Well,
I believe it all is coming to an end (Oh well, I guess we’re
gonna
pretend)
Le
ultime note scivolano dalle sue labbra come vapore
sottile, impalpabili e invisibili tra le ombre dense della stanza
rischiarata a
malapena dalle torce. Per un attimo, quasi gli pare di potersi lasciar
scivolare
via con loro, via nell’aria fresca e cupa della notte:
abbassa le palpebre e
lascia che il suo respiro si calmi e si mischi a quello profondo dei
suoi
compagni, rilassa appena la presa sull’archetto ancora
stretto tra le sue dita
e allo stesso tempo si perde nella consistenza del legno solido e
levigato
appoggiato contro la sua spalla.
Quando
riapre gli occhi, Hagen sta ancora indugiando sulla
soglia.
O
meglio, indugerebbe
se fosse chiunque tranne Hagen, che resta con la schiena premuta contro
la
porta e le braccia incrociate sul petto e lo fissa immobile attraverso
le ombre,
e non sembra cercare né una scusa per rimanere né
un motivo per mettergli
fretta. Lo aspetta e basta. Non sembra troppo preoccupato o stanco,
lui, ma lucido,
vigile,
proprio come lo era sulle
strade lunghe e polverose e tra i boschi fitti e scuri mentre
marciavano giorno
dopo giorno verso il Danubio, senza mai fermarsi, e come lo
è stato persino a
Bechlarn nella sala accogliente e ben difesa di Rüdiger,
persino quando erano
al sicuro e notti come queste erano ancora lontane.
E
forse, ecco, forse sembra appena un po’ troppo attento,
mentre lo scruta senza dire una parola.
Volker
gli sorride in un modo che spera essere rassicurante,
mentre lascia che lo sguardo dell’altro scorra per un momento
ancora sul suo
viso, sulla sua figura, inseguendo di certo troppi pensieri cupi alla
volta
benché il suo volto non lasci trasparire nulla. E poi
abbozza un inchino troppo
rapido e troppo profondo, esagerato, tutto per l’unico
spettatore rimasto sveglio
nel suo pubblico. - Gradirei un applauso, alla fine delle mie
esibizioni - gli
dice dopo, raddrizzandosi e gonfiando il petto.
E il
suo sorriso si fa più largo, e diventa anche più
sincero, quando Hagen si lascia sfuggire uno sbuffo seccato dalle
labbra e scuote
la testa - solo per un momento, prima che gli volti le spalle e posi
una mano
sulla porta.
Anche
nel buio, Volker può intuire il modo in cui le sue
labbra sottili s’incurvano appena, dietro quello sbuffo
leggero e senza un’ombra
di vero fastidio, e sente un breve guizzo di soddisfazione dentro al
petto -
una cosa piccola e fugace, esitante, ma è lì ed
è calda e finché dura lo fa
sentire bene.
Non
sente Hagen ridere da troppo tempo ormai, da prima che
tutta questa storia cominciasse. Da prima del viaggio, questo
è sicuro - ma
forse anche da prima di quella dannata battuta di caccia. La sua caccia
più
riuscita, a pensarci bene, e quella che li ha condannati tutti, quella
che ha
inasprito la piega della bocca del suo amico e ha indurito il sguardo
già fin troppo
cauto.
Per un
attimo, Volker pensa che gli piacerebbe fargli
abbassare la guardia di nuovo - per un istante solo e per un'altra
risata
soffocata, e forse poi appena qualcosa di più, anche se non
c’è tempo e probabilmente
non ci riuscirebbe anche se ci provasse, anche se nessuno di loro
può
permettersi di distarsi o di lasciarsi distrarre, non ora e non qui.
Poi
anche quel momento passa, come la fine della sua
canzone, e lui posa il violino per terra e stringe lo scudo in una mano
e poi
segue Hagen fuori dalla porta. Escono dagli alloggi dei Burgundi
insieme, nella
notte, nelle ombre fredde e nel vento leggero e nella luce pallida
delle stelle
lontane. Si siedono uno accanto all’altro su una panca
appoggiata contro il
muro, le dita che si stringono forte sulle else delle spade e gli scudi
posati
per terra ma sempre a portata di mano, e le spalle vicine abbastanza da
sfiorarsi, quasi. E dopo aspettano, e per un lungo tempo non sentono il
bisogno
di dire nulla.
La
notte è chiara e silenziosa e calma, fuori dalla sala in
cui re Attila - o, più probabilmente, la volontà
e il consiglio di Crimilde -
li ha relegati, lontani dal resto della corte. Voltando appena il viso,
riesce
a vedere l’espressione di Hagen, un po’ meno dura
ora ci che sono solo loro due
là fuori, a distinguere le sue labbra strette in una linea
severa, il suo
sguardo fisso davanti a sé e allo stesso tempo lontano.
Mentre lo guarda, gli
tornano in mente immagini delle battaglie che hanno già
combattuto insieme, macchie
di colori foschi e brillanti, fugaci come note di una vecchia canzone
che
conosce a memoria - loro due fianco a fianco nella confusione e nel
fracasso
del campo, sempre vicini anche se divisi dal ferro rapido e dal sangue
scuro e
dalla carne squarciata dei nemici, sempre in grado di guardarsi le
spalle a
vicenda anche quando l’ira annebbiava gli occhi e la mente.
Sospira,
e anche se sa che non dovrebbe lascia comunque che
la sua mente si allontani, e si permette di pensare alle battaglie che
potrebbero ancora combattere, nel caso uscissero vivi da questa che
quasi per
miracolo non è ancora scoppiata - e mentre ci pensa si sente
quasi sereno, e un
vago brivido d’eccitazione gli corre lungo la schiena.
- Non
è una brutta notte per morire - dice tra sé e
sé a un
certo punto, mentre si guarda attorno e non c’è
ancora il bagliore degli elmi
appuntiti o lo scintillio del ferro delle aste sotto le stelle,
né il rumore di
passi svelti e leggeri nell’oscurità a spezzare la
quiete. Poi ride perché,
tutto sommato, è la verità. Almeno, lo
è per lui.
Hagen
scrolla le spalle, non cambia espressione. Ma, dopo un
momento di silenzio, lo guarda a sua volta e alza un sopracciglio, e
riesce a
suonare quasi genuinamente sorpreso mentre glielo dice: - Davvero?
Pensavo che ogni
notte fosse buona per morire,
per
te -.
E
Volker allora non può che ridere di nuovo, più
forte e
senza preoccuparsi di chi potrebbe sentirlo, e ammettere che il suo
compagno lo
conosce fin troppo bene. - Oh, questo è vero, non sono molto
esigente. Mi basta
solo che ci sia tu al mio fianco, quando arriverà la mia ora
- gli risponde,
continuando a sorridere e scherzando solo a metà, e
d’impulso sfiora per un
attimo il dorso della sua mano, quella che stringe ancora la spada, con
dita
leggere: - Sarebbe un peccato andarsene senza una buona compagnia, non
credi
anche tu? -
- Io
ci sarò sicuramente. Sono cresciuto in questa terra, lo
sai, e morire qui non sarà poi un male - e Hagen non scherza
affatto, nemmeno
per un attimo, non c’è una sola traccia
d’ironia nella sua voce. C’è una
domanda inespressa, però, nascosta sotto quel suo tono
incolore, imperturbabile.
Il silenzio cala di nuovo, e la sua spalla si appoggia di
più contro quella di
Volker. E lui può sentire il calore della sua carne, e la
sua tensione, nelle
spalle e nel collo e nella schiena, come una corda troppo tesa che
ancora non
riesce ad emettere un suono.
All’improvviso,
vorrebbe voltarsi del tutto, e prendere il
viso del suo compagno tra le mani e accarezzarne i lineamenti con la
punta
delle dita, sentire la sua pelle fredda scorrere sotto i polpastrelli,
e poi
tirarlo contro di sé e contro la sua bocca, e non lasciarlo
andare. Vorrebbe
mischiare i loro respiri e mormorare sulle sue labbra che non ha
nessuna
ragione di temere, che nemmeno lui lo abbandonerà, che non potrebbe - e
lui dovrebbe saperlo.
Invece,
aspetta. Conosce Hagen e conosce il suo orgoglio, e
sa che è l’unica cosa che può fare.
Aspetta finché è lui ad afferrare la sua
mano, stringendola troppo forte e intrecciando le dita con le sue,
finché è lui
a girarsi bruscamente e a guardarlo dritto in viso e ad incrociare lo
sguardo
con il suo.
-
Dimmi che resterai con me. Qualsiasi cosa succeda -.
E non
è una preghiera, e la sua voce non trema e non esita,
e Hagen non abbassa lo sguardo mentre glielo dice. Ma quello non
è nemmeno il
tono in cui il suo amico impartisce ordini e direzioni agli altri
cavalieri di
Burgundia, né quello con cui si rivolge al re e ai suoi
fratelli nel loro
consiglio, e Volker lo sa. Non c’è fierezza nella
sua voce, né una sfumatura
d’arroganza, e di certo non un briciolo di cautela -
c’è solo qualcosa di urgente
e doloroso, e le parole gli escono dalle labbra roche e troppo veloci,
ruvide,
quasi aggredendolo.
Volker
si accorge di star trattenendo il fiato, lo rilascia
piano dalla bocca in un sospiro. - Fino alla fine - risponde dopo un
attimo, e
ignora il modo in cui qualcosa si agita e punge e tira sul fondo del
suo petto,
qualcosa di rovente e ghiacciato allo stesso tempo. - Fino alla fine -
ripete
poi, più forte, più fermo.
Perché
Hagen non lo ammetterebbe mai, questo è evidente, ma
ha bisogno di sentirlo ancora dalle sue labbra. Perché, per
una volta, ha
bisogno che qualcun altro lo dica a lui, che qualcun altro sia leale
verso di
lui come lui è sempre stato verso i suoi re e i suoi amici.
Perché ha bisogno
di riuscire a crederci.
Perché
quando, dopo una pausa di respiri trattenuti e cose
non dette, il suo compagno lo ringrazia per quello che ha detto, per
Volker non
è affatto una sorpresa - anche se continua a pensare che
Hagen non lo dovrebbe
ringraziare per qualcosa di così semplice, qualcosa di
così naturale e
scontato, e di certo non lo dovrebbe fare con quella gratitudine nello
sguardo.
Quando prova a dirglielo, però, Hagen si limita a scuotere
la testa e ridere
piano e senza allegria, e lui sa che continuare a discuterne non
porterebbe a
nulla.
Per un
momento solo, Volker considera l’idea di aggiungere
che forse non moriranno. Che forse non sarà stanotte, e
forse non sarà domattina,
e forse se poi ci sarà davvero una battaglia loro ne
usciranno vivi e
torneranno a Worms vittoriosi, salvi.
È un menestrello, dopotutto, un cantore: sa inventare storie
ben più
fantasiose, e sa raccontarle in modo che suonino fin troppo credibili,
quasi
vere. Ma poi gli viene un po’ da ridere per quel pensiero
assurdo - perché
Hagen ha passato fin troppo tempo a cercare di convincere tutti loro di
ciò che
sarebbe accaduto in Pannonia, e può solo immaginare come
reagirebbe ad altri
discorsi di questo genere - e un po’ da prendersi a schiaffi
da solo - perché
Hagen non è il tipo d’uomo che si lascerebbe
rassicurare da una bugia così
sciocca e inutile e fragile, e Volker stesso non si perdonerebbe di
avergli
mentito e di aver perso il suo affetto per così poco.
Quindi,
invece di mentire, si sporge di più verso Hagen e scioglie
la mano dalla sua presa per posargliela sulla spalla ancora tesa. - Sto
per
fare una cosa stupida e irresponsabile, se non ti dispiace, amico mio -
si
scusa brevemente, e poi posa anche l’altra mano sul suo
fianco, stringendolo da
sopra la maglia dell’armatura.
E,
prima che Hagen abbia la possibilità di dire qualsiasi
cosa, lo tira davvero contro di sé, contro il suo petto,
proprio come aveva
desiderato di fare. Gli passa un braccio attorno alla vita, e preme le
labbra
contro le sue - traccia la loro forma leccandole, e poi gliele
mordicchia piano
finché le schiude, finché lui si rilassa sotto il
suo tocco e lascia che
insinui la lingua nella sua bocca.
Hagen
non si ritrae, e Volker per un momento ne è sorpreso -
o, almeno, lo è finché l’altro non gli
circonda con le braccia il collo. Le
dita lunghe di Hagen gli accarezzano le spalle mentre risponde ai suoi
morsi
leggeri con altri decisamente meno delicati, risalgono fino alla sua
nuca e si
incastrano tra i suoi capelli mentre il loro bacio si trasforma in uno
scontro di
lingue e di denti, quasi violento, abbastanza da lasciarli entrambi
tremanti e senza
fiato, e stringono e tirano forte qualche ciocca mentre lui ansima
contro la
sua bocca e poi la sfiora di nuovo con le labbra, ancora e ancora e
ancora.
È
solo quando i loro visi si allontanano di nuovo che Hagen
gli dice ciò che Volker stava aspettando - ma il suo tono
non è secco e duro
come se lo sarebbe aspettato. L’effetto, a pensarci,
è un po’ rovinato dal suo
respiro accelerato e dal suo petto fremente, dal leggero rossore che
gli fa
bruciare le guance anche nell’aria fresca della notte. Non
che Volker abbia
voglia di lamentarsene, onestamente. Non mentre non riesce a
distogliere lo
sguardo da lui, e in realtà non è nemmeno molto
incline a provarci. Non mentre
sa di non essere in condizioni molto migliori, e in realtà
non gli importa.
-
Siamo di guardia - mormora Hagen, solo un filo d’aria a
separare le loro labbra. La sua mano tocca il petto di Volker, lenta,
leggera.
Ed
è vero: sono di guardia, e i loro re e i loro amici
dormono sereni e vulnerabili tra coltri pregiate di seta araba e
guanciali
morbidi, e i nemici potrebbero piombare su di loro da un momento
all’altro. E
Volker dovrebbe sentirsi in colpa per le sue intenzioni, per questi
momenti di
cedevolezza e di slealtà.
Ma
degli Unni ancora non c’è traccia, e Gunther e i
suoi
fratelli e il loro seguito sono al sicuro. E lui non riesce ancora a
trovare
nulla di sbagliato in ciò che stanno facendo.
- E
stiamo per fare qualcosa di decisamente
stupido - continua poi Hagen. E la sua mano scivola
appena un po’ più giù.
Mentre
pronuncia quelle parole, c’è un sorriso sul suo
volto
- il sorriso storto di un ragazzo arrivato alla corte di Worms sul Reno
in una
notte ancora più scura e più fredda di tanti anni
fa con abiti di foggia
straniera e un cavallo rubato, il sorriso di un uomo che l’ha
spinto a seguirlo
nelle azioni più ardite nel mezzo della battaglia, e che lo
ha seguito a sua
volta ignorando quella che altri avrebbero chiamato incoscienza,
cercando di
trattenerlo solo per un po’ con le sue parole e poi
gettandosi nella mischia al
suo fianco senza una lamentela o un rimprovero.
È
per quel sorriso - quel sorriso che sembra spuntare sulle
sue labbra solo per lui, che per un attimo gli fa sentire la testa
leggera e gli
fa pensare di essere di nuovo giovane, come se il pericolo fosse
lontano - che
finiscono per stringersi l’uno all’altro su una
panca ruvida, in una terra
nemica, con la minaccia di un attacco che potrebbe verificarsi da un
momento
all’altro oppure farsi attendere ancora.
Se
avessero più tempo, spoglierebbe il suo compagno della
sua armatura, prendendo lentamente la maglia di ferro tra le dita, e
poi infilerebbe
le mani oltre l’orlo delle sue vesti per sentire il calore
della sua pelle. Gli
toccherebbe il ventre e l’addome e il petto, seguendo le
linee dei suoi
muscoli, e accarezzerebbe la sua carne tiepida e sfiorerebbe con la
punta delle
unghie i bordi frastagliati di cicatrici famigliari, mappe di scontri
vissuti
insieme e di altri più antichi di cui Hagen gli ha
raccontato le storie nelle
notti che hanno passato l’uno accanto all’altro.
Se
avessero più tempo, massaggerebbe via la tensione dalle
sue spalle con le dita e dopo gli bacerebbe le clavicole e il collo, e
poi prenderebbe
un lembo di pelle della gola tra i denti, arrossandolo e marchiandolo,
mentre tra
i polpastrelli tirerebbe i suoi capezzoli fino a farli inturgidire,
traccerebbe
cerchi invisibili sulle loro punte, graffierebbe appena i contorni
delle
areole.
Se
avessero più tempo, riempirebbe le proprie orecchie con i
gemiti strappati dalle sue labbra, e poi le leccherebbe come per
cogliere ogni
suo ansito e sospiro, per lambire il suo respiro spezzato. Bacerebbe il
suo
occhio chiuso, la palpebra morbida e le ciglia, e poi la pelle sopra il
punto
in cui l’altro dovrebbe trovarsi, e la sua fronte, e tra i
suoi capelli scuri
già intessuti di grigio. Si beerebbe delle sue grida rotte
come di una musica
conosciuta e nuova allo stesso tempo, una da suonare con le labbra e la
lingua
e i denti oltre alle mani, palmo e dorso, polpastrelli e unghie.
Ora,
si accontenta di infilare una mano nei calzoni di Hagen,
oltre la stoffa, e stringere nella mano la sua carne calda anche nel
freddo
della notte, e pulsante, e accarezzarla e strofinarla e solleticarla in
tutta
la sua lunghezza, dalla base alla punta e poi indietro, e poi avanti
ancora,
cercando d’essere svelto e delicato al contempo. Si
accontenta di sentire il
suo compagno farsi più vicino e abbandonarsi contro di lui,
e soffocare un
gemito contro il suo collo, un altro tra i suoi capelli - di sentirlo
vulnerabile e rilassato stretto al suo petto, solo per un istante
troppo breve,
perché quando sarà tutto finito dovrà
riprendere le armi e questo lo sanno
entrambi, e entrambi sanno bene ciò che accadrà
dopo ancora.
E poi,
Volker trema e gli si mozza il respiro nella gola,
quando Hagen infila la mano oltre il tessuto e prende il suo membro nel
pugno,
e lo stuzzica e lo percorre con dita rapide e leggere a sua volta, e
nel mentre
con l’altra mano gli accarezza il fianco. E si morde le
labbra quando il suo
amico gli posa le labbra sul lobo e lo mordicchia e lo tira tra i
denti, e
sospira quando sente il suo fiato caldo sul contorno del suo orecchio,
e poi la
punta umida e tiepida della sua lingua.
- Fino
alla fine? - gli chiede un’ultima volta Hagen, in un
sussurro, e le sue mani sono sicure e decise sulla sua carne, e la sua
voce
roca - e tremante, solo per una volta, forse di piacere o forse
d’altro su cui
Volker decide di non soffermarsi, non adesso.
- Fino
alla fine - gli risponde un’ultima volta, mentre il
piacere monta sempre più intenso, sempre più
caldo, nel suo ventre tremante.
Poi
chiude gli occhi e stringe le labbra, e per un unico momento
di calore e di luce dietro le palpebre serrate dimentica tutto - il
pericolo,
il freddo, la morte incombente. Tutto, tranne il corpo di Hagen contro
il suo e
le sue dita sulla sua carne.
Hagen
viene poco dopo di lui, gettando all’indietro la testa
in un grido muto e mordendosi la bocca. Volker lo stringe ancora di
più, e dentro
di sé spera che anche lui possa dimenticare. Solo per un
attimo, solo finché
sono insieme in questo modo.
Solo
finché non sarà arrivata l’alba, o
finché gli elmi
degli uomini di Crimilde non scintilleranno sotto le stelle.
NdA:
Originariamente
scritta per il P0rn!fest di fanfic_italia,
per il prompt “Il Canto dei Nibelunghi, Hagen di
Tronje/Volker di Alzey, 'Non
disdegnate, Hagen, che anch'io faccia la guardia con voi sino a
giorno.'”
Perché
questi due sono OTP e sono bellissimi, e l’eccesso di
fluff è interamente colpa loro. Giuro.