il momento di affrontare la giornata della resa dei conti, la giornata delle spiegazioni. Perché tutto ciò che era successo era stato tenuto segreto ma si cominciavano a chiedere spiegazioni. Ed io non sapevo cosa dire.
Non sapevo come affrontare, in realtà, quella situazione. Non sapevo come spiegarmi, cosa spiegare esattamente o quali parole usare per districare quella matassa di fatti successi in Europa in quei mesi; non sapevo come iniziare, da cosa iniziare, per dire chiaramente ed in maniera inconfutabile, che mi ero rotto i coglioni. Sì. Io mi ero rotto i coglioni.
Io ne avevo le palle piene di me stesso, del mondo della musica, del mondo dello spettacolo. Ne avevo le palle piene di riempire di parolacce i giornalisti, i conduttori, chiunque mi capitasse sotto tiro. Ero stufo, molto stufo, di fingere di essere chi non ero. Volevo solo, per un attimo, un solo fottuto attimo... Struccarmi.
Volevo solo guardare gli altri negli occhi ed avere, anche solo per un fottuto secondo, bisogno di tutta la gentilezza e comprensione possibili. Volevo, avevo bisogno di essere compreso, di amare, di essere amato, darmi. Chiedevo solo questo, nella vita: solo darmi, dare me stesso, ricevere ed essere grato, essere felice. 
Ma quante poche cose volevo, maledizione... 
Ma quanto semplici erano e quanto era difficile averle, più bramavo per averle e meno le ricevevo. Più volevo essere amato e meno mi amavano. 
Si, indubbiamente ero amato da molte persone, ma non per ciò che sono, non per ciò che ho dentro, non per l'abisso di me stesso... Quello che nessuno può e vuole vedere. 
Quello così difficile da percepire che qualche volta credo non possa avere un fondo.  Mi mancava la mia ragazza. 
Avevo bisogno di lei, amore mio. 
Speravo di guardare al futuro con serenità... Chissà cosa sarebbe successo... 
L'amore avrebbe retto. Ma io no. Non potevo reggere ancora per molto in quella fottuta città. Non potevo reggere ancora per molto senza me stesso.
Non in quel momento, non così, non solo senza nessuno.
Proprio in quel momento, in cui mi ero ritrovato guardando lei... Mi ero perso di nuovo.
E tutto ciò era terribile per me. 
Uscii di casa con la giacca tra le mani.
Scendendo le scale accesi una sigaretta con una mano, con l'altra tenni la giacca ed anche il mazzo di chiavi, tra le quali quelle della macchina. Aprii la portiera ed entrai, riversando le mie cose sul sedile del passeggero al mio fianco. 
Che casino. Era ora di dare una pulita a quella fottuta automobile. Possibile che fosse ridotta in stati così pietosi? Accesi il motore e partii, diretto a San Francisco dai miei compagni.
Durante il viaggio, una quindicina di minuti, accesi distrattamente la radio.
"...E adesso passiamo alle notizie del mondo della musica, scontento tra i fans dei Green Day..."
Prontamente alzai il volume, la cenere della sigaretta cadde sulla mia mano.
-Maledizione!- 
"Scontento nel mondo della musica, come detto poco fa, il trio californiano ha interrotto il tour europeo cominciato lo scorso autunno. Le cause dell'annullamento sono ancora poco chiare, si presuppone possa trattarsi di alcune liti nate all'interno del gruppo" così diceva il giornalista alla radio. 
Rimasi alquanto sconcertato da quell'ultima notizia. Non capivo come potevano essere prese per vere certe cazzate, notizie campate per aria solo per fare scena.
Ne avrei parlato con i ragazzi quanto prima... Bisognava parlare, bisognava sedersi a tavolino e risolvere i nostri problemi. Dal primo all'ultimo. 
Non era importante se il problema fossi io o meno: l'importante era risolvere quei dannati malintesi, sanare lo squarcio profondo che stava dividendo me dagli altri... Uno squarcio che, in quel momento, pensavo potesse portarci al peggio. Perfino allo scioglimento. 
Ero preoccupato, molto preoccupato. Mi sentivo in ansia.
Per i ragazzi, per il gruppo, per Jane... Non mi sentivo tranquillo e più tentavo di riprendere in mano me stesso e più non ci riuscivo, non riuscivo a capacitarmi di come le cose potessero essere andate a rotoli da un momento all'altro. Fino a pochi mesi prima ero convinto di me, della mia vita, di amare quella mia dannata vita ed i suoi ritmi, di amare perfino Mike ed Adrienne... Era bastato l'incontro con Jane per farmi perdere tutto. 
Mike, Adrienne, il mio gruppo, perfino la stima di me stesso.
Ma quella mai l'avevo avuta. 
Aspirai l'ultima boccata di fumo dopodiché gettai la sigaretta fuori dal finestrino. 
Ero quasi arrivato alla nuova sede della PPM, l'agenzia con a capo il nostro manager.
La sede centrale si trova a Los Angeles, West Sunset Boulevard, ma non è l'unica negli USA. 
Anche a San Francisco il mio manager aveva aperto una nuova sede. Altro non è se non enorme edificio dove il mio manager, Pat Magnarella, riceve anche per appuntamenti. Accostai la macchina al solito posto, il mio posto, lo stesso dove la parcheggiavo da anni; accanto al viale pedonale, poco avanti alla porta d'ingresso. Spensi il motore dell'auto. Aprii la portiera e rimasi seduto; chiavi in mano, gamba a penzoloni fuori, sigaretta tra le dita ed accendino. Lungo il vialetto, così come nel parcheggio, non vi era nessuno, del resto ero arrivato con dieci minuti di anticipo. 
Osservai gli alberi della stradina fare da contorno all'intero panorama. I rami spogli, con qualche foglia qua e la non ancora caduta, assomigliavano tanto al mio stato d'animo. Mi sentivo anche io un po' come quegli alberi. Lungo il viale, solo, spoglio.
Non potevo fare a meno di pensare a Jane, a mio figlio. 
Che cazzo stava facendo? 
Il telefono era posato accanto a me, sopra al sedile al mio fianco. 
Era muto. Allungai la mano e lo afferrai. 
Dovevo chiamarla.  Dovevo sentirla. Dovevo sapere.
Non potevo stare li seduto in macchina come un coglione, aspettando gli altri con le mani in mano ed avere la testa da un'altra parte, il pensiero fisso su ciò che lei stava pensando in quel momento. Dovevo chiamarla, dovevo parlare, dovevo fare finta che fosse solo questione di pochi giorni o poche ore; dovevo fingere che le cose andassero bene e fosse tutta una situazione temporanea. 
Temporanea, si. 
Stavo ancora fissando il telefono nella mia mano con lo sguardo perso nel vuoto, quando mi sentii battere forte due dita sulla spalla sinistra. Sobbalzai.
-Chi cazzo é?-
-Chi cazzo vuoi che sia, sono arrivato- affermò il mio batterista con il casco sotto il braccio.
Annuii, posando il telefono.
Trè sorrise, passandosi una mano sugli occhi, visibilmente stanco. 
-Sono morto, Big-affermò.
-Lo dici a me?-.
Questa volta fu lui ad annuire.
Ci fu tra noi un minuto di silenzio o poco più, in quel lasso di tempo la domanda principale nella testa di Tré poteva essere solo una: "Vuoi dirmi adesso, che cazzo è successo in questi due mesi e mezzo?". Mai in altra occasione fui più convinto di leggere nel pensiero del mio batterista. I nostri occhi si incrociarono più volte, lui distolse sempre lo sguardo. Io mai.
Il silenzio cominciò a farsi imbarazzante.
-Ascolta, Big...-. 
Il telefono del batterista cominciò a squillare in quel momento esatto.
Per me fu un enorme sollievo.
-Chi cazzo è?- rispose lui, per nulla alterato. Solito modo di rispondere, era normale.
Silenzio.
-Ah, tesoro, dimmi- disse poi improvvisamente, con un sorriso.
Sua figlia.
Solo Ramona aveva il potere di rendere Trè così innocuo. Quasi tenero. Non che con lei non si incazzasse, anzi. Il più delle volte il rapporto tra i due era altalenante, ma lui l'adorava.
Trè mi fissò per un secondo, come a volermi dire di attendere la conclusione della chiamata di sua figlia. Io non dissi nulla, lui si allontanò poco distante, continuando la         conversazione. Rimasi seduto in macchina una manciata di minuti, due o tre forse, quando dallo specchietto retrovisore vidi Mike arrivare a piedi. Mi voltai improvvisamente, osservandolo. Lui mi fissò un attimo, dopo distolse lo sguardo per continuare la camminata, diretto alla porta.
-Mike, aspetta...- dissi, rimanendo seduto.
Lui si fermò, girandosi verso di me. 
Io guardai Trè, gesticolava al telefono, in lontananza, quindi presi la giacca ed uscii di corsa dalla macchina per raggiungere Il bassista. 
-Mike- continuai, una volta accanto a lui. 
-Dimmi-.
-Ho pensato a quello che hai detto. Mike...-.
-Ragazzi-.
Ci voltammo.
Il nostro assistente Robert Smith, il più anziano tra i nostri collaboratori, ci chiamava dalla porta. Io guardai gli altri, Trè salutò frettolosamente Ramona e riattaccò. 
-Che cazzo ci fai già al lavoro? Non ti eri preso due giorni?- domandò quest'ultimo scherzosamente, con il cellulare ancora in mano.
Robert rise ed uscì dall'edificio per poi accendersi una sigaretta. Io lo imitai.
-Pat è in ufficio?- chiese Mike. Lui annuì.
-Strano che sia arrivato, soprattutto così presto. Di solito il venerdì mattina non c'è mai-.
-Abbiamo una riunione- precisò Mike.
Robert alzó le braccia. Io fumai la mia sigaretta senza proferir parola.
-Va bene. Ho sentito Jason, quando devi portargli la sua roba?- chiese Tré, scrutando le automobile fuori dalla recinzione. Durante un tour capita spesso che la strumentazione o qualche oggetto vada smarrito, stipato in qualche scatolone oppure dimenticato in corriera (non solo attrezzature varie ma anche propriamente gli oggetti personali) un compito secondario degli assistenti è anche quello di riportare le cose al proprietario. Jason aveva perso l'Ipad e alcuni suoi documenti personali.
Robert scosse la testa.
-Non l'ho sentito. Lo chiamerò oggi- rispose.
-Va bene, andiamo- così dicendo, i miei compagni entrarono. Io feci altrettanto, seguendoli. Attraversammo il lungo corridoio dell'ingresso, diretti alle scale a chiocciola. L'ufficio del nostro manager era al piano di sopra. Nessuno di noi tre pronunciò parola e quella era l'esatta immagine di come si stavano mettendo le cose tra di noi; un tempo, eravamo soliti salire quelle scale con bottiglie alla mano oppure uno sopra l'altro facendo i coglioni. Avevamo varcato quelle porte centinaia di volte e tutte le volte comportandoci da idioti (o fingendo di essere sobri). Conoscevamo bene quegli uffici, ci eravamo rincorsi in quei corridoi, ci eravamo divertiti.
Non era mai capitato, a noi tre, di entrare in quel modo. 
In fila indiana, sguardo basso, ognuno con i suoi pensieri.
Per quanto Trè durante il tragitto cercasse di sdrammatizzare il tutto, nessuno di noi riusciva a sentirsi come le altre volte, nessuno riusciva a sentire nell'aria il nostro ritorno. 
Nemmeno noi stessi. Mai era capitato di entrare così, non era quello il nostro modo di entrare, non era così che noi entravamo nella vita degli altri. Non siamo mai entrati a braccia conserte e sguardi funebri. Ma forse quella era solo la previsione, l'immagine che dava il quadro esatto di ciò che stava succedendo. Noi tre divisi, silenziosi, qualcuno provava a riparare come poteva, ma non ci riusciva, qualcun altro fingeva che nulla fosse accaduto. Quello era il quadro esatto di cosa sarebbe successo di li a poco... Non c'era cosa peggiore, non c'erano parole più letali per me se non "Basta. Chiudiamo qui". Non c'era una condanna peggiore se non quella di perdere il mio gruppo, perdere i ragazzi, perdere la band, me stesso. Temevo che ciò sarebbe successo, se non in quei mesi, molto presto. Il gruppo c'è quando i componenti sono in sintonia, in simbiosi: devono vivere insieme, suonare insieme, mangiare insieme, dormire perfino insieme. Il gruppo é il gruppo, si deve pensare alla stessa maniera, i pensieri miei devono essere gli stessi di ognuno degli altri. Potevamo essere un gruppo e non riuscire più nemmeno a parlarci, addirittura a guardarci? Arrivammo al piano di sopra, silenziosi come non mai. Lungo le pareti, sfilavano le numerose foto che Pat aveva scattato con le più grandi celebrità del mondo.
Era molto conosciuto, nonostante questo aveva mantenuto un atteggiamento abbastanza umile, almeno fino a qualche mese prima della nostra partenza. Negli ultimi mesi, c'era stato un cambiamento in lui, dovuto a cosa non lo so, come se stesse organizzando grandi progetti per il futuro oppure come se fosse accaduto qualcosa, (di cui noi, ovviamente, eravamo all'oscuro, come tutte o quasi le questione private di lavoro che il nostro manager aveva con altre persone). Avevamo sempre avuto un buon rapporto con lui, (detto da me, che non sono mai andato d'accordo con un cazzo di nessuno su questa terra), eravamo amici, eravamo in confidenza. Negli ultimi tempi, tuttavia, Pat si era allontanato. 
Avevo notato anche che quell'atteggiamento aveva cominciato a prendere piede dopo l'uscita di American Idiot. 
Ero ben consapevole della pericolosità di American Idiot, del suo contenuto.
Sapevo, sapevamo noi tutti, cosa avrebbe significato produrre quell'album in un momento delicato come quello. American Idiot aveva creato non pochi problemi; tuttavia, personalmente ero abituato ad averne, che qualche svitato fuori di testa venisse a scrivermi a grandi lettere sulla porta di casa "Devi morire", non mi cambiava la vita. Quasi mi divertiva quell'odio nei miei confronti. Ero odiato... Voleva dire che il mio lavoro lo facevo alla grande. 
Non avevo dato molto retta a questi ultimi cambiamenti nelle nostre vite, ero stato sempre molto leggero nel prendere in considerazione certe cose o certi atteggiamenti. Pensavo, cazzo, se qualcuno mi evita avrà i suoi fottuti motivi. 
Avrà una giornata storta. Avrà le palle girate. Ma poteva essere questione di mesi?
Avevo preso troppo alla leggera il distacco del nostro manager. In quel momento si era rivelato l'ago della bilancia. 
E tutto ciò rendeva la situazione ancora più pesante.  Sospirai, visibilmente innervosito. 
I miei compagni non dissero nulla. Riuscivo a scorgere nei loro sguardi la mia stessa preoccupazione, ma anche una nota di rabbia, negli occhi di Mike particolarmente accentuata. Per loro era difficile stare li, sedersi sul divano e dover ammettere di aver fallito miseramente. Si, indubbiamente non si trattava certo di un fallimento irrimediabile: di tour mondiali ne erano state annullati moltissimi da altri artisti prima ancora di noi, non eravamo certo i primi a dover dare quelle spiacevoli notizie. Ma non si trattava di date qualsiasi, non si trattava di eventi qualsiasi; era il tour mondiale più atteso degli ultimi anni. Era il tour che seguiva American Idiot. Era il mio tour. Erano 150 date. Dio solo sa quanti soldi erano andati spesi per metterlo in piedi, quanta energia, quante ore di lavoro, di prove, quanta gente aveva lavorato con noi e per noi... Quante notti insonni avevo passato per creare dei lavori decenti. Era il mio tour, erano i miei pezzi, c'ero io dentro tutto quello. 
Era bastato così poco, troppo poco... Era bastata quella mia dannata malattia per mandare tutto in merda. Era bastata Jane... Per farmi perdere tutto. 
Anche il mio lavoro, anche i miei pezzi, tutto. Non avevo più nulla. Solo i soldi.
Ed in quel momento mi trovavo li, con gli altri due, soli. Stavo andando a dare una delle notizie che mai avrei voluto dare: l'American Idiot tour non si farà. 
Sapevo che Pat sarebbe stato contento di quella notizia; i primi concerti di presentazione dell'album li aveva vissuti con il terrore che qualcuno potesse impugnare la pistola o un revolver e sparare sul palco. 
Io ridevo di quelle sue paure, ma non erano del tutto infondate.
Il mega tour non si farà più. 
Non continuerà.
Basta.
Basta American Idiot, basta Jimmy, basta queste fottute canzoni, basta riempirmi la testa di stronzate per creare due pezzi e poi dover strappare tutte le carte. 
Avrei voluto urlargliele in faccia quelle fottute parole, ma non solo al mio manager, non solo a lui. A Mike, a Tré, persino a Tim, che non c'entrava un cazzo. 
A tutti quelli che mi seguivano.
Mike bussò alla porta dell'ufficio. 
La porta si spalancò improvvisamente e vidi Pat con in mano una copia del Rolling Stones; la teneva alta avanti a noi. 
In prima pagina, le nostre facce.
-Che cazzo è successo?- chiese Mike allibito.
-Ragazzi-.
Noi ci guardammo, poi guardammo il giornale.
-Merda-. 


-Cosa vuol dire?- chiese Mike.
Il nostro manager attraversò lo studio e gettò la rivista sul tavolino basso di vetro. 
Sotto a quella, ce n'erano molte altre, e mi parve di scorgere in ognuna la nostra faccia in copertina. Bene, pensai. Di bene in meglio. 
Guardai Pat, trovandolo visibilmente dimagrito (non che prima fosse grasso, anzi). 
-Ehi- esortò ancora Mike.
L'uomo si sedette sul divano nero ed accese una sigaretta.
Ci fece cenno di seguirlo, quindi entrammo nello studio, chiudendo la porta dietro di noi.
Senza chiedere il permesso, come ero solito fare, accesi una sigaretta anche io.
Mike e Trè si sedettero sulle poltrone, io sul divano accanto a lui. 
-Mesi di lavoro, soldi. Tutto in merda. American Idiot non sta vendendo più, ragazzi, io ve lo dico chiaramente- esclamò Pat, aspirando una boccata di fumo. 
-Sono giorni che non mi lasciano in pace, dannazione. Mi seguono, mi chiedono che cazzo è successo, perché in Europa è andato tutto a puttane. C'é qualcuno che ha scritto che siete stati ammazzati come John Lennon. Questi bastardi mi seguono dappertutto, perfino a casa! Hanno sparato talmente tante stronzate che non so più da che parte iniziare. Questi figli di puttana vogliono rovinarmi-.
Pat sembrava davvero esasperato da quella situazione. 
Uno pensa ai Green Day e pensa a noi tre, ma nessuno può avere la minima idea di quanta gente ci sia dietro di noi, di quante persone lavorino al nostro fianco. Tante.
Dietro ciò che si vede, le copertine, gli album, i concerti, c'è in realtà un enorme lavoro di squadra, un lavoro che sembra sempre troppo lungo ma che alla fine porta i suoi frutti. L'unico inconveniente é che basta una mossa sbagliata di qualcuno per far mandare in aria il lavoro di tutti. Nei lavori di squadra é così. 
Erano stati giorni duri per il nostro manager ma anche per tutti noi.
-Sei troppo preoccupato. Devi stare più tranquillo- disse Tré.
-In questi giorni ho passato l'inferno, Frank- ribatté lui.
-Ehi, aspetta un attimo! Quella in copertina è la mia fottuta faccia, il primo a perderci il culo sono io!- sbottò Trè di rimando.
-State calmi- intervenne Mike, rivolto a Trè. - Pat, ti prego... Capisco che tu sia esasperato, ma non è questo il momento di uscire di testa. Vorrei sapere cosa ti hanno detto-. 
-American Idiot sta andando a picco. Le vendite sono nulle. In vent'anni che faccio questo lavoro non ho mai visto un album andare peggio- rispose il manager, alzandosi in piedi.
Mike scosse la testa.
-Tutto annullato, anche lì. Nessuno vi chiama più. L'album non vende e di andare nelle trasmissioni non se ne parla. I conduttori si cagano sotto-.
-Che cazzo stai dicendo?- 
-La verità sto dicendo. Si, é vero, i primi mesi sono andati bene ma adesso i registri sono questi. I media non hanno preso bene l'abbandono in Europa, nessuno compra più. Vogliamo parlare delle lettere che mi arrivano in redazione?- sbottò.
-Quali lettere?- chiedemmo in coro.
L'uomo sospirò.
-Ma che cazzo ne so, repubblicani, seguaci di Bush...-.
-So bene cosa sono quelle lettere, Pat. Hai idea di quante ne ho ricevute in vent'anni? Gente che mi odia, gente che mi vuole morto. Dio solo sa- ribattè Tré stizzito. -La stai prendendo troppo sul drammatico. Quando abbiamo mandato l'album in produzione sapevamo bene i rischi che si correvano e lo sapevi anche tu. Non puoi andare a genio a tutti, soprattutto quando stai andando controcorrente. Ci hai chiamati qui per dirci che quattro svitati seguaci del coglione ti hanno mandato due letterine?-. 
Silenzio.
-Allora?- insistette Tré, leggermente esasperato. 
Pat sospirò.
-Voglio che chiediate il ritiro di American Idiot- disse, alzando le mani. 
Noi tre ci guardammo, stupiti.
Non ero convinto di aver udito bene le sue parole. 
Non ero convinto di aver compreso l'intero discorso. 
Perché? 
-Ritirare American Idiot? Ma che cazzo stai dicendo?- sbottò Mike mentre Trè dietro di lui scuoteva la testa. 
-Hai capito-. 
-Perchè?-
-Quell'album ha portato solo danni, ragazzi. Qualsiasi tipo di danno che poteva fare l'ha fatto. Riflettete, ragazzi... Avete fallito, capita. Abbiamo fallito insieme, ci abbiamo provato. Bisogna fallire nella vita, si fallisce e ci si reinventa. Ritirate American Idiot e reinventatevi. E lasciate stare la politica- disse, alzandosi in piedi ed andando alla scrivania.
Mike e Trè rimasero letteralmente ammutoliti, come se quanto detto dall'uomo fosse stata una forte pugnalata allo stomaco. Anche per me era così, ma io me lo aspettavo... Già avevo fiutato, nell'aria, la possibilità che ciò accadesse. Giá avevo compreso che il nostro manager stava campando per aria mille scuse; sì, indubbiamente le perdite erano state notevoli, American Idiot nessuno lo comprava più, la gente aveva quasi paura ad acquistarlo. Indubbiamente Pat era preoccupato del lato economico della questione, ma la storia non quadrava. Quello non era il vero motivo per cui voleva ritirare American Idiot.
Chissà che cazzo era successo in quelle settimane, chissà chi cazzo gli aveva parlato e che tipo di lettere aveva ricevuto... 
-Aspetta, aspetta, fammi capire bene...- intervenne Mike. -Tu oggi ci chiami qui per dire di voler ritirare un album, a cui abbiamo lavorato per anni e su cui abbiamo discusso per mesi? Mi stai dicendo questo? Ti sei bevuto il cervello? Ci sono mesi di lavoro lì dentro!-
-Lo dici a me, Mike?- ribatté Pat.
Mike aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse velocemente, cambiando idea.
Io rimasi in silenzio.
-Tu cosa dici Armstrong? Ci sono i tuoi testi lì- chiese Pat, rivolgendosi a me, indicando l'immagine della copertina di American Idiot appesa al muro.
-Dico che American Idiot non si ritira- decretai, infine.
-È il mio album, sono i miei pezzi. Ci sono io lì dentro. E non intendo ritirarlo, non intendo rimangiarmi nulla di quanto ho scritto lì... No, American Idiot rimane dov'è-.
L'attenzione passò su di me. 
Non capivo il perché quando si trattava di American Idiot la gente si riferisse a me nello specifico. Solo a me. Come se fosse l'album della mia vita. Un pò lo era... Anche se in realtà era la vita di Jimmy, ma chiunque mi conosca un po' sa che Jesus of Suburbia non sono altro che io.
American Idiot ero io, era la mia vita, erano le ore di sonno che avevo perso per tirare fuori me stesso... Tirare fuori se stessi non è facile, non è facile mettersi a tavolino e scrivere di se, forse è meglio sedersi su una bella poltroncina e scrivere quattro frasi del cazzo, aggiungere due o tre accordi qua e la, darci un titolo e mandare tutto in produzione assicurandosi un bellissimo disco di platino.
Oh sì, che bello. Che bello fare i coglioni, almeno si piace agli altri e si vende senza dubbi.
Preferivo essere un coglione, ma esserlo a modo mio. Dare voce a me, dare voce ai miei pensieri. Non potevo nascondermi dietro ad un dito per non vedere rovinata la mia carriera. Lo sapevo benissimo, lo sapevamo benissimo quando avevamo deciso di produrre quell'album. Lo sapevo che non sarebbe stato facile, che sarebbero stati mesi duri, probabilmente saremmo stati presi di mira da tutti; dai media, dai fans, dai seguaci repubblicani... Del resto American Idiot muoveva le coscienze di tanta gente.
Non potevo mollare. Ritirare il disco, e poi? Avrei annullato quanto detto fino a quel momento... Avrei annullato me stesso, per piacere agli altri. 
American Idiot era pericoloso e scomodo... Ma era molto più pericoloso essere sottomesso al volere della gente.
-Mi dispiace, Pat... Sei il nostro manager, se siamo qui adesso è anche merito tuo, che ci hai sempre aiutati. Ma non possiamo ritirare quell'album- finii.
-Hai ragione, Billie. Hai ragione, non avrei dovuto chiedervi una cosa del genere. Mi rendo conto che per voi si tratta di cose importanti... Il gruppo, le canzoni, la band... Sono cose essenziali per voi e non avrei dovuto chiedervi questa cosa. Sono io a dovermene andare- disse l'uomo, incupito.
-...A dovertene andare?- chiese Mike. 
-Pat, che stai dicendo?- intervenne Trè.
Io fissai i miei due compagni, dopo guardai il manager.
-Avevo previsto questa risposta da parte vostra, non vi biasimo, forse anche io al posto vostro avrei fatto la stessa cosa. Infatti, ho preparato tutto...-.
Così dicendo, tirò fuori dalla propria cartella nera una decina di fogli bianchi scritti a computer. 
-Cosa sono quelli?-.
-Il contratto lavorativo che ci unisce, ho già firmato la mia parte. La nostra collaborazione finisce qui. Vi ricordo che c'é anche una clausola dove in caso di cessata collaborazione mi riservo la facoltá di escludere il mio nome e quello dell'azienda dal vostro- precisò, girando velocemente i fogli per mostrarci quanto detto.
Non potevo essere più stupito da quel comportamento... Si stava comportando come se ci avesse conosciuti da poche ore, come se fossimo dei perfetti sconosciuti dai quali doveva proteggersi legalmente. Non era l'uomo con il quale avevamo stretto un' amicizia.
-Perchè stai facendo questo? Pensavamo di fidarci di te, pensavamo che tenessi al gruppo. Ed invece te ne stai andando così? Ci mandi tutti a gambe all'aria?- ribattè Trè, immobile. 
-Non vivo per i Green Day, Frank. Sono solo un manager e faccio solo il mio lavoro. La collaborazione con voi non va bene... chiudiamola, allora. Niente di pers...-.
Mi alzai in piedi visibilmente alterato e sferrai un pugno sul tavolo, così forte che pensai si potesse spezzare in due.
-Non dire cazzate!- ringhiai.
-Billie, io...-.
-Chi cazzo é che ti ha minacciato? È per American Idiot? È per questo che vuoi farlo ritirare? Hai paura che qualche fottuto idiota venga ad ammazzarti... oppure ti hanno pagato?- strillai, rosso in viso.
-Nessuno mi ha minacciato... Nessuno... Io me ne sto andando volontariamente-.
-Cazzate!-.
-Che tu ci creda o no, Armstrong. Non importa. Non vivo per i Green Day, anche se tu sei convinto del contrario- rispose, leggermente impaurito.
Io sospirai.
Va bene.
-Eh va bene. Firmiamo. Non ci serve un fottuto cagasotto, ce ne sono già troppi in giro- dissi, afferrando rabbiosamente la penna sopra al tavolo. Firmai su ognuno dei dieci fogli che sigillavano il nostro contratto con Pat, così fecero anche Mike e Trè dopo di me. Una volta che ci furono tutte le firme, afferrai i fogli e li buttai di nuovo sulla scrivania del mio ormai ex manager.
-Andiamocene- dissi, rivolto agli altri due.
Pat rimase in silenzio.
-Quanto a te...- dissi, voltandomi verso di lui. -Non so che cazzo ti sia successo, chi ti abbia minacciato, ed onestamente non me ne frega un cazzo... Ma sappi che non voglio vedere più la tua sporca faccia del cazzo in circolazione, mi sono spiegato?- ringhiai, con il dito puntato verso l'uomo.
Afferrai la maniglia della porta, pronto ad andarmene. 
-Armstrong-.
Mi voltai un'ultima volta, guardandolo negli occhi. 
-American Idiot ti rovinerà, Billie. Buona fortuna-.
   
 
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