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Autore: fireslight    18/02/2015    6 recensioni
«Signorina Collins..» le sussurrò, affondando il volto nei capelli sfuggiti dalla lunga treccia scura, sorridendo appena contro la curva del suo collo; si chinò su di lei, baciandola con quella dolcezza innata che, oramai, Sophie sapeva associare unicamente a lui.
[..]
Rivedeva Gideon nella compostezza, nella serietà infantile di Thomas; nelle morbide ciocche bionde di Eugenia, e nel suo sorriso allegro e gioioso, negli occhi verde smeraldo, nella dolcezza di Barbara.
Lo rivedeva sempre ed ogni giorno, dall’alba al tramonto, come se non l’avesse mai lasciata.

[Gideon/Sophie♥][Post-Clockwork Princess | Angst, Dramatic - 2.096 words]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gideon Lightwood, Sophie Collins
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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.. Except these hours with you.
 
 

“It’s all right to love someone who doesn’t love you back,
as long as they’re worth you loving them.
As long as they deserve it.”
 
 
 
Due pugnali erano conficcati nel cerchio del bersaglio, perfettamente allineati tra di essi.
Una terza lama saettò da un capo all’altro dell’ampia sala, seguendo rapidamente le sue gemelle.
Sophie scostò dal viso una ciocca di capelli, sfiorando inavvertitamente la cicatrice sul lato destro del viso. Tentò di reprimere il fiume di ricordi che, a volte, la investiva quasi prepotentemente, senza che potesse far niente per fermarlo.
Si diresse verso la parete nella quale erano allineati − in perfetta sequenza, niente da ridire sul singolare senso dell’ordine di Will Herondale − diversi pugnali e coltelli di ogni forma e lunghezza, scegliendone attentamente altri tre.
Non si accorse subito dei passi silenziosi alle sue spalle, né di braccia che le cinsero dolcemente la vita, al di sopra del tessuto robusto della tenuta.
Sophie sussultò appena, lasciando cadere per la sorpresa una delle lame con un tintinnio metallico, rilassandosi contro il petto di Gideon Lightwood.
«Signorina Collins..» le sussurrò, affondando il volto nei capelli sfuggiti dalla lunga treccia scura, sorridendo appena contro la curva del suo collo, «Non mi aspettavo di trovarla qui, a quest’ora.»
«Ho il giorno libero, signor Lightwood, ma ciò non significa che non debba passarlo in maniera produttiva.»
Gideon la face girare verso di sé, incrociando i suoi occhi, sorridendole in una maniera tale che, se non lo avesse ormai conosciuto bene, l’avrebbe fatta tremare da capo a piedi. Eppure, Sophie era convinta del fatto che lui non si rendesse davvero conto dell’effetto che le faceva; non si curava di come, per strada, giovani fanciulle lo seguissero con lo sguardo, né di come Charlotte o qualsiasi membro dell’Istituto tenesse in gran considerazione la sua opinione.
«Sophie..»
Gideon si chinò su di lei, baciandola con quella dolcezza innata che, oramai, Sophie sapeva associare unicamente a lui. Le sue labbra erano morbide, poteva sentire su di esse il profumo del sandalo, un lieve retrogusto di cannella e il tipico odore di uomo, di lui, che in altre circostanze, in altre situazioni, non avrebbe sopportato di aver vicino.
Le sue mani erano forti, eppure delicate contro i fianchi esili, le braccia, fin sulle scapole ed il viso.
«Gideon, non dovremo..»
Il ragazzo si staccò lentamente dalle sue labbra, poggiandole sulla sua fronte, in un modo che aveva scoperto che lei amava.
«Perdonami.» mormorò, chiudendo a sua volta gli occhi e inspirando il profumo dei suoi capelli, una fragranza talmente dolce da essere quasi dolorosa, «Non ho saputo resistere.»
Lei gli restituì il sorriso, poggiando il capo sul suo petto.
«A cosa pensi?»
«Al fatto di aver perduto tempo prezioso per dedicarmi agli allenamenti, in realtà.»
Sophie sorrise in maniera furba, indicandogli la parete sulla quale vi erano lunghi bastoni da combattimento; Gideon la osservò quasi stupito, mentre lei gliene lanciava uno che afferrò al volo.
«Mi insegni?»
A quel sorriso, quella luce che le illuminava gli occhi, quella felicità che provava così di rado, non seppe resistere. Ancora una volta, del resto.
Si era reso conto di amarla in maniera incommensurabile, più di quanto avesse mai creduto lecito si potesse amare una donna.
«Tú me sorprende cada día.» Gideon rise, abbandonando quell’alone di compostezza che sembrava circondarlo quasi perennemente, uno dei molteplici lati di lui che Sophie aveva amato − inconsapevolmente −  sin dal primo giorno in cui lo aveva visto all’Istituto.
 
 
 
La pioggia batteva un continuo, incessante ticchettio contro le vetrate delle alte finestre, i fulmini illuminavano la stanza come fosse giorno.
Gideon era poggiato contro la massiccia testiera del baldacchino, un libro abbandonato in grembo alla medesima pagina da diversi minuti. Sospirò stancamente, passandosi una mano fra i capelli per scostarli dagli occhi; osservò la figura minuta al suo fianco, apparentemente serena, al sicuro da una realtà che lo turbava.
Eppure, sapeva bene come lei non fosse tranquilla: il movimento costante, frenetico degli occhi al di sotto delle palpebre sottili come pergamena tradivano un’immobilità mal celata.
Sua moglie si voltò verso di lui, in un sonno agitato.
Lentamente, Gideon si chinò sino a sfiorarle la fronte con le labbra, percorrendo con estenuante lentezza la linea degli zigomi, quella elegante del collo.
«Sophie,» la chiamò piano, scostandole una lunga ciocca scura dal viso «Svegliati, angelo mio.»
Lei si mosse appena, stringendo un angolo del cuscino in una morsa ferrea, quasi spaventata. Gideon posò il libro sul comodino, l’espressione vagamente accigliata. Che stesse avendo un incubo?
«Sophie, per favore, svegliati.» mormorò, carezzandole il viso, la pelle nuda delle spalle.
La vide muoversi di scatto, spalancare gli occhi come un animale in gabbia, terrorizzata; anche se a volte succedeva che avesse degli incubi, era sempre rimasto al suo fianco, tranquillizzandola come poteva.
Eppure, tali episodi lo turbavano. Avrebbe voluto confortarla affinchè potesse dormire sonni tranquilli, perché potesse vederla sorridere senza una ragione precisa, perché sebbene diventata una guerriera tenace e coraggiosa, ciò non significava che non potesse avere ancora memoria di ricordi spiacevoli.
Gideon la strinse a sé, prendendola delicatamente fra le braccia e facendo in modo che poggiasse il capo sul suo petto.
«Perdonami,» la sentì sussurrare contro l’incavo del suo collo, mentre cercava timorosa le sue mani, alla ricerca di conforto «Non volevo svegliarti.»
«Va tutto bene.» le sfiorò i capelli, la schiena, tentando ancora una volta di calmarla, «Non dirlo neanche, mi vida. E ad ogni modo, non stavo dormendo.»
La tenne stretta contro il suo corpo, sfiorandole di tanto in tanto la fronte con le labbra.
«Cosa stavi sognando?»
Sophie si irrigidì, tentando di scostarsi dalla sua presa, evitando il suo sguardo preoccupato, «Io non, niente.. davvero.»
«Sai che puoi parlarmi di qualsiasi cosa, vero? Tenersi tutto dentro può far male.» affermò in tono pratico, in un tono volto a tranquillizzarla.
Lui, dopotutto, ne sapeva qualcosa. Aveva condiviso i suoi timori, le sue preoccupazioni per la condotta sconsiderata del padre a suo fratello e, nell’immediato, invece di ricevere conforto, aveva ottenuto il suo iniziale spavento, e il suo scherno.
Sophie si premette contro di lui, e Gideon la prese delicatamente in braccio, facendola stendere fra le sue gambe, la schiena minuta coperta solo da una leggera camicia bianca contro il petto nudo.
La vide toccarsi con dita tremanti la cicatrice sul lato destro del viso, l’espressione tesa, guardinga. Come se non sapesse di chi fidarsi davvero, né perché.
«A volte sogno ancora quella sera,» cominciò a bassa voce, con tono incolore «occhi freddi che mi scrutano dall’alto in basso, il mio spavento, la filo della lama gelata contro la pelle.»
Gideon poggiò la fronte sulla spalla della donna, sfiorandole i lunghi capelli scuri in gesti ipnotici. Aveva una vaga idea di come si fosse procurata quel segno, − Charlotte gli aveva forse accennato qualcosa a riguardo, tanto tempo fa − eppure Sophie, da che l’aveva conosciuta a quel giorno, non ne aveva mai fatto parola, neanche per sbaglio.
«Ricordo che urlai talmente forte per il dolore da non sentirmi più voce o fiato nei polmoni, come se mi mancasse l’aria. Fuggii da quella casa di notte, vagando per le vie di Londra come i demoni giù al porto d’inverno, senza forza, né lacrime da versare.»
Aveva constatato più volte quanto i ricordi fossero dolorosi, Gideon e le parole di sua moglie, in quella gelida notte d’autunno, erano come sale sulle ferite − comparabili solo alla disperazione di Tatiana alla morte della loro madre, alla sua disperazione.
Sophie voltò lentamente il viso, e lui asciugò ogni sua lacrima, in silenzio, come tante altre volte aveva fatto, salvandola dagli incubi che più o meno frequentemente la turbavano.
«Non devi pensarci, non più.» le disse, baciandola sulle labbra che sapevano di sale e di lei.
Se la strinse contro ancora, tenendola a lungo tra le sue braccia fin quando non la sentì rilassarsi e socchiudere gli occhi scuri, finchè non si fu addormentata.
 
 
 
«Non è bellissima?»
Sophie si raddrizzò sul letto, osservando Gideon porgerle un fagottino bianco, le braccia muscolose lievemente tremanti per paura di farlo cadere. Lo prese con delicatezza, scostando appena un lembo della copertina.
Gideon la vide aprirsi in uno di quei sorrisi che tanto amava, come se sua moglie non sorridesse mai abbastanza.
La bambina aveva alcuni ciuffi di capelli scuri, vivaci occhi verdi come i prati d’Irlanda, del medesimo colore delle siepi di Hyde Park in primavera, degli immensi giardini di casa Lightwood a Chiswick, e lineamenti infantili e aggraziati.
«Come..» Sophie si schiarì la voce, troppo presa dall’emozione per dire alcunché − la gioia di stringere fra le braccia sua figlia era qualcosa di strano e totalizzante, non minimamente spaventoso come la prima volta in cui aveva partecipato a una battaglia, «Come potremo chiamarla?»
Gideon sembrava pensieroso, lo sguardo rivolto al di là dell’ampia finestra della stanza, oltre le siepi colme di fiori di primavera, «Avevo pensato a un nome, in effetti.» disse, tornando ad osservarla, volendo misurare le sue reazioni, «Mi sarebbe piaciuto Barbara, come.. come mia madre.»
Sophie lo guardò a lungo, distogliendo l’attenzione dagli occhi del marito − gli stessi della bambina, identici come gocce d’acqua, −. Come poteva dirgli di trovare quel nome perfetto, che per pochi secondi, durante il parto, non vi aveva pensato anche lei?
«Ma se avevi qualche altra idea, io..»
«No,» lo interruppe, sorridendo radiosa nell’osservare la piccola stringerle le dita, osservare il suo viso con una tranquillità devastante − lei che durante la gravidanza si era chiesta innumerevoli volte se i suoi figli l’avrebbero guardata con disgusto − «È perfetto, credimi.»
Le si sedette accanto, sorridendole ancora una volta, grato per quel magnifico dono che gli aveva fatto. La amava con tutto sé stesso, e amava sua figlia tanto quanto la madre che aveva perduto da ragazzino, se non di più.
Si ripromise in quell’istante che l’avrebbe protetta, che le avrebbe protette entrambe finchè sarebbe stato in vita, non importava quanto gli sarebbe costato; che avrebbe insegnato alla sua Barbara a camminare, a correre. Che sarebbe stato presente durante la cerimonia delle prime rune, che l’avrebbe sostenuta sempre e comunque.
«Vi proteggerò sempre, mis vidas. Sempre.»
 
 
 
L’aria era satura dell’odore metallico, inconfondibile del sangue.
Il vento soffiava gelido contro i vetri delle finestre, le chiare tende lievemente smosse dai soffi freddi in contrasto alla rigida immobilità della stanza.
Sophie era rimasta accanto a quel letto, rannicchiata sulla poltrona accanto al camino in marmo per tutta la notte, pregando Raziel che le condizioni di Gideon migliorassero.
Eppure, l’Angelo sembrava non aver udito le sue preghiere.
Suo marito era steso esanime, il viso pallido e scavato, due cerchi scuri sotto gli occhi, le labbra esangui. Non avrebbe saputo esprimere quanto, adesso, gli mancassero i suoi occhi verdi, né le sue parole in spagnolo.
Si riscosse al lieve bussare contro la spessa porta di noce, mormorando un invito ad entrare. La porta si aprì silenziosa, e Gabriel scivolò a passi misurati sino all’altro lato del letto, osservando il viso del fratello con aria stanca, triste.
Malinconica, l’avrebbe definita lei.
«Come sta?»
Sophie non alzò lo sguardo dal volto del marito, osservando la linea marcata degli zigomi, i lineamenti scavati dal gelo della permanenza sugli Urali.
«I Fratelli Silenti dicono che le sue condizioni sono stabili.»
«E tu gli credi?»
Gabriel osservò a lungo il volto pallido della cognata, gli occhi pregni di quella stessa malinconia, senso di vuoto, che avvertiva come propri.
«Devo, voglio crederci. Per Gideon, perché starà bene.»
«Sophie..»
Gabriel la vide alzarsi di scatto dal bordo del letto, − venire meno a quella che fin da principio aveva classificato come una calma letale − e puntargli addosso occhi di fuoco.
«Non osare dirmi che le mie sono vane speranze, Gabriel Lightwood.» sibilò, quasi irata della sua presenza, prima che potesse tornare nuovamente, − come se non si fosse mai mossa, a sedersi delicatamente sul letto.
Sophie scostò dalla fronte del marito una ciocca di capelli chiari, osservandolo con una tale dolcezza a cui, in un moto irrazionale di vergogna, Gabriel non avrebbe voluto assistere. Era come se sentisse di turbare una delicata bolla d’aria, costruita unicamente ad abbracciare il dolore della donna, l’innaturale immobilità di suo fratello.
Provò il soffocante impulso di voltarsi, abbandonare quella stanza per sempre, poiché non sarebbe riuscito a sopportare dell’altro dolore, Gabriel, − non dopo la morte della loro madre, del loro padre causa della sua medesima rovina.
No, non sarebbe riuscito a reggere il colpo. Eppure avrebbe dovuto farlo, si disse.
Gideon avrebbe voluto che fosse lui ad occuparsi di sua moglie, di farla sentire meglio se gli fosse successo qualcosa, a raccogliere i cocci infranti della sua anima e del suo cuore.
«Non volevo intendere nulla del genere. Starà meglio, vedrai.» disse ad alta voce, più che a sé stesso che alla donna.
Rimasero in silenzio ancora, finchè Sophie non mormorò qualcosa a mezza voce.
«Non sarebbe dovuto essere lì. Non era di turno, quella notte. Non era suo compito, non..» la voce le si spezzò, eppure Gabriel capì ciò che albergava nella mente della donna; avrebbe potuto − dovuto − esserci qualcun altro al posto di Gideon.
Erano Shadowhunters, morivano giovani, spesso in battaglia, di morte violenta.
Ma come poteva essere tanto egoista, l’Angelo, da portarlo via da loro?
Sophie voltò lo sguardo verso il suo, alla disperata ricerca di quel conforto che − Gabriel sapeva − avrebbe potuto donarle solo Gideon.
«Le ragazze,» mormorò la donna, lisciando con le dita le pieghe inesistenti del copriletto chiaro, «Barbara ed Eugenia, e Thomas.. Sono solo dei ragazzi, Gabriel.»
Gabriel avrebbe voluto poterla rassicurare, dirle che le ragazze e il piccolo Thomas avrebbero visto ancora il loro padre, eppure non trovò le parole adatte.
Si limitò a sfiorare la spalla di Sophie, ancora seduta sul letto, concentrata nell’imprimersi ogni dettaglio del volto del marito nella mente.
«Starà bene, vedrai. Si riprenderà, Sophie, è sempre stato forte.»
Certo, avrebbe voluto ribattere lei, ma per quella volta, ne avrebbe pagato il prezzo con lacrime e dolore.
 
 
 
Sebbene gli anni fossero passati, il mare la stupiva puntualmente, come se ogni volta lo stesse rimirando per la prima volta. Sophie scorgeva in lontananza le onde lambire la riva chiara, lo stridio rauco dei gabbiani fra le nuvole sottili.
«Mamma, guarda cos’abbiamo trovato!»
La investirono in pieno due corpicini sottili, giunchi di grano tenero sotto un sole cocente che ancora non avevano conosciuto, una sferzata di morbide onde scure e color della sabbia. Gli occhi allegri, sprizzanti di energia e verdi di Barbara, quelli dorati di Eugenia.
Vide Thomas poco distante, concentrato a costruire una delle torri del suo castello di sabbia; decise di non disturbarlo, per il momento.
«Cosa sono?»
Sophie provò a concentrarsi sulle figlie, impegnate a mostrarle l’incredibile varietà di conchiglie della spiaggia, ammirandone i colori affascinate. Quei piccoli frammenti catturavano la luce del sole, brillando sul dorato dei capelli della figlia minore, così uguali a quelli del padre. La luce metteva in risalto anche il verde brillante degli occhi di Barbara, in un tripudio di colori e sfumature tanto, troppo familiari.
«Conchiglie, mamma!» esclamarono entrambe, − Barbara ed Eugenia, così simili al loro padre da far male − «Come quelle che papà ha raccolto per noi in Danimarca, ricordi?»
Talvolta, avrebbe desiderato estraniarsi da quel mondo, provare unicamente a ricordare come fosse prima, prima che Gideon morisse.
Quelle ferite erano state gravi, letali, infine. Suo marito era morto poche ore dopo l’ultima visita di Gabriel, non prima d’aver aperto gli occhi un’ultima volta, desiderando di vedere i suoi figli, dicendole quanto l’amasse.
Thomas, probabilmente, ne era stato il più scosso, per diverso tempo, e lei ne conosceva la ragione. Gideon aveva sviluppato con il figlio un rapporto tutto loro, fatto di piccoli gesti e fiducia reciproca, così come le sue due ragazze avevano da sempre, sempre adorato il padre in qualsiasi circostanza.
Adesso, Sophie osservava i marchi propri dei guerrieri sulla pelle candida dei suoi figli, rune dipinte nella loro solennità su corpi giovani, scattanti di vita. Lei e Gideon avevano assistito alla cerimonia di ognuno di loro, sostenendoli sempre qualsiasi fossero state le loro scelte, premurandosi che non mancasse loro mai nulla.
Sentiva di amarli più di chiunque altro al mondo, più di sé stessa; il dolore, però, la colpiva ancora come stilettate roventi sulla pelle segnata anch’essa dalle cicatrici di vecchie rune, sale su ferite ancora fresche.
Dopo così tanti anni, tuttavia, aveva scoperto come facessero meno male.
Sophie rivedeva Gideon nella compostezza, nella serietà infantile di Thomas; lo rivedeva nelle morbide ciocche bionde di Eugenia, e nel suo sorriso allegro e gioioso, negli occhi verde smeraldo, nella dolcezza di Barbara.
Lo rivedeva sempre ed ogni giorno, dall’alba al tramonto, come se non l’avesse mai lasciata, eppure le andava bene così, poiché la consapevolezza della sua presenza silenziosa era più semplice da accettare che non il piangerlo su una lapide chiara.
Si consolava pensando al fatto che i suoi figli avevano avuto il padre migliore del mondo, che avevano gioito abbastanza della sua presenza finchè lei stessa non era stata costretta a lasciarlo, cedere il corpo di Gideon ai Fratelli Silenti perché lo bruciassero.
A volte, lo rivedeva nei dettagli più insignificanti della giornata: i raggi del sole fra le nuvole chiare, la pioggia sottile sui vetri delle finestre, lo scintillio dell’adamas delle spade angeliche.
Lo vedeva spesso, Sophie, − in un tripudio di ricordi così lontani da farle male − e tanto le bastava.








 

Note dell'autrice.
Mi accorgo di riversare nelle vostre povere anime parecchio dolore, ma ci voleva, perchè di Gideon e Sophie non si parla mai abbastanza, e questo non va bene. Dunque, cosa dire? Ah, si. Provo un amore profondo e viscerale per questi due, che nonostante tutto si sono amati come pochi, sfidando le convenzioni sociali del tempo, pur di stare insieme. Sulla morte di Gideon non si sa molto, ma a quanto pare che è stata prematura e che ha lasciato tre figli, − i cui nomi sono presi dall'albero genealogico dei Lightwood.
Non credo di poter minimamente immaginare quale, quanto dolore Sophie abbia dovuto sopportare alla morte di chi l'aveva sempre capita, ed amata sopra ogni cosa, perchè non credo si possa davvero comprendere il dolore per la perdita di una persona cara.
Niente, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensaste, ew, pareri sinceri sono sempre graditi.

Alla prossima, e ave atque vale perchè si,
fireslight.

 
  
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