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Autore: PapySanzo89    18/02/2015    11 recensioni
John Watson è tornato dall'Afghanistan e un suo vecchio collega gli consiglia di andare ad uno speed date per tirarsi su di morale. Controvoglia accetta il consiglio ma non sa che l'uomo che incontrerà lì gli cambierà con tutta probabilità la vita.
#Parentlock
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John, Watson, Sherlock, Holmes
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.




Mike passa una tazza di caffè a John e pensa se domandare o meno delucidazioni su come sia andato lo speed date. Del resto sono passate due settimane, non può essere ancora alterato con lui per averlo praticamente obbligato a presentarsi. Fatto sta che John da quel giorno è stato intrattabile per tutto il periodo seguente e si è chiuso ancora di più nel suo bozzolo, evitando anche le uniche uscite al pub che faceva coi colleghi. Probabilmente la sua non è stata poi questa grande idea.


John alza gli occhi dalle carte che sta visionando e li porta al caffè offertogli, sospirando e accettandolo di buon grado.

«Grazie Mike.»

E Mike pensa che un ringraziamento sia un passo in avanti, ma evita comunque di chiedere dell’appuntamento e prende posto alla scrivania. Sono in pausa pranzo e nessuno dovrebbe disturbarli.


Mike evita accuratamente l’argomento e John fa altrettanto, la pausa pranzo passa con loro che chiacchierano del più e del meno e si lamentano di determinati pazienti.
John evita di pensare ad Hamish ancora una volta.




Sarah gli lascia le chiavi dello studio e John la ringrazia, chiudendo la porta a doppia mandata appena il suo capo se ne va.


Ha deciso di portarsi avanti col lavoro perché la pila di cartelle dei pazienti inizia ad arrivare pericolosamente in alto e deve trasferire tutto su computer (cosa per cui sta perdendo molto tempo ogni giorno, essendo abbastanza lento nel trascrivere al pc), così ha chiesto il favore di farsi lasciare le chiavi per fare qualche ora di straordinario e finire il prima possibile.


Il fatto che non abbia assolutamente null’altro da fare nella sua giornata lo ha aiutato a prendere la decisione di fermarsi lì.


Sarah ovviamente non ha obbiettato (è un lavoro che deve essere fatto e piuttosto urgentemente) e John ora si ritrova a sospirare pesantemente, guardando le cartelle come se fossero le sue peggiori nemiche. Deve oltretutto aggiornale i file con le ultime medicine prese dai pazienti, le allergie, le operazioni chirurgiche e –nel caso sia necessario- il cambio di residenza, una cosa lunga e tediosa come poche che gli fa digrignare i denti verso il dottore che lavorava lì prima di lui e che non ha mai aggiornato le cartelle da qualcosa come il 2003, lasciando oltretutto cartelle di pazienti che se ne sono andati dallo studio anni addietro ad accumulare polvere e basta.


Sospira e riprende da dove si è fermato il giorno prima: la lettera N.

Si massaggia gli occhi e si prepara psicologicamente a un pomeriggio di mal di testa assicurato.




Sono quasi le cinque quando decide di prendersi una pausa, alzandosi dolorante dalla sedia e stiracchiandosi la schiena e le spalle. Ha bisogno di un caffè e di rilassarsi un attimo, lasciando stare cartelle e numeri perché gli si stanno incrociando gli occhi.


Spegne lo schermo del computer, chiude la cartella di un certo Patrick Rule trasferitosi in Scozia e prende il cellullare dal cassetto –dove lo ha chiuso per non essere disturbato-, il bastone appoggiato contro il muro e si avvia alla macchinetta del caffè.


Ha il collo indolenzito e l’unica cosa che vorrebbe fare sarebbe andare a casa e farsi un bel bagno caldo, se solo la vasca ce l’avesse.


Il cellulare inizia a vibrargli nella tasca del camice che non ha tolto per abitudine e si ritrova ad essere sorpreso di ricevere chiamate a quell’ora. Spera non sia sua sorella, non ha voglia dei suoi problemi di alcolismo al momento.

Lo schermo comunque gli riporta un numero nascosto e la sua voglia di rispondere si fa ancora più scarsa. Potrebbe essere una vendita telefonica o la sua compagnia che lo chiama per offrirgli qualche nuova promozione che lui, comunque, non accetterebbe. Si domanda però se possa essere qualcuno del lavoro, scartando subito la possibilità perché ha il numero di Sarah e non vede perché dovrebbe chiamarlo da un numero nascosto. Però magari è qualcosa d’importante e dopo non potrebbe richiamare.


Sospira pesantemente e si decide a rispondere, al massimo potrà addurre la scusa del lavoro, ma come fa per premere il tasto verde il cellulare smette di squillare, mostrando una chiamata persa da un numero sconosciuto.


Eh va beh.


Rimette il telefono nella tasca del camice e infila la chiavetta nella macchinetta del caffè, decidendosi per un semplice nero senza zucchero: ha decisamente bisogno di qualcosa di forte.

Nel tempo dell’erogazione il cellulare squilla nuovamente e John alza gli occhi al cielo, seccato di non poter nemmeno bere un caffè in santa pace, ma stavolta il cellulare gli riporta un numero, anche se comunque sconosciuto.

Risponde prima di poter cambiare idea, prendendo il bicchierino di plastica in mano.


«Pronto?»


Gli risponde il silenzio e John porta l’apparecchio dinnanzi a sé, magari ha poco segnale lì dentro. Ma la copertura è ottima e così ci riprova di nuovo, nella speranza che non sia uno scherzo.


«Pronto, pronto, pronto? Hai mezzo secondo per rispondere prima che decida di chiuderti il telefono in faccia.»


C’è ancora un attimo di esitazione, poi un sospiro e una voce a lui conosciuta finalmente risponde.


«Ciao John.»


E la voce di Hamish gli riempie il cervello.




John non si capacita ancora del tutto sul come si sia ritrovato al 221B di Baker Street, sa solo che lui lo ha chiamato per chiedergli un favore e che così si è quasi precipitato alla sua porta. Insomma: è un coglione.


«Quindi usi spesso il nome di tuo figlio per presentarti agli altri?»


Sherlock –questo il vero nome dell’uomo conosciuto settimane prima- ha almeno la decenza di distogliere lo sguardo portandolo al bambino, che sta giocando con delle macchinine ai piedi del divano senza fare il minimo rumore.


«Diciamo di sì, per lavoro è piuttosto utile.»


John annuisce, Sherlock gli ha spiegato brevemente il tipo di lavoro che svolge e deve ammettere che ne è rimasto particolarmente sorpreso –affascinato, in realtà-, e posa anche lui lo sguardo su Hamish. Il bambino gli ha a malapena rivolto uno sguardo, nascondendosi poco dopo dietro le gambe del padre che gli ha accarezzato brevemente la testa, distraendolo con le automobiline. Sherlock si è scusato, dicendogli che Hamish è un bambino piuttosto timido e John non ha replicato non sapendo in sostanza cosa dire. La situazione gli sembrava già piuttosto strana così.


«Ci sono delle regole? Come quando mandarlo a letto o farlo mangiare? Ha qualche allergia o qualche cibo che non gli piace particolarmente?»


Sherlock lo ha chiamato sinteticamente per fare da babysitter. All’inizio non ci ha voluto credere, ha sperato –per meno di mezzo minuto- che lo stesse chiamando per un puro interesse personale, ma gli è stato reso chiaro piuttosto in fretta che no, quelle non erano le intenzioni.

Gli è stato reso noto anche che l’unica persona con cui poteva lasciare Hamish –una certa signora Hudson, apparentemente la padrona di casa- al momento è fuori città e che lasciare suo figlio al fratello è assolutamente fuori discussione. John non ha fatto domande nemmeno su quello.


Sherlock guarda John e poi Hamish, schiarendosi la gola, e sembra che la domanda lo abbia preso in contropiede.


«Dovrebbe?» è la domanda che viene posta a John ed è John che si ritrova ad essere stupito. Non conosce bene Sherlock –non lo conosce per niente- ma qualcosa gli dice che la situazione lo metta piuttosto a disagio.


«Beh, sì. Diciamo che sarebbe utile stabilire dei ritmi finché è ancora così piccolo.»


Sherlock non gli ha dato un’età esatta ma John può capire da sé che Hamish deve avere sui tre, forse quattro anni al massimo. Sherlock scuote la testa e poggia una mano sul tavolo della cucina, tamburellandoci sopra le dita.


«No, dorme quando ha sonno e mangia quando ne ha più voglia.»


John storce la bocca e l’unica cosa che riesce a dire è un semplice «mh» per nulla convinto, ma non può certo sindacare sui metodi degli altri di crescere i propri figli, nonostante siano metodi che non vanno affatto bene. Sherlock probabilmente si sente giudicato perché alza un sopracciglio e il viso si fa dubbioso.


«Non va bene?»


«Eh. Diciamo che non è proprio il massimo, ma ci possiamo lavorare.» John si gratta il mento –l’accenno di barba che non riesce a radersi da un paio di giorni inizia a prudergli- e sorride, nemmeno lui sa perché. La situazione è del tutto bizzarra e fuori dagli schemi e davvero –davvero- lui non dovrebbe trovarsi a casa di quest’uomo, di cui non sa niente, a tenergli il figlio come se fossero amici di vecchia data che si fanno vicendevolmente un favore.

E poi la vera domanda che gli ronza in testa è come Sherlock possa fidarsi di lui –un totale estraneo- per occuparsi di Hamish. Si sono parlati forse dieci minuti in totale e John, per quanto l’altro ne possa sapere, potrebbe essere un serial killer o qualcosa del genere.


«Ovviamente non puoi essere un tipo pericoloso. Non lascerei mai mio figlio con qualcuno di cui non mi fido.»


John alza gli occhi verso Sherlock e si chiede per un attimo come Sherlock abbia seguito il filo dei suoi ragionamenti. Sherlock sorride e scuote le spalle. «Mi è bastato poco per inquadrarti, ricordi? Sei un soldato, un patriottico –e per questo anche una persona piuttosto stupida- e un medico, da questo si capisce molto della tua personalità e sono sicuro non avrai problemi ad occuparti di Hamish né che perderai la pazienza con lui.»


John si sente un po’ irritato: davvero è una persona così semplice da leggere? Anzi, è davvero una persona così semplice e basta?


Stringe il manico del bastone con la mano e fa qualche passo in avanti, portandosi vicino ad Hamish che si blocca istantaneamente quando si accorge di lui. John è sicuro che questa non sia timidezza ma vera paura degli estranei e spera non avranno problemi quando Sherlock se ne andrà e durante tutta la serata.


Sherlock prende il cappotto dall’attaccapanni dietro la porta e si infila i guanti.


«Vado, Lestrade mi aspetta, cercherò di fare il prima possibile.» detto questo si avvicina ad Hamish e, timidamente quanto John non ha mai visto un padre fare, gli accarezza la testa, un tocco così effimero che John non sa nemmeno se Hamish l’abbia sentito, salvo che il bambino alza gli occhi a guardare Sherlock e poi torna a giocare.


John si siede sul divano, appoggia il bastone contro il muro e rimane a guardare Hamish giocare facendo scontrare le automobili. Fa un semplice cenno con la testa in direzione di Sherlock, pensando a che strano rapporto padre-figlio questi due debbano avere.

È quando sente la sensazione di essere osservato che alza gli occhi verso la porta d’entrata, sicuro di trovarvi ancora Sherlock a fissarli, ma l’uomo è scomparso, sceso probabilmente chissà quando senza fare il minimo rumore.




Hamish non parla. L’unica cosa che John sa è questa; ma non per qualche problema congenito, da quello che ha capito ha un vero e proprio rifiuto verso la parola. Sherlock è stato piuttosto vago in questo, gli ha semplicemente detto che non parla, con nessuno, nemmeno con lui. Questo sta ad implicare che una volta Hamish parlava o che, perlomeno, emetteva suoni di qualche tipo mentre ora non fa un singolo rumore. L’unico suono che si sente in tutta casa è quello delle macchinine giocattolo che vanno a schiantarsi l’una contro l’altra e il televisore acceso su un canale a caso giusto per tenere loro compagnia.


Hamish non ha alzato la testa da quello che sta facendo nemmeno per un secondo e John, che l’istinto di medico ce l’ha nel sangue, non riesce a fare a meno di pensare a quali cause potrebbero essere correlate tra di loro, tra il non parlare e l’evitare lo sguardo delle persone attorno a lui, rimanendo –per quel che sembra- rinchiuso nel suo mondo. La sindrome di Asperger e l’autismo sono le prime che gli vengono in mente e nessuna delle due gli piace particolarmente.

Sherlock però non ha fatto riferimento a nulla del genere e, nonostante tutto, John crede che lo avrebbe reso partecipe della cosa, anche per essere pronto ad un possibile attacco di panico o crisi.


John decide, nonostante la gamba gliene farà pentire più tardi, di sedersi a terra con lui e provare ad avere un contatto, senza lasciarlo lì a giocare da solo.


Hamish si blocca per qualche istante quando vede i movimenti di John e poi se lo ritrova seduto vicino, ma non alza la testa, almeno fin quando John non prende una delle macchinine lasciate in disparte e la muove, facendola scontrare con quella che Hamish tiene in mano.


«Bam.» fa John, quando la macchina si scontra con l’altra e la fa volare dall’altra parte, schiantandola contro il tessuto del divano.

Hamish alza il viso per guardare il volo della macchinina e resta in silenzio, alzando poi gli occhi in alto verso John.

John si chiede se abbia fatto o meno la cosa giusta -temendo che Hamish inizi a piangere da un momento all’altro- quando però vede che il bambino non fa nulla di particolare, riprende la macchinina in mano le fa fare un giro su se stessa e va a scontrarla nuovamente con quella di Hamish, riproponendo lo stesso bam come suono dello schianto.


Hamish sbatte le lunghe ciglia nere e osserva la macchinina che John tiene in mano (questa volta ha deciso di non farla volare da nessuna parte) e, con grande soddisfazione del dottore, muove la sua per scontrarla nuovamente contro l’altra (prendendo in mezzo le dita di John) e così John, con lo scontro di Hamish, tira indietro la macchinina facendo sembrare lo scontro molto più forte del dovuto.


Hamish non ride, ma un tenero sorriso gli affiora sulle labbra e finalmente guarda John negli occhi.


John non ha mai visto degli occhi più belli in tutta la sua vita.




Hamish si è messo a disegnare strani paesaggi dall’erba viola, cieli rossi e animali con un po’ troppe zampe, così John lo ha lasciato fare cercando nella libreria qualcosa da leggere. Peccato che Sherlock non sembra proprio un tipo da romanzi, così più che altro John si ritrova a cercare il libro meno impegnativo che ci sia lì dentro (e tra testi di scienze e chimica e saggi e vecchi tomi di criminologia, la scelta è ardua).


Alla fine opta per un trattato sulla criminologia da cui spuntano fuori tantissimi post-it con appunti fatti a mano dallo stesso Sherlock, che evidentemente individua dei fatti non esatti e mette delle note per redarguire nessuno a parte se stesso.


John scuote la testa e si siede sul divano, sempre vicino ad Hamish, ed inizia a leggere, colpito da ogni appunto e minuzioso dettaglio scritto da Sherlock.


Non passa nemmeno mezz’ora che John nota qualcosa di strano. Hamish rimane quasi totalmente fermo, la manina stretta attorno ad un pastello azzurro, e ciondola un po’ verso la sua direzione. John si sporge dal divano e lo chiama a voce bassa, come per non spaventarlo, ma Hamish non alza la testa e ciondola ancora un pochino e John fa una fatica enorme a non ridere quando nota che Hamish si sta semplicemente addormentando da seduto. Non credeva avrebbe mai visto una cosa del genere se non in un video di YouTube.


Hamish ha gli occhietti semi chiusi, la testa gli pende sul petto e sta lasciando andare anche il pastello. John si china in avanti e lo prende in braccio, prima di vederlo cadere a faccia a terra, e si ritrova a ridere della scena.

Hamish pare svegliarsi di colpo appena sente le mani di John sollevarlo e portarselo sulle gambe ma, quando lo fa appoggiare con calma contro il petto e gli fa qualche carezza su quella zazzera scura di capelli ricci, Hamish pare ricadere in uno stato semi incosciente, finché non si addormenta del tutto sul petto di John con la bocca aperta.


John evita di ridere forte per non svegliarlo e appoggia il libro sul divano, continuando a leggerlo sfogliandolo con la mano che non regge Hamish.




È piuttosto tardi quando John decide di svegliare Hamish scuotendolo blandamente e chiamandolo a bassa voce per non farlo irritare troppo –ricorda perfettamente come urlasse sua sorella quando, da piccola, la si svegliava- ma crede che sia meglio così, almeno dormirà durante la notte invece di passare ore di insonnia per il pisolino pomeridiano.


Hamish si sveglia sbattendo le palpebre velocemente e sbadigliando, puntando poi gli occhi pieni di sonno verso John che gli sorride e gli fa qualche carezza sulla testa.


«Ben svegliato.» gli dice, mentre Hamish si stiracchia e tenta di tornare a dormire, poggiandosi più comodamente nella conca che offre il braccio di John. «Ah, no, no. Forza e coraggio, tra poco è ora di cena.» lo solleva dalle ascelle e se lo mette seduto sulle ginocchia. Hamish non sembra minimamente felice della nuova ubicazione e mette su il muso, aggrottando le sopracciglia fini e mordendosi il labbro superiore.

John inarca un sopracciglio e solleva mezza bocca in un sorriso sghembo.


«Niente musi o pianti isterici, che sia ben chiaro.» e detto ciò lo solleva nuovamente e se lo porta al petto, aiutandosi con la mano libera a tirarsi su dal divano e prendendo il bastone per camminare fino la cucina. La gamba lo infastidisce un po’ e così si ritrova a zoppicare leggermente ma è una cosa a cui può tener testa questa volta.


Hamish si appoggia alla sua spalla e John gli parla per tenerlo sveglio, muovendo un po’ il braccio che lo regge per aiutarsi nell’impresa di non farlo addormentare. Hamish pare sbuffare e ad un certo punto gli poggia pure una manina sulla bocca.


John resta per un attimo stupito, si volta a guardare il bambino mentre quello lo osserva sempre con le sopracciglia aggrottate e non spostando la mano dalla sua bocca ma poi John ride piano e infine inizia a fargli delle pernacchie sulla manina, lasciando Hamish più sbigottito che altro.

Hamish toglie la mano dalla bocca di John e se la guarda come se fosse qualcosa di nuovo, qualcosa di mai visto, infine riappoggia la mano sulle labbra di John e John ricomincia a fare le pernacchie.

Sembra che Hamish si stia divertendo.




Fortunatamente la cena per Hamish è in microonde così non dovrà perdere tempo a cucinare e, per quanto riguarda lui, prenderà qualcosa dal take away nel caso gli venga fame.

La cosa che lo preoccupa di più al momento è l’ora. Sono le nove e di Sherlock nemmeno l’ombra. Non ha dato un orario preciso nel quale sarebbe rientrato, ma non si è fatto sentire per tutta la sera, nemmeno per chiedere come andasse con suo figlio, e la cosa gli sembra piuttosto preoccupante, sapendo soprattutto il lavoro che svolge.

In effetti John si sente essenzialmente un idiota. Cosa avrebbe fatto se Sherlock non fosse tornato affatto? Se fosse finito col farsi ammazzare –proprio quella sera poi- e lui si fosse ritrovato da solo con Hamish?


Hamish fa rumore col suo cucchiaio di plastica riportando l’attenzione di John su di lui, intento nell’atto di sporcare se stesso, il bavaglino e tutta la tavola circostante.


John sospira e gli prende il cucchiaio dalla manina ora sporca di una strana pappetta alle mele e tenta di pulirgli il viso e la mano con un tovagliolo: Hamish non ne sembra particolarmente entusiasta e lo dimostra immergendo la mano nel piatto.


John alza gli occhi al cielo e lo rimprovera bonariamente, pulendogli nuovamente la mano e avvicinandogli il cucchiaio alla bocca, ma Hamish si scosta sembrando riluttante a mangiare ancora.


«Se fai il bravo e dopo giocheremo ancora un po’ con le macchinine.»


Hamish lo guarda con occhi grandi e pare aver capito perché apre la bocca e aspetta il suo cucchiaio con la mela.


John sorride e lo imbocca, accarezzandogli una guancia con due dita quando il piatto è vuoto.




Alle undici Hamish è imbambolato davanti la televisione a guardare i cartoni animati e John decide che è arrivata l’ora di andare a dormire, regole non stabilite o meno.


Quando Hamish vede John avvicinarglisi alza prontamente le braccia e John si stupisce di quanto quel bambino si sia già abituato alla sua presenza; soprattutto al pensiero delle ore precedenti, quando nemmeno lo guardava in viso.


John fa uno sforzo per abbassarsi –reggendosi al bastone- e alza Hamish che gli allaccia le braccia al collo e continua a guardare la televisione, nonostante si stropicci gli occhi e sbadigli.


«Bene, ora di dormire.» John spegne la tv e Hamish gli si appoggia contro, battendo la mano contro la spalla dell’altro. «No, niente capricci.» e detto ciò si avvia al piano di sopra dove Sherlock gli ha spiegato esserci la camera di Hamish.

Fa un po’ di fatica a salire le scale –fra il bastone ed Hamish abbarbicatogli contro- ma infine raggiunge il pianerottolo sano e salvo ed entra nella cameretta.


È un po’ più spoglia di quanto immaginerebbe la camera di un bambino, ma ci sono disegni che tappezzano le pareti –proprio sui muri- e dei giocattoli in un cassone aperto nell’angolo. Il letto è un singolo riempito di cuscini (talmente tanti che John si chiede dove esattamente dovrebbe dormire Hamish).


Getta malamente i cuscini a terra e appoggia Hamish a letto, sedendoglisi vicino e facendoselo appoggiare contro per tenerlo al caldo mentre il letto si intiepidisce un pochino. Il problema è che ora Hamish sembra sveglissimo perché si agita, tira i lati del cuscino e se li mette in bocca masticando allegramente guardando John nella penombra e muove energicamente le gambette.


John alza gli occhi al cielo e cerca di districare il cuscino dalle grinfie del piccolo, ma Hamish sembra intenzionato a non demordere e tira, tira il più forte che può e John sta al gioco, reggendo il cuscino e non facendolo muovere di mezzo millimetro, facendo impuntare ancora di più Hamish, che si alza a sedere e tira con entrambe le mani.


Hamish non ride, non emette suoni, ma anche nella penombra John può vedere i suoi occhi brillare di divertimento e, per la prima volta in vita sua, pensa che la parola non sia poi così fondamentale per capirsi.


Alla fine, stando ben attendo a non farlo cadere, John lascia andare il cuscino facendo vincere Hamish che, per tutta risposta, si stringe al cuscino e lo abbraccia, immergendo la faccia nelle federe e rimanendo così per diversi istanti, facendo ridere John di gusto.


«Va bene, va bene, ma ora vediamo di dormire, che ne dici?»


Hamish, sorprendendo John, volta il viso a guardarlo ed annuisce, spostandosi un po’ più vicino a John che lo stringe a sé, guardandolo ancora un attimo sbalordito.


John si schiarisce la gola e gli accarezza la schiena.


«Bene. Bene.» tossisce ancora un attimo ed Hamish si sposta, osservando il soffitto mordendosi un lembo della manica del pigiama.


Il tempo passa, John sente i secondi ticchettare sull’orologio a muro, ma Hamish non sembra più intenzionato a dormire di quanto lo fosse mezz’ora prima e John si chiede cosa fare finché non glie viene un’idea.


Prende il cellulare dalla tasca dei jeans e inizia a fare qualche ricerca, seguito dagli occhi curiosi di Hamish che ne osserva ogni movimento, finché non trova ciò che cercava.


«Ooh bene, perfetto.» John fa adagiare la testa di Hamish sulla propria spalla ed inizia a raccontare. «C’era una volta…»




Ci vogliono due storie –e un leggero mal di gola da parte di John che ha fatto tutte le vocine dei personaggi- prima che Hamish si addormenti, ma la cosa che John non ha previsto era addormentarsi con lui.


«John...» è appena un sussurro, un bisbiglio appena udibile se ci si sforza.


«John.» il dottore si sente scuotere per una spalla e qualcosa gli fa pensare che no, non vuole assolutamente alzarsi. È quando la presa sulla sua spalla si fa più forte –e il suo cervello processa di non essere nel letto del suo appartamento- che John si sveglia del tutto e si volta, afferrando e torcendo la mano che lo sta toccando.


Sherlock storce le labbra ma evita di emettere un suono, poggiando gli occhi su Hamish che dorme beatamente a letto. John lascia immediatamente la presa e si scusa, alzandosi dal letto e controllando di non aver davvero storto il polso dell’altro. Sherlock fa un cenno con la testa e districa la mano, uscendo dalla stanza seguito a ruota da John.


«Scusa, davvero, mi sono addormentato e…»


«John, non c’è problema, anzi. Certo che se fosse entrato qualcuno e fosse stato per te…» Sherlock inarca un sopracciglio e lascia la frase in sospeso, un mezzo sorriso ironico che gli solca le labbra. John vorrebbe tanto spaccargli la faccia.


Sherlock gli fa un cenno e gli indica le scale, iniziando a scendere al piano di sotto. John esita un istante osservando la cameretta di Hamish, decidendo di entrare e salutarlo almeno un’ultima volta. Gli accarezza i capelli e lo copre per bene, scendendo poi a raggiungere Sherlock.


Sherlock appende il cappotto e osserva John raggiungerlo mentre si stiracchia la schiena.


«Non sapevo se lasciarti dormire qui o meno, non ho idea dei tuoi turni all’ambulatorio.» fa Sherlock e John lo osserva, stupito. Sa anche che lavoro che fa, ovviamente.


«Non mi sarei approfittato in questa maniera.» sbadiglia nuovamente e guarda l’orologio che segna –orribilmente- l’una del mattino. «Dio santo, è tardissimo.» poi alza gli occhi verso Sherlock e gli dà un’occhiata sommaria. «E tu stai bene? È andato tutto bene?»


Sherlock lo osserva e sembra incerto su cosa dire. Risponde dopo diversi secondi «Sì, sì, sto bene.»


John annuisce ma non toglie gli occhi da Sherlock, cercando di notare se ci sia qualche segno di qualcosa che non va. Quando sembra soddisfatto sospira, si stropiccia gli occhi con una mano e annuisce.


«Credo sia il caso che vada, devo dormire almeno un paio d’ore.»


Sherlock fa un cenno d’assenso con la testa e prende il portafoglio dalla tasca posteriore degli eleganti pantaloni. John osserva tutto il movimento e poi, quando nota che Sherlock sta per prendere dei soldi e porgerglieli, fa un cenno di diniego con la mano.


«Non li voglio.» e detto questo si avvia a prendere il giubbotto sotto lo sguardo di Sherlock che tiene ancora in mano il portafoglio.


«Non essere ridicolo, sei stato qui fino a quest’ora.»


«Prendilo come un favore da amico ad amico.» John sbadiglia nuovamente ed indossa il giubbotto con calma, preparandosi mentalmente all’aria fresca della notte.


«Ma noi due non siamo amici.»


John si blocca un attimo e pensa che un’affermazione simile non dovrebbe dirgli niente e che –anzi- Sherlock ha ragione, però una sensazione spiacevole gli prende comunque lo stomaco.


«Allora come un favore da conoscente a conoscente.» John sorride a Sherlock ed esce dall’appartamento, finendo sul pianerottolo. «Allora buonanotte.» dice e si avvia lungo le scale, seguito dallo sguardo di Sherlock.




John trova incredibile che non si riesca a trovare un taxi a Londra all’una e un quarto del mattino e cala le mani nelle tasche del giubbotto mentre continua a camminare lungo Baker Street. Fa freddo, a quell’ora, e in giro non c’è praticamente nessuno.


Alla fine propende per chiamare un taxi perché non ce la farebbe a farsi il tragitto a piedi –non quand’è così stanco- quando delle luci lo abbagliano e una macchina gli si ferma accanto.


«Taxi?» chiede il tassista nella macchina e John annuisce, felice di non dover minimamente aspettare.


Sale in macchina e subito sospira per il caldo che lo accoglie e sta per dare l’indirizzo al tassista quando quello parte chiedendogli se la via dove si sta dirigendo sia giusta e John ne rimane sorpreso.

Un bip del cellulare richiama la sua attenzione.


Fatti almeno offrire la corsa in taxi. -SH


John sorride, scuote la testa, rimette il cellulare in tasca senza rispondere e appoggia la testa al finestrino.

Quell’uomo è proprio strano. E forse lui lo è ancora di più a non preoccuparsi di nulla.




***



John ha avuto una giornata stancante in ambulatorio e l’unica cosa che vuole ora è cadere a letto, disteso e addormentato come fosse in coma farmacologico, per le prossime dodici ore. Ha coperto per tre giorni consecutivi i turni di due medici ammalati (Sarah si è rifiutata di prendere altri sostituti) e ha dovuto fare un turno all’ospedale –cosa che gli porterà molti più soldi e potrà non tirare la cinghia almeno per questo mese- che gli ha ammazzato la schiena e affaticato la gamba. Ed è per questo che, arrivato al suo monolocale, l’unica cosa che riesce a fare è mangiare un sandwich avanzato nel frigo dal giorno prima, una rapida doccia per togliersi di dosso l’odore di disinfettante e crollare a letto, addormentandosi quasi istantaneamente alle otto e mezza di sera.


Un rumore assordante lo fa svegliare nel bel mezzo della notte –l’orologio che fa fatica a leggere con gli occhi ancora semi chiusi segna le undici e mezza- e lui maledice se stesso per aver lasciato il cellulare acceso e con la suoneria e chi lo sta chiamando al momento.


Alza la mano e la poggia alla cieca sul comodino, cercando il cellulare a tentoni.


«Pronto?» biascica, senza aver nemmeno guardato il mittente della chiamata.


«John. Finalmente rispondi, devo avere un’informazione.»


Buonasera anche a te, Sherlock. Come stai? Io bene, grazie per averlo chiesto. Come mai ho la voce impastata dal sonno, dici? Oh, solo perché stavo dormendo dopo dei turni massacranti, non ti preoccupare.


«Mhh.» è l’unica cosa che riesce a farsi venir fuori dalla bocca, alzandosi a sedere sul letto e stropicciandosi gli occhi. Proprio ora? Vorrebbe chiedere, appoggiandosi alla testiera e vorrebbe solo tornare a dormire.


«Hamish…» inizia Sherlock e John si mette tutto orecchi, preoccupato che sia successo qualcosa «Ha un comportamento strano da quando te ne sei andato, continua a prendermi il telefono e porgermelo la sera e io non ho idea di che cosa questo stia a significare e ti informo che detesto non sapere cosa dover fare. Ho supposto, e a ragione, che la cosa debba avere a che fare con te, siccome ha questo comportamento da tre giorni.»


John ha capito a malapena l’inizio e la fine del discorso, ancora troppo assonnato per reggere la velocità a cui parla Sherlock, ma cerca di collegare le sinapsi e sforzarsi di ricordare un qualsiasi motivo che potrebbe spingere Hamish a passare il cellulare a suo padre.

E quando John capisce sorride.


«Vuole che gli leggi una favola della buona notte.»


Dall’altra parte gli risponde il silenzio.


«Sherlock, sei ancora in linea?»


«Ah.» è l’unica e squisitamente colorata risposta. Passano altri secondi e John non sa esattamente cosa dovrebbe fare, salutare e mettere giù? Mettere giù e basta? Rificcarsi sotto le coperte e dire ciao al mondo fino al giorno dopo?


«Io non ho mai fatto una cosa del genere. Non sono bravo in queste cose.» e forse è John che si sta facendo qualche strano viaggio mentale, ma gli sembra che l’ammissione sia costata parecchio a Sherlock.


«Come fai a sapere di non essere bravo in queste cose se non hai mai provato?»


Uno sbuffo dall’altra parte del ricevitore gli fa capire che Sherlock non risponderà a quella domanda.


«Beh, grazie per il tuo tempo John. Sarà meglio che andiamo a-»


«Metti il vivavoce.»


John si chiede che diavolo gli passi per la testa e si mette una mano sugli occhi, massaggiandosi poi le tempie e domandandosi che fine abbia fatto la sua ragione ma soprattutto il suo sonno, ormai passato.


«Come?» è l’unica, quasi comica domanda che pone l’altro.


«Metti il vivavoce prima che cambi idea.» si limita a rispondere, pensando velocemente ad una storia piuttosto corta da poter raccontare.

Sente dei rumori dall’altra parte del telefono e poi il segnale farsi più distorto, i suoni più attutiti.


«Hamish, ci sei?»


«Dove vuoi che sia?»


«Shhh, non parlo con te.» John si schiarisce la gola e riprova. «Hamish, sono John, se ci sei batti un colpetto con la manina.» un suono fa capolino dal ricevitore e John sorride. «Bene. Allora, c’era una volta…»


«Potrei aver colpito io il telefono.»


«Ma vuoi stare zitto?» John sbraita contro il telefono, iniziando a perdere la pazienza contro la sola voce dell’altro: se lo avesse tra le mani gli lancerebbe dietro qualcosa, o lo strangolerebbe, almeno forse rimarrebbe in silenzio.


Riesce addirittura a sentirlo brontolare piano. Quell’uomo è sempre più assurdo.


Si schiarisce di nuovo la gola e riprende dall’inizio.


«C’era una volta un principe felice…»


E John continua a raccontare e raccontare, racconta tutti i dettagli che riesce a ricordare della storia e fa le voci di ogni personaggio presente in essa, improvvisando discorsi che non si ricorda ma cercando comunque di non perdere il filo del discorso.


Arrivato alla fine è curioso di sapere se Hamish abbia apprezzato o meno ma per qualche istante gli risponde solo il silenzio.


«Si è addormentato?» chiede a bassa voce, sperando che qualcuno lo stia ascoltando dall’altra parte della linea.

La voce di Sherlock arriva chiara e forte al suo orecchio, deve aver tolto il viva voce.


«Sì, almeno mezz’ora fa.»


John aggrotta le sopracciglia e sospira di frustrazione. «E io per chi continuavo a parlare?»


E John non può assolutamente vedere il sorriso che fa Sherlock, ma in un modo o nell’altro può sentirlo.


«Volevo sapere se il Principe e la Rondine sarebbero riusciti a raggiungere il Paradiso.»





Sono le due e John continua a fissare il soffitto. È stanco, è ovvio che sia ancora stanco, ma non riesce più a chiudere occhio da quando ha messo giù la chiamata con Sherlock.


Ciò che vuole fare è stupido, altamente autodistruttivo, soprattutto per se stesso, ma alla fine quale potrebbe mai essere il problema? Si sono visti a malapena due volte.


John prende nuovamente il cellulare in mano e cerca in rubrica il nome di Sherlock, scegliendolo come destinatario del suo messaggio.

Compone, sospira e preme invio.


Potresti almeno offrirmi una cena dopo tutti i favori che ti sto facendo. Ma soprattutto dopo avermi svegliato mentre stavo dormendo così bene. JW


Poggia il cellulare sul comodino e si maledice mezzo secondo dopo, probabilmente la mattina –dopo ma soprattutto se riuscirà a dormire almeno un altro paio d’ore- si renderà conto della grande cazzata che ha fatto e se ne pentirà ulteriormente.


Il bip del cellulare lo fa voltare di scatto. Non si aspettava una risposta così immediata. Cosa ci fa ancora sveglio a quell’ora del mattino?

Prende il telefono e vede l’icona a forma di busta lampeggiare minacciosa. Sospira e la apre, tanto vale avere brutte notizie subito piuttosto che aspettare.


Sta per aprire il primo messaggio quando gliene arriva un altro, il bip lo fa trasalire così tanto nella notte quieta che decide di metterlo finalmente in modalità silenziosa.

Il primo messaggio è breve. Coinciso.


Dormire. Dormire è noioso. -SH


Il ché fa inarcare un sopracciglio a John in modo scettico. Il secondo invece lo fa quasi strozzare con la propria saliva.


Domani sera 7.30. Baker Street. -SH


Sherlock non chiede se gli va bene. Non chiede se ha da fare. Non chiede nulla ma semplicemente pretende e dà ordini.


John rotea nuovamente gli occhi e sospira. Non sarà il miglior invito della sua vita, ma è già qualcosa.

Non dà la soddisfazione a Sherlock di rispondergli, appoggia il cellulare nuovamente sul comodino, si volta su un fianco dando la schiena al mondo e si addormenta.



***



Sherlock quella mattina è al microscopio ad analizzare della cenere ritrovata su una scena del crimine mentre Hamish gioca con le macchinine in mezzo al soggiorno. Il rumore delle automobiline che sbattono l’una contro l’altra dovrebbe infastidirlo –e all’inizio era così- ma in realtà lo rilassa, è un suono rassicurante che gli ricorda che Hamish è lì ed è al sicuro, tranquillo, e ormai Sherlock assorbe quel suono come un rumore benigno e riesce a non farsi distrarre dal lavoro che sta portando avanti.


Ciò che lo distrae invece è proprio l’assenza improvvisa di quel suono e il rumore di piccoli passi che gli si avvicinano.

Hamish gli si è portato vicino e lo sta guardando con i suoi enormi occhi blu. Sherlock gli sorride.


«Ehi. Cosa c’è, hai fame?» suo figlio ha decisamente più appetito di quanto ne avessero lui e sua madre.


Hamish fa di no con la testa e alza una manina, poggiando la sua macchinina preferita –un modellino di Ferrari rosso fiammante- vicino il braccio di Sherlock, che osserva l’automobilina senza capire. La prende in mano e la rigira, cercando di vedere se si sia magari rotta o ci sia qualcosa che non vada, ma la macchinina è a posto come sempre e così la riappoggia. Hamish continua a guardarlo.


Sherlock è dubbioso su cosa fare, finché non crede di capire.


«È per me?» chiede, e Hamish annuisce. «Grazie.» si ritrova a dire, accarezzando lievemente la zazzera del figlio. Lui non è tipo da ringraziamenti o altre buffonate simili, ma gli han fatto presente di dover insegnare un’educazione come minimo accettabile a Hamish e così cerca di essere il più possibile composto almeno in sua presenza.


Sherlock si rimette a lavorare al microscopio ma continua a sentirsi osservato. Hamish continua a guardarlo con occhi grandi e speranzosi e Sherlock si ritrova davvero in difficoltà, non ha idea di cos’altro dovrebbe fare.

Hamish abbassa lo sguardo sconsolato, la bocca poco prima quasi sorridente che si stende in una linea triste. Riprende la macchinina che ha lasciato a Sherlock e si va a sedere questa volta ai piedi del divano, sbattendo nuovamente le macchinine tra loro, la schiena curva ma in un modo diverso da quando stava giocando poco prima.

Sherlock lo fissa, lo osserva, e poi, finalmente, capisce.


Lascia l’esperimento a se stesso e si alza dirigendosi verso il soggiorno, chinandosi vicino al figlio e incrociando le lunghe gambe. Hamish alza lo sguardo verso Sherlock, speranzoso, e Sherlock prende in mano la macchinina che Hamish gli ha porto prima e la fa andare a sbattere contro quella del figlio.


«Bam.» dice, ed Hamish sorride con gli occhi e gioca col padre per la prima volta nella sua vita.




John sta visitando una paziente –una signora di 86 anni che ha cambiato medico solo negli ultimi mesi- che lamenta un male alla gamba che non la fa dormire la notte e chiede delle pillole per dormire per il marito che soffre d’insonnia.


John ha ascoltato tutto quello che la donna aveva da dire. Ha ascoltato le sue lamentele sul dottore che aveva prima di lui, l’incompetenza delle infermiere che non credevano ai suoi dolori, l’irritazione del sentirsi trattare non come una persona ma come una bambina demente solo per la sua età mentre lei capiva tutto e lo capiva benissimo.


John ha sorriso a tutto e le ha confermato che alla sua età è molto più sveglia di quanto potrebbe esserlo. La donna gli ha sorriso benevola e gli ha intimato di smetterla di lodarla perché lei è già sposata. John ha riso forte.


La aiuta a scendere dal lettino e la accompagna alla sedia dinnanzi la scrivania, iniziando a prescrivere degli antinfiammatori per lei e fissando un appuntamento per una visita domiciliare per il marito, siccome l’uomo non si può muovere.


Sia lui che la paziente però vengono distratti da un rumore che si avvicina alla stanza e da Janeatte –la segretaria- che strepita qualcosa. John non rimane così sorpreso quando la porta dello studio viene aperta, rimane più che altro sorpreso dal chi gli si presenta davanti.


«John!»


E John si chiede se per caso una frase di Sherlock possa o meno iniziare senza un tono urgente. E poi John si chiede se possa o meno venire arrestato per tentato omicidio.


Il dottore si volta a guardare Hamish in braccio a Sherlock che gli sorride –e lui non riesce a evitarsi di rivolgergli lo stesso sorriso caloroso- e poi verso Jeanette che sta cercando in tutti i modi di scusarsi per non essere riuscita a fermare l’uomo che ha davanti e John le fa un cenno con la mano. «Tutto a posto, è un mio conoscente.» Sherlock a quell’affermazione si volta e lo guarda in maniera strana, ma John non ha il tempo di fermarsi a decifrare l’altro e si rivolge nuovamente alla segretaria. «Vai pure, me ne occupo io.» lei annuisce, non sembrando però prettamente convinta, ed esce, chiudendo la porta dietro di sé lasciando la stanza in un silenzio denso.


«Ma si può sapere che dia-?!» John si ferma prima di continuare la frase perché è in presenza di un bambino e di una sua paziente. «Si può sapere cosa ci fai qui? Sto lavorando.»


«Ho necessità che tu mi tenga Hamish.»


John sgrana gli occhi e lo guarda come se fosse impazzito.


«Sherlock, sto lavorando. Non puoi piombarmi sul lavoro per chiedermi di fare da babysitter.» il tono cerca di essere calmo e mite ma la voce gli trema vagamente per la rabbia. Diavolo, non può essere così stupido!


«Tutto l’occorrente è nel suo zainetto, lo sai che è un bambino tranquillo. Mi ha chiamato Lestrade poco fa, non ho a chi lasciarlo e mi hanno tassativamente impedito di portarlo sulle scene del crimine.»


John alza entrambe le sopracciglia e lo guarda stupito. Hanno dovuto impedirglielo? Non è una cosa piuttosto ovvia da non fare?


John si volta verso la sua paziente e le chiede scusa per il disagio.


«Ma no, si figuri, almeno avrò cosa raccontare a mio marito quando torno a casa. Ehi piccolino, la vuoi una caramella?»


La signora apre la borsetta che ha sempre avuto appoggiata in grembo e inizia a frugarci dentro alla ricerca della suddetta caramella, che poi porge ad Hamish. Il bambino si ritrae e si nasconde nell’incavo del collo di Sherlock.


«È un bambino timido.» fa John, avvicinandosi a Sherlock e prendendogli Hamish dalle braccia che non fa storie e, anzi, avvolge le mani attorno al suo collo. «Su, Hamish, prendi la caramella dalla signora.» il bambino scuote la testa e non alza gli occhi dalla spalla di John.


«Non è un insegnamento sbagliato, questo?» osa chiedere Sherlock in tono sarcastico. John gli lancia un’occhiataccia.


«Su, Hamish, prendi la caramello che io ti sto dicendo di prendere dalla signora.» John lo sfida con lo sguardo a ribattere ma Sherlock sembra soddisfatto, così non dice nulla continuando a fissarlo.


Hamish, sotto lo sguardo attonito di entrambi a dirla tutta, si alza dalla spalla di John e porge la manina sulla quale la donna appoggia la caramella sorridendogli. E Hamish le fa un sorriso timidissimo di rimando.


«È proprio un bel bambino.» annuncia la donna e Sherlock sta per ribattere qualcosa ma lo sguardo di John lo ferma.

John sospira e pensa che è terribilmente in ritardo sulla tabella di marcia e di dover fare qualcosa subito.

Si avvicina a Sherlock e, tentando di non farsi sentire né dalla paziente né da Hamish, va a sussurrargli all’orecchio.


«Questa te la farò pagare. Che sia la prima ed ultima volta che piombi qui in questa maniera, chiaro?»


Si allontana da Sherlock che lo guarda sorridendo. Il bastardo.


«Ci vediamo questa sera.» fa Sherlock prima di voltarsi per andarsene.


«Ehi!» lo ferma John, facendo tornare l’altro sui suoi passi con fare sorpreso. «Non stai dimenticando di salutare qualcuno?» e la domanda è ovviamente retorica. Hamish sta guardando Sherlock con gli occhioni blu rivolti a lui e solo a lui, una manina stretta attorno al camice di John e l’altra al proprio petto.

John nota l’espressione di Sherlock mutare per qualche istante, ma la cosa dura talmente poco che non è così sicuro di averlo notato veramente.


Sherlock li raggiunge in due ampie falcate e poggia un bacio sulla testa del figlio, accarezzandogli i capelli.


«Ci vediamo questa sera.» ripete, stavolta con tono serio e guardando negli occhi Hamish che annuisce, poggiandosi nuovamente al collo di John.


Prima di uscire dalla stanza però, John nota che Sherlock sta dando un’occhiata piuttosto lunga alla sua paziente e sa benissimo cosa ha intenzione di fare, e non glielo permetterà. Non con una povera donna di 86 anni.


«Fossi in lei io farei una TA-»


«Fuori, Sherlock!»


E Sherlock è fuori dalla stanza prima che John possa dire qualcos’altro. John si ritrova a sbuffare, seccato.


Sfila lo zainetto dalle braccia di Hamish e lo appoggia a terra, sedendosi sulla propria poltrona con Hamish ancora abbarbicatogli sul collo.


«Mi dispiace per questa scena, signora Stevenson.» la donna lo guarda, sorridendo allegra.


«Il suo compagno sembra un tipino tosto.» afferma convinta e John fa per ribattere quando la donna continua «Comunque è davvero un bel bambino. Sa, i miei figli non mi hanno mai dato dei nipotini, e questo secondo me è…» la donna va avanti a parlare della sua famiglia per almeno altri cinque minuti, e John sfrutta quel tempo per finire le ricette e l’appuntamento per il marito.




John ha chiesto alla segretaria di avere cinque minuti di pausa –nonostante sia già fortemente in ritardo-e la donna ha annuito, spostando qualche paziente ad un altro medico fortunatamente presente lì quel giorno.


Dentro lo zainetto John trova delle merendine, le fidate macchinine di Hamish, qualche foglio da disegno con relative matite, dei fazzolettini e un maglioncino. Si chiede per un attimo se Hamish starà buono tutto il pomeriggio ma finisce col rassicurarsi da solo perché davvero sembra sia un bambino con poche pretese.


Hamish si è seduto a terra, ha preso le sue macchinine e ha iniziato a giocare senza disturbare. John gli ha fatto una carezza per fargli capire che è davvero bravo.

Sta per far entrare un paziente quando un bip lo fa fermare –perché sa chi è, non potrebbe essere nessun altro- e gli fa prendere il telefono fuori dal camice. Ovviamente è Sherlock.


Le chiavi sono nella tasca interna dello zainetto, ci vediamo a casa. –SH


Casa, pensa John. Lui è da tanto tempo che non ha una sistemazione che può davvero definire così.




Hamish ha finito con l’addormentarsi a terra e John ha dovuto prenderlo di peso e poggiarlo sul lettino, coprendolo come meglio poteva col proprio giubbotto, scusandosi con i pazienti per il disturbo. Fortunatamente nessuno di loro sembrava seccato dalla cosa e nessuno di loro sembrava aver bisogno del lettino.


Il suo turno finisce una mezzora più tardi quel giorno –ha dovuto prolungare l’orario per dedicarsi a tutti i pazienti- e quando escono dallo studio fuori è già buio pesto e l’aria novembrina si è alzata abbastanza da far sentire freddo perfino a John.


Hamish ha gli occhi assonnati –ha dovuto svegliarlo, alla fine- e la camminata lenta e stanca, così John lo prende nuovamente in braccio e si fa forza col bastone per camminare.

Prima però, quando Sherlock gli ha portato Hamish nel primo pomeriggio, si è alzato di scatto dalla poltrona senza pensarci due volte e ha continuato a stare in piedi e a camminare senza bastone fin quando non l’ha trovato poggiato contro il muro, inutilizzato.


Non ha particolarmente voglia di pensarci adesso, ora devono andare a Baker Street.


Hamish gli si appoggia addosso e gli mette una mano sulla bocca. John gli fa le pernacchie e Hamish sorride.




Le sette e mezza sono passate da diverso tempo e di Sherlock non c’è nemmeno l’ombra.
John non sa bene cosa fare: scrivergli? Non scrivergli? Dare da mangiare a Hamish? Aspettare ancora un attimo? Fortunatamente Hamish non sembra molto affamato così, almeno per quello, può tirare un sospiro di sollievo decidendo di aspettare ancora una mezz’ora e poi, nel caso, fargli da mangiare e metterlo a letto.




Sono quasi le dieci quando John sente un rumore provenire dal portone di sotto.

Alla fine non ha scritto a Sherlock, troppo in ansia che gli potesse accadere qualcosa per uno stupido messaggio udito da orecchie non desiderate, così è rimasto in pena per quasi due ore e mezzo e adesso si sente quasi più arrabbiato che altro.

Hamish, che si è disteso sulle gambe di John quando il dottore si è seduto sul divano, alza la testa dal petto confortante dell’altro e dà un’occhiata alla porta. Deve aver sentito anche lui il rumore assordante del portone che viene sbattuto e i passi rapidi su per le scale.


«Sì, Hamish, è proprio papà.» gli dice John con le labbra poggiate su una tempia del piccolo, che sorride per il fiato tiepido sulla pelle.


John si alza dal divano e prende Hamish con sé, facendo un paio di passi in direzione della corsa di Sherlock che sale le scale. E poi eccolo lì, Sherlock, mentre apre malamente la porta senza nemmeno pensare che Hamish potesse star dormendo o che potesse prendere paura dal rumore –anche se probabilmente Hamish è abituato alla situazione, pensa John- con un sorriso trionfante in viso e la gioia dipinta in faccia.


«Un caso eccezionale, ci saresti dovuto essere.» è la prima cosa che dice, senza informarsi di altro e prendendo Hamish dalle braccia di John, facendolo volteggiare in aria per tutto il soggiorno mentre il bambino sembra proprio il più sorpreso nella stanza. Sherlock lo abbassa ad altezza viso e gli lascia un bacio sulla fronte. «Papà è a casa, Hamish.» annuncia gioioso guardandolo negli occhi e Hamish lo osserva di rimando, allungando poi una manina per toccandogli la guancia e il naso. Hamish alla fine annuisce, come se si fosse accertato che il papà sta bene.


Sarebbe un eufemismo dire che John è sorpreso. È la prima volta che vede un accenno di affetto veramente plateale tra i due e per un attimo si dimentica che è così che si dovrebbero comportare padre e figlio e non come vede di solito comportarsi i due.


«Dove diavolo sei stato? Potevi almeno mandare un messaggio.» sbotta, prima ancora di chiedere altro e avvicinandosi con passo marziale. Evidentemente Sherlock si è solo divertito e non ha riportato nemmeno un graffio (il che è meglio, decisamente meglio), quindi può sfogare almeno un po’ della sua ansia urlandogli contro.


Sherlock si volta, sorpreso del tono usato dall’altro e appoggiando Hamish a terra, che torna verso il divano dove ha lasciato dei disegni che ha fatto nel pomeriggio per portarli al padre così da farglieli vedere.


«Caso?» e quella che per Sherlock doveva essere un’affermazione giunge invece come una domanda, una strana frase che sotto sotto vuole semplicemente dire non è ovvio? E John vorrebbe dirgli che sì, è ovvio, era una domanda retorica ma finiscono solo col guardarsi e parlarsi silenziosamente tramite gli sguardi accusatori di uno e quelli straniti dell’altro.


Poi Sherlock alza una mano per mostrare una busta che John non ha minimamente notato prima. «Cinese?» offre, con uno dei sorrisi più belli e gioiosi che John abbia mai visto in vita sua. E da qualche parte nella sua testa sa che Sherlock sta semplicemente facendo lo splendido e che dovrebbe continuare ad essere arrabbiato perché –diavolo!- un messaggio non avrebbe ucciso nessuno. Forse.


John comunque continua con l’aria crucciata e l’espressione di Sherlock si fa un po’ dubbiosa. Alla fine il dottore chiude la distanza che li separa in poche falcate e gli punta un dito sul petto. «Sarà meglio per te che lì dentro ci siano degli involtini primavera o non la passerai così liscia, Sherlock Holmes.» e detto ciò gli prende il sacchetto dalle mani e si volta verso la cucina per andare a prendere i piatti, con gli occhi di Sherlock che –lo sente- lo stanno fissando. «E spera anche che non sia diventato tutta una melma indistinta per il volo che hai fatto fare a quel sacchetto. Comunque sia, per informazione, tuo figlio ha già mangiato.» e detto ciò apre la credenza, mentre Hamish arriva da Sherlock e gli tira un lembo del lungo cappotto per richiamare la sua attenzione. Il detective fa un leggero sorriso, si volta e si abbassa sui talloni per guardare Hamish negli occhi, il bambino gli porge i disegni.


È ancora troppo piccolo per fare disegni comprensibili –e Sherlock non ha cuore di dirgli che il Sole non ha una faccia sorridente. E poi chi l’ha mai detto che non ce l’ha?- ma di sicuro quello, con tutto quel verde, è un prato, e quelle disegnate sopra sono sicuramente quattro persone: lui, Hamish, John e la signora Hudson, poco più indietro che sta –probabilmente- dando da mangiare a degli animali immaginari con sei zampe.


«È bellissimo, Hamish.» Sherlock non è mai andato con Hamish al parco e la signora Hudson ha avuto spesso male all’anca ultimamente per potercelo portare. Sherlock dovrà rimediare alla cosa.

Il detective si alza appena sente il suono dei piatti poggiati sulla tavola, passa una mano delicatamente tra i capelli del figlio e poi si dirige in cucina, appendendo il disegno con una calamita a forma di teschio.


«Ho pensato fosse meglio farlo disegnare su un foglio piuttosto che sui muri.» dice John in un tono tra il serio e il divertito, senza voltarsi verso di lui mentre prende le bacchette dal sacchetto di plastica e le pulisce con un tovagliolo (alla fine un po’ di salsa di soia è uscita dal contenitore, sporcandole).


Sherlock vorrebbe avvicinarsi e passare una mano tra i capelli biondi di John, in una carezza simile ma allo stesso modo diversa da quella fatta a Hamish, per dire anche a lui che ha fatto bene, che è stato bravo. Ma John non è un bambino, John è un adulto, così Sherlock si limita ad annuire e ringraziare, prendendo posto al tavolo. John chiama Hamish e lo fa sedere al tavolo con loro, mettendogli un tovagliolo attorno al collo per fargli assaggiare del pollo al limone nonostante abbia mangiato poche ore prima. Hamish sembra entusiasta della sistemazione a tavola con loro e Sherlock si ritrova a pensare di non aver mai mangiato con suo figlio. Hanno orari totalmente diversi, e Sherlock mangia molto poco e non così spesso quanto sarebbe giusto, così si è sempre limitato a far mangiare Hamish ma non ha mai mangiato con lui. Eppure Hamish sembra entusiasta della cosa perché continua a guardarsi intorno e sorridere, prendendo la forchetta e sbattendola forte contro il piatto. E Sherlock è talmente incantato da tutto questo che è John a dover fermare Hamish dal rompere le stoviglie.




Hamish si è addormentato sul divano mentre guardava i cartoni animati e Sherlock lo prende in braccio, poggiandoselo delicatamente addosso per portarlo nella sua cameretta. John si mette il giubbotto e si fa accompagnare sul pianerottolo da Sherlock.


C’è una strana tensione tra loro, qualcosa di detto e non detto, qualcosa come immagino non sia questa la cena che speravi e un è stato perfetto così, davvero.


John alza una mano e va a scompigliare i capelli di Hamish per salutarlo e il bambino apre momentaneamente gli occhi, alzando una manina e muovendo i ditini per salutarlo, facendo poi ricadere il braccio al suo fianco riaddormentandosi immediatamente. John sente il cuore scaldarglisi.


«La prossima volta vedi di non piombarmi sul lavoro.» dice, riportando lo sguardo a Sherlock che lo sta guardando di rimando. «E sono serio, vedi almeno di mandarmi un messaggio prima.»


Sherlock annuisce, ma John non si sente poi così sicuro del non ritrovarselo al lavoro senza preavviso.

Il dottore posa gli occhi nuovamente su Hamish e dice la prima cosa che gli viene in mente, così, giusto per continuare a stare un po’ nel caldo atrio del 221B.


«Dovresti mandarlo a dormire prima. All’asilo si addormenterà sul banco.»


Sherlock passa lo sguardo da John a Hamish e nuovamente a John.


«Hamish non va all’asilo.»


John alza gli occhi dal bambino e li porta a quelli di Sherlock. «No?»


Sherlock scuote la testa. «Lo teniamo io e la signora Hudson, in fin dei conti lei è in pensione e le fa piacere avere Hamish in giro per casa.»


John fa un cenno di assenso ma sente che c’è qualcosa che vorrebbe dire, anche se non sa se poterlo fare o meno. Si guarda pensierosamente attorno e pensa a come iniziare il discorso senza sembrare troppo brusco.

Sherlock sospira e lo invita a proseguire.

John lo fa.


«Io non voglio dirti come crescere Hamish, Sherlock, spero che tu questo lo sappia, ma sono convinto che a Hamish farebbe bene passare del tempo con altri bambini. Tentare di vincere la sua timidezza e fare amicizia con qualcuno al di fuori del nucleo famigliare.»


Ed è in quel momento –assurdo da pensare, quantomeno per un dottore- che John registra il fatto che non c’è nessuna madre. Sherlock non ne ha mai fatto menzione e non l’ha nominata nemmeno ora, parlando di chi tiene Hamish al mattino.


Sherlock pare ascoltare attentamente quello che John ha da dire, ma scuote comunque la testa all’idea. «È un discorso troppo lungo da poter portare avanti qui e a quest’ora.» si limita a dire e John, non sa come, è convinto che si sia trattenuto dall’insultarlo e dirgli di farsi i fatti suoi.


John quindi annuisce, sembrando imbarazzato. «Certo, non so bene come stiano le cose, in fin dei conti.»


Cala un silenzio piuttosto teso tra di loro ma non teso come quello di prima, questo è qualcosa di quasi fastidioso.


John nota con la coda dell’occhio che Sherlock sta tentando di cambiare braccio per tenere suo figlio e, nonostante Hamish non sia molto pesante, tenerlo costantemente in braccio è comunque faticoso dopo un po’, dunque è meglio che se ne vada e li lasci in pace.

Prende fuori le chiavi che gli ha lasciato Sherlock e gliele porge ma Sherlock nega con un cenno della testa.


«Sono tue.» e a quelle parole John alza un sopracciglio.


«Scusa?»


«Tienile.» dice semplicemente ma John continua a non sembrare molto convinto, così Sherlock sbuffa e prosegue in una spiegazione che non voleva dare. «È inutile che te le lasci ogni volta che ti porto Hamish, e se me le dimenticassi perché troppo di fretta? No, tienile, in fondo siamo amici, no?» e John sente la parola “amici” entrargli fin dentro le ossa e riscaldargli il corpo.

Allora lo sguardo del pomeriggio era perché gli aveva dato del conoscente.


«Ah, non siamo più conoscenti?» dice sorridendo –forse un po’ troppo- e Sherlock si limita a far spallucce. E John evita di far notare che comunque gli amici non si scambiano le chiavi di casa e forse dovrebbe insistere ulteriormente, ma alla fine decide per rimettersele nella tasca del giubbotto per aggiungerle dopo alle chiavi del proprio monolocale.




È a metà di Baker Street –in cerca di un taxi- quando si rende conto di essersi dimenticato qualcosa a casa di Sherlock. Impreca e si domanda cosa dovrebbe fare, se tornare indietro subito e chiedere scusa per il disturbo o lasciar stare e ripassare il giorno dopo. Però è ancora lì, cinque minuti e sarebbe di ritorno, troppo poco tempo per far addormentare una persona, giusto? Sherlock sarebbe stato sicuramente ancora sveglio, quindi magari poteva...


Prima ancora di accorgersene John è tornato sui suoi passi.


La domanda che ora gli preme è quella del se suonare o usare le chiavi, ma il dubbio gli preme per meno di mezzo secondo, decidendo di usare le chiavi per non svegliare Hamish e chiedere immediatamente scusa a Sherlock.

Sherlock che lo sta evidentemente aspettando nell’atrio con la schiena poggiata al muro mentre lancia il bastone di John in aria e lo riprende con innaturale grazia nemmeno fosse una cheerleader.


«Mi chiedevo quando te ne saresti accorto. Sei di almeno tre minuti in ritardo sulla mia tabella di marcia.» gli dice senza nemmeno guardarlo, continuando a tenere lo sguardo sul bastone che continua a far volteggiare.

John lo guarda stupefatto e con un senso di irritazione in fondo allo stomaco, dovuta non sa nemmeno lui bene a cosa.

«Credi di farla finita con questo?» fa Sherlock, mentre riprende il bastone con mano salda e lo mostra a John. «Un ex medico militare come te dovrebbe riuscire a gestire un disturbo psicosomatico come questo. E a giudicare da quanto ci hai messo ad accorgerti della sua assenza…» Sherlock non finisce la frase e finalmente volge lo sguardo a John, un sorriso sghembo che gli fa sorridere anche gli occhi.


John non toglie gli occhi dal bastone che per pochi secondi –giusto per guardare quegli occhi impossibili- e si schiarisce la gola.

«L’hai premeditato?»

Sherlock alza gli occhi al cielo e con una spinta del bacino si alza dal muro, raggiungendo John e porgendogli il bastone.

«Premeditato, John, che brutta parola. Un omicidio si può premeditare. Il fatto che tu dimentichi il bastone in un angolo e io lo chiuda in una stanza per togliertelo dalla vista, così da non farti ricordare della sua esistenza… beh, questo piuttosto è un favore

E nonostante tutto John ghigna, prendendo il suo bastone dalle mani di Sherlock.


«Sai…» inizia il dottore «Avresti avuto un futuro come cheerleader se non avessi voluto fare il consulente investigativo.»


Sherlock alza il mento con fare fiero e poi fa un piccolo inchino. «Ho talmente tante doti nascoste che non ti basterebbe una vita per scoprirle tutte.»


John fa un sorriso che vuole intendere mille cose, tra cui lasciami provare e li scoprirei tutti, e poi scuote la testa, divertito. Sherlock lo guarda e sembra volergli dire qualcosa, ma John sorride, scuote la testa ulteriormente e se ne va senza aggiungere altro.


Al primo cassonetto John butta via il bastone.











NOTE:

Buonsalve a tutti <3

Sono mezza influenzata e quindi per me il mese di febbraio è un nope totale verso la buona salute. Sigh.

Comunque, qualcuno pensava ad una Parentlock? XD


Per info, la storia che John legge a Hamish esiste davvero ed è “Il Principe Felice” di Oscar Wilde, qui il wikipedia della storia http://it.wikipedia.org/wiki/Il_principe_felice e qui il link a YouTube per il cartone https://www.youtube.com/watch?v=CBreC6Kw2G0 (motivo per cui in realtà io conosco la storia siccome a 5 anni avevo le cassette XD)







   
 
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