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Autore: minervalennon    19/02/2015    2 recensioni
La storia è un racconto basato sullaa meravigliosa "Luci a san Siro", di Roberto Vecchioni. Chiaramente può leggerla anche chi non conosce la canzone...
È la storia di un ragazzino, questa, cresciuto nella periferia milanese, e del suo amore per Matilde, la vicina di casa che ha il potere di togliergli il fiato e illuminargli gli occhi. È la storia del loro amore sbagliato e destinato a non durare, ma è, soprattutto, la storia di un'adolescenza trascorsa a sognare, a fantasticare grazie ai libri e alla musica.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~~. A chi, durante quel festival di san Remo di quattro anni fa, per Vecchioni ha fatto il tifo, perché la sua “chiammami ancora amore” era poesia pura e null’altro.

Luci a san Siro

Hanno ragione, hanno ragione
mi han detto:"E' vecchio tutto quello che lei fa,
parli di donne da buon costume,
di questo han voglia se non l'ha capito già"
E che gli dico:"Guardi non posso, io quando ho
amato
ho amato dentro gli occhi suoi,
magari anche fra le sue braccia
ma ho sempre pianto per la sua felicità"

Si era presentato alla casa discografica con una cartella voluminosa sotto il braccio. C'erano tutti i suoi brani, lì dentro, con sia i testi sia le partiture ricopiate diligentemente a macchina.
Quei fogli racchiudevano tanto: ricordi, lacrime, rimpianti, voli di fantasia. C'era, in breve, tutta la sua adolescenza spesa a sognare, a evocare gli occhi di una ragazza reale ed idealizzata insieme, ad innamorarsi di ogni riga letta nei libri di latino e greco. E adesso stava consegnando ogni sua speranza a quei produttori discografici, che avrebbero sezionato ogni nota, ogni sospiro di quelle sue ballate che, già lo sapeva, sarebbero risultate loro incomprensibili e mielose, piene  di buoni sentimenti e piuttosto fuorimoda.
Quando un signore dalle mani grandi e gli occhi infossati prese la sua cartellina e gli chiese di suonare qualcosa, lui si sedette al piano ed eseguì i brani a lui più cari con dita tremanti e voce incerta.
Cantò  storie fatte d'amore e mitologia, canzoni di rabbia e di stelle, ideate durante pomeriggi in cui studiare gli era semplicemente intollerabile e aveva dentro un mare di poesia, che voleva soltanto mettere per iscritto.
Quando finì d'interpretare l'ultima ballata, un pezzo che parlava di un amore che forse, a pensarci, era proprio il suo, l'uomo che lo stava a sentire lo guardò con occhi quasi feroci.
"Vogliamo il rock, noi. Vogliamo giri di basso vertiginosi, parole dure, temi che piacciano ai giovani. Chi crede che potrebbe comprare una canzone che parli di Aiace, eh? Oh, ma sicuramente gli adolescenti faranno la fila per acquistare un disco in cui ci sono ballate che rivisitano la storia d'amore fra Orfeo ed Euridice!", esclamò con evidente sarcasmo.
"E poi tutte quelle ragazze di cui scrive sono così... brave, pure, angeliche! Ne abbiamo abbastanza di Gino Paoli e di quei cantautori bacchettoni! I ragazzi vogliono sentir parlare di prostitute, di degrado, di sesso a buon mercato, non di storie d'amore fra scolaretti! Ci sono cantautori come Guccini, là fuori, che descrivono la realtà nuda e cruda, usando addirittura un linguaggio colorito! E lei mi viene a parlare di Orfeo ed Euridice..."
Il produttore discografico aveva un tono schifato e al ragazzo fece male. Si riprese la cartellina con le canzoni e bofonchiò un saluto. Schizzò via dalla stanza, precipitandosi fuori dall'edificio più in fretta che poté.
Voleva mettere più distanza possibile fra sé e le parole crudeli di quell'uomo. Forse erano vere, dopotutto, un po'.  L'Italia dei primi anni '70 aveva bisogno di un cantante politicamente attivo, che parlasse ai giovani di pace, d'ingiustizia, di lotta di classe. Lui capiva a stento la furia delle canzoni di Guccini o Bob Dylan. Gli facevano paura tutte quelle loro invettive contro i politici, quelle promesse di rivoluzione, quelle certezze atee. In Dio credeva da sempre e non avrebbe smesso mai, sebbene de André e tanti altri si scagliassero proprio in quegli anni contro la religione.
E le sue canzoni erano così diverse da quelle dei cantautori arrabbiati, italiani o stranieri che fossero. Erano testi più delicati, infarciti di riferimenti ai miti greci, perché lui degli eroi achei non avrebbe potuto fare a meno. Si era innamorato di loro al liceo,  li trovava incredibilmente poetici e li considerava dei modelli dai quali prendere spunto. Evidentemente, però, quel tizio della casa discografica non si era mai incantato leggendo Virgilio né aveva  perso la testa per la Lesbia di Catullo, perché reputava i suoi riferimenti al mondo classico antiquati e poco interessanti.
A pensarci bene quel tizio voleva anche che lui parlasse di degrado, ma come avrebbe potuto farlo? Le prostitute le aveva viste a Milano, certo, ma mica le conosceva davvero come de André, che si era ritrovato quella che un giorno sarebbe diventata Bocca di Rosa davanti alla porta di casa.
Non poteva comporre testi in cui l'amore venisse rappresentato come un'entità sporca, perché l'unica volta che aveva amato una ragazza, il sentimento che lo aveva legato a lei era stato tante cose, troppe, ma mai  squallido.
Lei era ben lungi dall'essere una prostituta. La sola volta in cui avevano fatto l'amore era stata la cosa più naturale e bella del mondo; dopo, anche se le cose non erano andate come sperava, gli era rimasto il ricordo di una serata bellissima e indimenticabile.
Se avesse messo in musica la gioia che aveva provato stringendo Matilde fra le braccia e guardando i suoi occhi risplendere, il tizio della casa discografica avrebbe trovato il suo amore per lei antiquato, roba da scolaretti.
Ma lui lo sapeva, diamine, che il sentimento che aveva albergato nel suo
cuore era maledettamente attuale, cecché ne dicesse quel tizio dagli occhi infossati.

Conosceva da sempre Matilde. Da bambini erano stati inseparabili, e avevano trascorso un'infinità di pomeriggi lieti a giocare insieme, con gli altri ragazzini del quartiere, rincorrendo una palla o inscenando scontri epici. Lei era una bimba bruna bruna, con grandi occhi castani e il carattere intrepido. A differenza di molte sue coetanee,  preferiva giocare alla guerra piuttosto che pettinare bambole, e spesso era più spregiudicata di tutti i maschi, che un po' la prendevano in giro un po' temevano quella sua personalità impetuosa. Lui ne era rimasto sedotto già a sette anni, quando l'aveva vista correre a perdifiato dietro ad un altro bambino che l'aveva malauguratamente derisa. La reputava bellissima già allora, con le ginocchia sbucciate e i capelli arruffatissimi, e aveva giurato a sé stesso che, un giorno, si sarebbe battuto a duello con tutti i ragazzini del vicinato, pur di conquistarla.
Si erano persi di vista, com'era naturale che fosse. Lui aveva continuato a studiare e attraversava Milano in metropolitana per raggiungere un liceo Classico del centro.  I suoi amici l'avevano preso in giro ridendo, un po' intimoriti un po' ammirati perché era raro che un ragazzo di periferia avesse le capacità e i mezzi per continuare a studiare.
Matilde no. Aveva ottenuto la licienza media, abbandonando per sempre i libri di scuola. Tanto, diceva, non era portata per lo studio, così si era trovata un posto come assistente nella farmacia di fronte a casa suae, forse, passare il tempo dietro a un banco,  a scambiare due chiacchere coi clienti e ascoltarne i monologhi sui loro acciacchi era davvero la sua strada.
 Matilde era diventata una donna in pochissimo tempo. Un giorno lui l'aveva vista uscire di casa e si era stupito perché ormai era rimasto ben poco della bambina ossuta e spericolata che era stata. Ora il suo corpo era quello di una ragazza vera, con tanto di curve e rotondità nei punti giusti. E il suo sguardo, oh, era rimasto quello limpido e un po' impertinente di sempre, ma ora gli faceva ribollire il sangue, letteralmente.
Aveva affrettato il passo, quel giorno, per evitare l'amica di un tempo, e da allora si erano parlati ben di rado.
Matilde aveva continuato a bazzicare il quartiere. Gli ex compagni di giochi  ora erano amici con cui trascorrere serate fatte di niente e sigarette, e le ragazzine che un tempo intrecciavano i capelli alle bambole erano diventate adolescenti sempre pronte a mettersi a posto la frangia o a rifarsi il trucco. Erano diventati grandi tutti insieme ed erano restati amici malgrado gli anni, perché in fondo erano tutti ragazzi maledettamente simili fra loro, che dovevano dare la maggior parte dei  soldi che guadagnavano a casa e sognavano, un giorno, di poterne avere abbastanza per comprarsi la moto o la borsa firmata e intanto, nell'attesa, trascorrevano le giornate lavorando e le serate ciondolando nei vicoli, a raccontarsi sogni e pettegolezzi.
Lui invece aveva perso gli amici di un tempo, e aveva fatto fatica a farsene di nuovi. Era un ragazzo di periferia che studiava in un liceo del centro, e ciò bastava a renderlo già di per sé un'eccezione, uno strano. Il bambino timido che era stato aveva lasciato il posto ad un adolescente introverso e studioso, che si era appassionato alla letteratura grazie a degli insegnanti straordinari. Leggeva e studiava, mentre nei ritagli di tempo scriveva versi disordinati pieni di sentimenti delicati e al contempo furiosi.  Si faceva strada nel mondo così, a colpi di parole, collezionando una serie di quaderni pieni di poesie scritte a metà e una gran quantità di sogni, fomentati anche dai troppi libri che leggeva. In mezzo a quel caos fatto di sonetti e sospiri c'era sempre lei, Matilde.
Ormai si erano persi, anche se lui coninuava a sbirciarla da lontano, ardendo di gelosia ogni volta che la vedeva parlare con un ragazzo e piangendo di nascosto quando lei gli passava accanto senza guardarlo.
A consolarlo c'erano solo i suoi poeti. Gli era di conforto leggere le pene di Dante che si struggeva d'amore per Beatrice e si rispecchiava in ogni suo affanno e in ogni suo struggimento.
 Sognava di dedicare a Matilde le poesie d'amore scritte da Catullo, perché quei versi parlavano di lui e della passione, cresciuta negli anni, che provava per la ragazza. Eppure sapeva che la sua, di musa, era ben diversa dalle fanciulle di cui narravano i libri e se avesse osato declamarle qualcuno dei suoi versi lei ne avrebbe riso, definendoli inutili, dato che la poesia non era buona da mangiare né serviva a guadagnare. E così, trascorse la sua adolescenza immerso in pensieri romantici quanto angosciosi, sospeso in una realtà maledettamente diversa da quella del suo quartiere.
Aveva conseguito la maturità alla fine degli anni '60, diplomandosi a pieni voti. La contestazione studentesca l'aveva sfiorato appena, perché lui era troppo assorbito  a far rivivere nella sua mente Ovidio e Petrarca per prestare attenzione ai giovani arrabbiati che sfilavano nelle piazze. Però le canzoni gli piacevano, questo sì, anche se spesso tutta la rabbia contenuta nei versi di Bob Dylan o de André lo spiazzava. Però ammirava quegli artisti che avevano avuto il coraggio  e il talento necessari per mettere in musica il loro disagio, perciò desiderava segretamente diventare come loro, anche se si riteneva troppo timido ed educato per poterlo fare sul serio.
Dopo la maturità si era iscritto a Lettere Classiche, causando il malcontento di suo padre, che gli aveva permesso di continuare a studiare perché diventasse, un giorno, un bbrillante avvocato. Eppure lui amava la letteratura più di tutto proprio perché gli scrittori gli avevano insegnato la vita meglio di chiunque altro, anche se era difficile da spiegare a chicchessia, soprattutto ai suoi amici di un tempo, che ormai lo guardavano come se fosse un alieno.
Loro erano tutti ventenni robusti ai quali la vita aveva già impartito la lezione crudele che i sogni non servono, se non hai un lavoro sicuro  e un tetto sopra la testa. Lui aveva provato a raccontare loro la bellezza nascosta fra i versi di un poeta e l'incanto provocatogli da un romanzo, ma loro non sembravano capire. I libri non avevano alcuna utilità pratica e, ad ogni modo, loro non avevano certo il tempo per leggerli.
Fu durante le vacanze di Natale del suo primo anno all'università che si ritrovò a trascorrere di nuovo del tempo con loro. Si sentiva estraneo a quel gruppetto di ragazzi, certe volte, nonostante quelli fossero gli stessi bambini con i quali, anni prima, aveva giocato fino a non poterne più. Erano così diversi, ormai, eppure lui era affezionato a tutti loro, perciò trascorse molti pomeriggi nel cortile, con l'aria fredda di Dicembre a sferzargli il viso, ad ascoltarli parlare di moto e di ragazze dicendo, in verità, ben poco, perché la sua esperienza in questi due campi era limitata, per non dire nulla. Loro gli chiedevano come fossero le motociclette e le milanesi del centro, e lui scrollava la testa e dava risposte vaghe. Era troppo distratto per badare a entrambe le cose, in realtà, non avrebbe saputo distinguere una vespa da uno scooter e non sembrava notare granché le studentesse universitarie che gli passavano davanti.
A volte si univa A loro anche Matilde, quando il lavoro glielo permetteva. Fumava con disinvoltura e i ragazzi le si affollavano intorno, proprio perché, come da bambina, era maledettamente sfrontata e sicura di sé.  La presenza della ragazza aveva il potere di paralizzarlo e, tutt'un tratto, diventava ancora più taciturno e introverso di quanto già non fosse normalmente. Eppure la trovava irresistibile, con quel suo sorriso scanzonato ma gentile, la parlantina svelta e gli occhi vivavci.
Lei dapprima lo trattò con indifferenza, poi iniziò a prenderlo un po' in giro, segno che gli aveva perdonato, almeno in parte, di essere così diverso da tutti loro. A volte lui s'illudeva che la ragazza potesse ricambiare gli sguardi adoranti che le lanciava, ogni tanto, ma lei sembrava sempre presa dagli altri che le gironzolavano intorno con un coraggio che lui non avrebbe avuto mai.
La sera in cui successe tutto fu, all'inizio, uguale alle altre. C'era il solito freddo di Dicembre, capace di penetrare sotto i vestiti e di insinuarsi dentro ai corpi. Erano scesi in cortile come sempre, ammucchiandosi un po' sui gradini un po' lungo i muri delle case. Sedevano con le gambe raccolte, i cappotti più o meno impolverati e le mani gelate, a parlare di tutto e di niente, fumando e sentendo una cassetta di Mina, la cui voce limpida fuoriusciva in un gracidio dal registratore di qualcuno di loro. Matilde se ne stava lì, a tormentare una sigaretta e a   gettare sguardi annoiati tuttintorno.
Qualcuno propose di andare in centro a vedere l'albero di Natale gigante allestito in Piazza Duomo, ma altri replicarono che la metropolitana era cara e, alla fine, potevano vedere un albero di Natale ovunque andassero, e non c'era bisogno di attraversare Milano per vedere un pino pieno di ghirlande.
"Andiamo a san Siro. Lo stadio è vuoto, stasera, e possiamo fare un giretto. Alla fine è come stare qui, solo che facciamo due passi e vediamo qualcosa di diverso...", azzardò qualcun altro.
La proposta fu accolta, nonostante i rimbrotti dei soliti guastafeste che preferivano restarsene lì, a ciondolare e a maledire quella serata deprimente.
Arrivati lì, lo stadio era davvero deserto, eccezion fatta che per alcuni gruppi di ragazzi che, come loro, erano andati lì soltanto perché non avevano un posto più interessante in cui andare.
 La noia, tuttavia, non si era stemperata e tutti gironzolavano lì intorno, incerti su che cosa fare. Le parole non bastavano, per smorzare il freddo pungente, e, forse, avrebbero fatto meglio a restarsene in casa, trascorrendo una pigra serata fatta di vecchi film e mezze conversazioni con i genitori. Eppure nessuno aveva il coraggio di dire che, effettivamente, andare a san Siro era stata una colossale perdita di tempo.
Luci a San Siro di quella sera
che c'è di strano siamo stati tutti là,
ricordi il gioco dentro la nebbia?
Tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là.
Ma stai barando, tu stai gridando,
così non vale, è troppo facile così
trovarti amarti giocare il tempo
sull'erba morta con il freddo che fa qui

 
Fu Matilde, a proporre il gioco. Era un'idea infantile, improbabile, eccentrica, eppure acconsentirono tutti, di buon grado, forse perché non c'era un'alternativa valida. Giocare a nascondino era stato uno dei loro passatempi ricorrenti, durante l'infanzia,  perché la periferia offriva loro molte intercapedini in cui infilarsi e molti anfratti in cui rannicchiarsi, sperando di non essere scorti.
Lui si era offerto di contare, forse perché non aveva realmente voglia di trovare un angolino in cui rifugiarsi.
Dopo aver finito di contare, si recò a cercare i suoi amici e li individuò tutti. Solo il luogo in cui doveva essersi appiattita Matilde restava oscuro, e in lui, piano piano, si fece strada il timore che potesse esserle successo qualcosa, perché si era levata una nebbia estremamente fitta e, anche se lo stadio era pressoché deserto, non era un bell'orario per gironzolare da soli. Poco a poco tutti gli altri ragazzi se ne andarono, infreddoliti, stanchi e annoiati da quella serata che si era protratta decisamente per troppo tempo. Nessuno lo aiutò a cercare Matilde, e tutti rincasarono dicendogli che, prima o poi, sarebbe spuntata fuori, era fatta così, talmente matta da non farsi trovare da nessuno, e capace di restarsene lì, immobile, per ore. Da solo, si ritrovò  a perlustrare lo stadio, di nuovo, maledicendo il momento in cui aveva deciso di uscire di casa e abbandonare i suoi amati libri per trascorrere una serata così.
Poi Matilde sbucò, con il sorriso  beffardo e gli occhi ridenti, e in quel momento era più bambina e più donna che mai, i capelli che danzavano nel vento e le guance rosse per il gelo. Gli aveva fatto una linguaccia e si era messa a deriderlo, perché era stato talmente stupido da non capire dove si era nascosta. Lui, stupido, ci si era sentito davvero, perché avrebbe dovuto lasciarla lì al freddo; non aveva senso essere rimasto lì, a cercarla, per ottenere in cambio soltanto prese in giro e derisione. Poi, d'un tratto, si era fatta più vicina, gli occhi ridotti a due fessure, e gli aveva proposto, in un sussurro:
"Mi nascondo di nuovo...  e se mi trovi, beh, potrai darmi un bacio."
Lui, a quella frase, si era sentito ardere. Aveva già baciato, certo, ma erano sempre state ragazze liceali con l'apparecchio e l'aria timida, che non avevano nulla a che fare con la sensualità, la spregiudicatezza  e il sorriso impertinente di Matilde. Ma non era solo quello, no... lui l'aveva sognata, immaginata, idealizzata per anni e ora l'idea di baciarla gli sembrava troppo surreale e quasi sbagliata.
Però accettò, perché ne sarebbe andato del suo orgoglio, e se non l'avesse fatto lei l'avrebbe sbeffeggiato a vita. E perché, diamine, lui il profumo dei suoi capelli voleva sentirlo, dopo tutte le ore passate a immaginarselo.
Chiuse gli occhi e contò, con il cuore in gola, sperando con tutto il suo cuore che succedesse qualcosa, qualsiasi cosa, che gli impedisse di continuare con quell'assurdo gioco. Prima che si mettesse a cercarla, però, lei iniziò ad urlare il suo nome da un punto imprecisato poco lontano da dove si trovava. Lui la raggiunse, sconcertato, bofonchiando che non valeva, no, e che non erano quelle, le regole del gioco.
Lei rideva e pareva, per l'ennesima volta, prendersi gioco di lui, e lo guardava con gli occhi pieni di malizia e di luce, facendogli, di nuovo, rimestare il sangue nelle vene.
"E ora? Che fai, non mi baci?", gli domandò lei.
Lui non sapeva che fare; era lì, impalato, a chiedersi se, per caso, non potesse darsela a gambe e correre fino a casa. Però gli occhi verdissimi di Matilde lo sfidavano, e lui non poteva essere vigliacco, no.
La baciò perché non aveva sognato che quello, per anni. Perché il freddo era semplicemente insostenibile e i suoi occhi troppo intensi, e tanto valeva farlo, anche se probabilmente il giorno dopo lei neppure l'avrebbe guardato se non con scherno. Però lui  voleva baciarla e lo fece nonostante sapesse benissimo che lei una storia con uno squattrinato studente di lettere non l'avrebbe mai voluta. E i baci si trasformarono in carezze furtive, in abbracci soffocanti, nei vestiti che, nonostante tutto, cadevano sull'erba gelata dello stadio, e il vento era di colpo meno gelido e il cielo meno grigio. E l'amò così, su un prato coperto di brina, in una notte senza stelle, con mille emozioni che gli si agitavano in petto. E com'era bella Matilde, adesso, coi capelli scuri che le coprivano il corpo e gli occhi di brace, ogni suo gesto impregnato di quella grazia che a lui metteva i brividi. E com'era stupido lui, ragazzino timido e appassionato, che a lei aveva già donato la sua anima scrivendole versi febbrili, e ora provava ad amarla anche con il corpo, con l'ingenuità e l'imbarazzo delle sue mani, dei suoi abbracci, della stretta in cui la teneva prigioniera. Le promise il mondo, quella notte, pur essendo conscio che lei, nel suo universo fatto di parole, libri e poesia, non sarebbe entrata mai. E forse lui non avrebbe mai capito le sue sigarette, la sua sfrontatezza, il suo non perdersi dietro a sogni e ideali. Eppure l'amava con tutto il trasporto di cui era capace, con l'ardore di cui aveva letto nei libri e forse anche di più, perché nessuna poesia era bella e struggente quanto i loro abbracci, i loro mormorii, i loro brividi.
Eppure... Eppure quella notte si consumò così, fugace, rapida, dolorosa e magnifica. Lei si rassettò i vestiti e corse a casa, rivolgendogli un'espressione indecifrabile, priva dello scherno con cui osservava tutti di solito.
Ma il tempo emigra mi han messo in mezzo
non son capace più di dire un solo no
Ti vedo e a volte ti vorrei dire
ma questa gente intorno a noi che cosa fa?
Fa la mia vita, fa la tua vita
tanto doveva prima o poi finire lì
ridevi e forse avevi un fiore
ti ho capita, non mi hai capito mai


E a lui era rimasto il ricordo dei brividi, del languore, della disperata tenerezza con cui l'aveva stretta, della foga con cui l'aveva amata.
Nient'altro era rimasto, di quella notte. Lui aveva cercato i suoi occhi per molte altre mattine, con lo struggimento proprio solo di chi era innamorato nel più folle dei modi. Lei niente, lo guardava con gli stessi occhi un po' canzonatori, quasi a dirgli che doveva andare così, e che farsi illusioni non serviva a niente. Lui aveva ripreso ad attraversare Milano in tram, per recarsi all'università, a stordirsi di poesia e di letteratura, a tornare a casa esausto e a riempire fogli di note e di parole che sgorgavano dal suo cuore, gonfio di sentimenti che avrebbe voluto urlare al vento.
Scrivi vecchioni, scrivi canzoni
che più ne scrivi più sei bravo e fai danè
tanto che importa a chi le ascolta
se lei c'è stata o non c'è stata e lei chi è?
Fatti pagare, fatti valere
più abbassi il capo più ti dicono di si
e se hai le mani sporche che importa

tienile chiuse e nessuno lo saprà


Dal produttore discografico ci tornò, una seconda volta, con alcune canzoni più ciniche e arrabbiate, ma senza dimenticarsi delle ballate più sentimentali e vere.
"Potremmo fare un disco.", gli disse il produttore, quel giorno, e aggiunse:
"L'importante è che lei scriva. E canti quel che la gente vuole sentire, non importa del resto. Non interessa a nessuno, in realtà, se la ragazza delle sue canzoni è realmente esistita, se ci ha fatto l'amore e se la vostra storia è andata a buon fine. L'autenticità dei testi non conta più niente, è superata, ora basta che i ragazzi possano rispecchiarsi in quel che lei canta per loro."
E un disco s'era fatto davvero, e aveva pure venduto, un po'. Piaceva alle ragazze, la sua musica intrisa di poesia e sentimenti, più che agli adolescenti arrabbiati. Lui aveva cambiato quartiere, insegnava in un liceo Classico del centro, non lo stesso in cui aveva studiato, ma poco importava. Insegnava ai suoi alunni a sognare, a lottare per quello in cui credevano, ad incantarsi di fronte a un testo di rara bellezza, ad innamorarsi delle poesie che lui stesso aveva trovato magiche da ragazzo. E loro lo guardavano, un po' annoiati, e pensavano che il prof, nonostante fosse decisamente matto a parlare di Letteratura con quella passione, fosse uno di loro, perché ai sogni, nonostante i suoi quasi trent'anni, non aveva rinunciato.
E poi aveva iniziato a cantare per davvero, a dare concerti, a scrivere altre canzoni che raccontavano storie fatte di personaggi dei miti, di eroi e di piccoli drammi quotidiani.

Milano mia portami via, fa tanto freddo,
ho schifo e non ne posso più,
facciamo un cambio prenditi pure
quel po' di soldi quel po' di celebrità
ma dammi indietro la mia seicento,
i miei vent'anni e una ragazza che tu sai
Milano scusa stavo scherzando,
luci a San Siro non ne accenderanno più.

 


Però lei gli mancava, terribilmente. Gli mancavano i suoi occhi, l'impertinenza della sua risata, la franchezza dei suoi modi. Gli mancava la bambina corvina che scorrazzava per il cortile con la stessa irrequietezza dei maschi e gli mancava la ragazza bella da togliere il fiato che aveva stretto a sé un'unica volta, sull'erba gelata di san Siro.
Eppure no, non poteva tornare indietro, vent'anni non li avrebbe riavuti mai più e Matilde, ormai, era sposata con uno dei loro compagni d'infanzia, e col tempo aveva perso gran parte dell'irriverenza e della bellezza che la rendevano tanto affascinante, ai suoi occhi.
E non c'era modo di riavere il suo sorriso pieno di malizia né di sentire il proprio cuore battere con l'urgenza di un uccello in gabbia, perché ora anche lui era cresciuto, e ormai il tempo per sognare e idealizzare una ragazzina di periferia, per quanto lo rimpiangesse, non esisteva più. E anche san Siro s'era fatta meno poetica e vederla vuota era una faccenda impossibile, e i ragazzini, nelle sere d'inverno in cui non c'era nulla da fare, andavano altrove. Restava solo lui, con tutti i rimpianti e la nostalgia del mondo, che prima o poi si sarebbe arreso al tempo che usurava pian piano i suoi ricordi. E smise di sussultare al solo sentire il nome Matilde e persino quando la vedeva, nelle rare visite alla casa dei suoi genitori, non provava più niente se non la sensazione che, ormai, lei era solo il ricordo di un'altra vita che era perduta, perduta per sempre. Ma non significava niente, ormai, perché adesso c'erano altre cose, più concrete e non meno scintillanti, e davanti a lui si spalancava un futuro diverso, lo stesso futuro per il quale aveva lottato, da ragazzo, separandosi dagli amici di un tempo pur di inseguire la poesia.

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

Note:
Che posso dire, alla fine di questa storia? Che devo ringraziare Roberto Vecchioni, per essere il cantautore che è, per aver sfornato canzoni bellissime e aver fatto da colonna sonora alla mia estate 2011 in particolare.
Questa storia segue, più o meno fedelmente, i versi della canzone “luci a san Siro”. Il protagonista assomiglia, un po’, al Roberto Vecchioni ragazzino, come lo immagino io, però non ha la pretesa di essere verosimile.
Spero vi piaccia!
Baci
Minervalennon

 

   
 
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