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Autore: Francine    19/02/2015    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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14.

 
«Ricapitolando… Questa qui», disse la ragazza indicando il cadavere della donna bionda abbandonato dall’altra parte della stanza, «ti ha giocato un bello scherzetto. Ti ha fatto il lavaggio del cervello. Come, non lo so. Ma lo ha fatto. Quindi, tutto quello che è successo in questi ultimi mesi, tutte le azioni che hai commesso, non sono imputabili a te. Non eri… com’è che si dice? Ah, sì. Non eri capace di intendere e di volere. Capisci?»
Hyoga no, non capiva. Non capiva chi fosse quella sconosciuta dai capelli rossi. Non capiva perché indossasse un’armatura d’oro, ma non la maschera. Non capiva cosa gli stesse raccontando – una storia ai limiti della fantascienza, di sicuro – e perché.
Non capiva dove diamine fosse – un capanno di pesca abbandonato?
Non capiva cosa fosse quella piccola luce rosa che fluttuava al polso della ragazza – un fuoco fatuo? Un’emanazione del suo Cosmo? Un piccolo effetto speciale, un vezzo di qualche tipo?
E, per ultimo, non capiva perché gli girasse la testa a quel modo e perché la sua gola assomigliasse ad una distesa di carta vetrata. Fissava i capelli biondi sparsi sul pavimento di legno scuro, come se potesse cavare da loro una qualche risposta sensata, o fare mente locale su cosa fosse successo. Spiccavano contro il fondo polveroso, come alghe di oro zecchino abbandonate dalla marea sugli scogli. Come fossero una cosa morta. Erano una cosa morta. Represse un conato di nausea, ma non riuscì a staccare gli occhi da quella nuca pallida e abbandonata. Come se dormisse.

«Ora, io non so da quant’è che va avanti questa storia. Settimane, forse mesi. Tu ricordi di aver mai incontrato quella donna?»
Hyoga mormorò qualcosa. Qualcosa come: «Non lo so. Non vedo il suo viso». Qualcosa cui lei rispose:«Giusto…», schioccando le dita e dirigendosi verso la donna – verso il cadavere. La voltò aiutandosi con un piede e Hyoga si ritrovò a fissare due occhi azzurrissimi spalancati sull’orrore e due labbra socchiuse. Come per scoccare un bacio. O per chiedere, stupite, perché. Indietreggiò sul pavimento. Voltò il capo. Abbassò lo sguardo.
«No», disse. «Non l’ho mai vista.»
La sentì rivoltare la donna – il cadavere – dall’altra parte e tornare verso di lui.
«Ascolta», gli disse, accucciandoglisi di fronte, «sei sicuro di non averla mai vista?»
Assomigliava a mia madre… «Quante volte te lo devo ripetere?!» La voce di Hyoga era un ringhio basso e rombante. La stava avvertendo di non tirare troppo la corda. «No. Non l’ho mai vista.»
«Ok», disse lei, ma qualcosa nella sua voce suggerì a Hyoga che la questione non era finita lì. «Dovevo esserne sicura, tu capisci…»
No. Non capisco!, pensò il Cigno, scoccandole un’occhiata eloquente.
«Il viaggetto che hai fatto ha spezzato l’incantesimo, chiamiamolo così. Però ti ci vorrà un po’ per espellere tutta la merda che quella lì ti ha dato…»
«Sei stata tu?», le chiese.
«No. È stato Babbo Natale», rispose lei. Silenzio. «In realtà, ha fatto tutto da sola. S’è sentita braccata e ha caricato a testa bassa. Contro il mio dito», e gli mostrò l’indice della mano destra, sfavillante di una nebbiolina tra il rosa ed il viola. «Questo si chiama suicidio, a casa mia.»
«Avremmo potuto interrogarla…»
«E secondo te perché s’è uccisa?»
«Per paura?»
Lei annuì. «Esatto. Ma non di noi. Paura di quelli che l’hanno inviata qui. Ti aveva perso, ormai. La missione era compressa e lei con essa.» Si alzò e si sgranchì le gambe in un clang. «Non ha avuto altra scelta…»

Hyoga tornò a guardarsi le mani. Non ha avuto altra scelta. La stessa vile combriccola di parole che gli avevano rifilato i marinai dopo averlo tratto in salvo. Per indorargli la pillola. E per lavarsi la coscienza. Sua madre non aveva avuto altra scelta che quella di sacrificarsi. Per lui. Affinché lui vivesse. E diventasse un uomo. Hyoga si domandò se non fosse una casualità che la sua aguzzina fosse bionda. Se non l’avessero scelta apposta. Possibile. Plausibile. Probabile. Restava da chiedersi perché. Perché lui, tra tutti i Santi di Athena. C’era un piano prestabilito dietro quella scelta – un disegno che lui non riusciva a vedere – oppure si trattava dell’ennesimo capriccio del Fato?
«Avanti, non abbiamo molto tempo», disse lei, strappandolo alle sue elucubrazioni. «Dobbiamo tornare indietro il prima possibile, e siccome abbiamo tanta strada da fare, direi di darci una mossa. Non credi?»
«E lei?»
«Giusto…»
La ragazza si avvicinò alla donna – al cadavere – e la osservò, un dito sotto al mento. «Hai una pala, una vanga o qualcosa del genere? Credo ci servirà…»
«Vuoi seppellirla?»
«Certo che sì», disse lei. «Un minimo di rispetto, che diamine!»
Si chinò e prese a frugare tra i vestiti della donna.
«Che stai facendo?»
Hyoga si alzò. Si alzò e la fissò. La testa gli girava ancora, ma il senso di nausea sembrava aver allentato la sua morsa.
«Cerco qualcosa da poter usare come prova. Per dire che l’abbiamo… sconfitta. E anche per sapere chi fosse questa persona. Chi te l’abbia inviata. Non si sa mai.»
«Non credo abbia i documenti con sé…»
«Risparmiami il tuo sarcasmo, vuoi?» Trovò un ciondolo al collo della donna. Un medaglione portafoto. Lo aprì e vi guardò all’interno. Poi lo richiuse. «Non possiamo toglierglielo…», disse, sistemando quel monile sotto lo scollo dell’abito. Le sfilò un anello. Una specie di vera nuziale, con un rubino incastonato tra due serpenti. «Prenderemo questa», disse, infilandoselo al medio.
«Allora, questa pala?»

Hyoga si guardò attorno, spaesato. «Non è casa mia, questa. Non so se vi sia una pala o un badile, o.»
«Capisco», disse lei. Aggiunse un altro ceppo al fuoco e si alzò. «Allora sarà il caso di dare un’occhiata in giro. Dobbiamo anche trovare il tuo amico.»
«Il mio… amico?»
Lei aprì la porta alla sinistra del camino e si affacciò. «Quello che era venuto qui, poco prima di me. Che sfortuna, se solo ci fossimo incontrati prima… Sai mica dove l’ha messo?»
«Di che stai parlando?» Hyoga si voltò nella sua direzione e mosse un paio di passi incerti.
«Non ricordi?», chiese lei, continuando a rovistare. «Forse è qui. Dietro quest’altra porta.»
La sentì forzare del legno vecchio e gonfio d’umidità, che protestò con uno scricchiolio acuto, e poi emettere un verso di disgusto.
«Macché! È solo una latrina male in arnese!», disse, chiudendo la porta con un gesto secco e tornando nella stanza principale. «E il tuo amico non c’è…»
«Ci sto capendo meno di prima», protestò Hyoga, massaggiandosi le tempie, una coperta infeltrita gettata di malagrazia sulle spalle. «Chi sarebbe questo mio amico?»
Lei gli piazzò gli occhi nei suoi e aggrottò le sopracciglia. «A me ha detto di essere tuo amico.»
«Ma chi? Quando? Dove?»
«Prima. Nella Valle dell’Ade. Ha detto di chiamarsi… di chiamarsi…»
Lei si mordicchiò le labbra e guardò a terra, la fronte corrugata alla ricerca di quell’informazione preziosa.
«Descrivimelo», e Hyoga non si accorse di aver quasi abbaiato quella parola.
«Carino. Lineamenti delicati. Occhioni blu. E armatura rosa.»
«Shun…», soffiò fuori, gli occhi allargati dalla paura. «Cosa gli hai fatto?!», e avanzò di un passo verso di lei, i pugni stretti e la mascella serrata.
«Io?», chiese lei, alzando le mani. «Io l’ho salvato. Tu l’hai spedito laggiù. Con le tue manine, caro…»
«Cosa?!» Hyoga avanzò di un altro passo, il cosmo in subbuglio. «Non dire eresie! Non potrei mai e poi mai torcere un capello ad un amico!»
Lei scosse la testa. «Proprio non ricordi?»

«Io…», e Hyoga ebbe un lampo. Un’immagine. E Hyoga ricordò. Qualcuno era entrato nella stanza. Qualcuno stava aggredendo una donna. Stava aggredendo sua madre. «Mamma…»
«Dimmi cosa vedi. Descrivemelo», e Hyoga seguì la sua voce. E glielo disse. Qualcuno di grosso, di grosso ed armato e pericoloso, era entrato nella casupola mentre lui non c’era. Ed era arrivato appena in tempo per vedere questo sconosciuto attaccare sua madre con… con una catena. E lui era scattato. E l’aveva difesa. E…
«La sua anima è qui», gli disse lei. Mostrandogli la piccola luce rosa, il palloncino legato al suo polso. Hyoga fissò prima quella luce – quel fuoco fatuo – e poi lei. «È la sua anima. Ma non può restare così. Dobbiamo rimetterla nel suo corpo. Ma prima, dobbiamo trovarlo, questo corpo.»
Hyoga annuì.
«Bene. Allora, la domanda resta. Dove hai messo il corpo del tuo amico Shun?»
«Non…», lo so!, ma Hyoga si accorse di stare mentendo. Si accorse che invece sì, lo sapeva dov’era Shun. Lo sapeva perché ce l’aveva messo lui. Nel terreno. Dietro la casa. Hyoga rivisse la scena con precisione quasi chirurgica. La neve spalata via con una vanga. La terra scavata. E l’espressione serafica di Shun. Quella di chi sta facendo il più bello dei sogni. Quello eterno. E poi altra terra. Sul suo viso. E neve, sporca di terriccio. E vide se stesso, appoggiato al manico della vanga, asciugarsi la fronte prima di osservare il suo lavoro. E sorridere. Soddisfatto.
Oh mio Dio…


Il cielo è grigio. Acciaio durissimo e freddo. E piove. Ma è normale, laggiù, che a Novembre piova. Su questo, almeno, è stato sincero. «È tempo suo, piccirì», le ha detto appena arrivati a Catania, con quella saggezza popolare e bonaria che gliel’ha fatto stare subito simpatico. È stata l’unica volta in cui l’ha chiamata piccirì. È stata l’unica volta in cui lei l’ha trovato simpatico.

Piove.
Lui non c’è. Etienne è ripartito la settimana scorsa. Ha ancora qualche spicciolo incastrato sotto al loro scoglio. Quello basso e piatto lungo la litoranea. Quello dove lui le ha fatto infilare la mano, il secondo giorno. Quello dove un granchio le si è attaccato così forte al pollice da farle temere per un lungo, terribile momento, che gliel’avrebbe staccato. Che sarebbe caduto sulla sabbia. Come una cosa morta. Invece, gliel’ha solo rotto. E lei si è sentita fortunata. Magari non la ragazza più fortunata sulla faccia del pianeta, ma quasi.

Piove.
Il sacchetto di caldarroste le regala un piacevole tepore nella tasca della giacchetta di lana. Ne mangiucchierà una per una, strada facendo, abbandonando il sacchetto prima che finiscano le case e tenendo in mano le ultime. Alle bucce penserà il vento.

Piove.
In riva al mare il cielo di Novembre sa essere ancora più severo, mentre il vento spazza la spiaggia e spacca le mani. E la pioggia che scende in gocce grosse come proiettili ti si insinua fin dentro le ossa. Nell’anima. Come se dovesse durare per sempre. E le si chiede come si possa stare accoccolati ad ascoltare il mare con un tempo da lupi come quello. «È una canzonetta estiva», le ha detto Salvo, allungandole il sacchetto di caldarroste, canticchiando la melodia a colpi di
mmmmh mhhh. «Si vede che qualcuno aveva ancora voglia di mare.»

Piove.
Ed è da dietro la falda rossa dell’ombrello che appare lui. Si ferma, le gambe che si sono fatte di piombo all’improvviso. Senza avere la decenza di avvertire. Un Santo di Athena lo riconosci al volo. Anche senza l’armatura. Lui ha uno scrigno enorme. D’Oro. Portato su un solo spallaccio, nemmeno fosse lo zainetto di un liceale. La guarda. Accigliato.
La maschera. Già, pensa lei. Avvicinandosi. Mica può restare ferma come un merluzzo. Quella è casa sua, dopo tutto. Così si avvicina.

Piove.
«Sto cercando il Santo del Cancro.» Ha una voce profonda. Particolarissima. Non è un greco. Non è italiano. Non è francese.
«Da dove vieni?», vorrebbe chiedergli, prima ancora di sapere come si chiami. «Il maestro non c’è», dice invece.
Un sacchetto di carta tra le dita arrossate. L’aroma delle caldarroste che si mischia alla salsedine. Trema come un fuscello. Chi è questo tizio? Cosa vuole, adesso?
Lui fa un passo avanti e la squadra. Severo.

«Cosa ci fai tu qui?»
«Ci vivo, qui.» Pausa. «Il maestro non c’è.»
E basta. Lei non sa dove sia. Dove diamine si sia arrampicato. E, anzi, spera che non ritorni. Che sparisca, come un pezzetto di legno mangiato dalla marea. Una pia speranza. Un’illusione. Ma si concede il gusto di coltivarla. Di sperare che lui le faccia questa cortesia. Anche se sa che mai e poi mai creperà. E che anzi, tornerà a darle il tormento. Anche dalla tomba

Questo l’ho capito, sbuffano i suoi occhi. È alto. Più alto di lei. Lineamenti affilati. Occhi verde scuro. Seri. Profondi. Pericolosi. «Fa niente. Tornerò.»
«Caldarrosta?»
Lui osserva quel sacchetto sgualcito come se potesse esplodere da un momento all’altro.
«Oggi fa freddo», insiste lei.
«La prossima volta», dice. E a quelle parole le esplode nel cuore un calore più intenso delle caldarroste nella tasca della giacca.



Hyoga scavava senza sosta. Affondava le mani in quel manto bianchissimo e duro, sollevando cumuli di neve con la stessa foga di un cane che sotto la terra ghiacciata ha fiutato un osso succulento da sgranocchiare. Un osso nascosto da qualcun altro, per una giornata di pioggia. Quell’immagine attraversò la mente di Hyoga come una cometa che rischiara la notte di Agosto. Lui si impose di non rincorrere la sua scia luminosa. Di lasciarlo andare per la sua strada. E di concentrarsi su Shun.

C’era un bastone conficcato nella neve, alle spalle della capanna. Una vanga male in arnese. Il suo manico, indifferente e ritto nel terreno come un palo attorno a cui far crescere le rose, in primavera – o una piccola, tenera piantina di pomodori – aveva della neve fresca attorno all’impugnatura sbeccata. Era qualcosa che assomigliava ad una croce, almeno nelle intenzioni, perché lui e sua madre – la donna che lui aveva scambiato per sua madre – avevano fretta. Dovevano partire. E non aveva avuto tempo di abbozzare una lapide, seppure provvisoria. E gli era sembrato scortese non segnalare in alcun modo la tomba di un nemico. Non gli era sembrato giusto. Hyoga rivide se stesso voltarsi mentre tornava indietro, soddisfatto di fronte a quel piccolo gesto di pietà per un nemico tanto stupido da essersela andata a cercare. Volle prendersi a calci da solo. Con forza, rabbia e rancore. Fino a farsi sputare le viscere. Vinse quell’impulso e scavò. Trattenne una bestemmia e scavò. Strinse i denti e scavò. Ancora. Di più. Più a fondo. Fino a sentirsi le dita bruciare. Fino a tingere di rosso la neve. Fino ad urtare qualcosa.

La ragazza col palloncino rosa – con l’anima di Shun! – era accanto a lui.
«L’hai trovato?!», gridò, per sovrastare il fischio del vento. Teneva le mani strette a coppa attorno a quella lucina – all’anima di Shun! – e gli faceva da schermo col proprio corpo, così da impedire alla neve di fioccare ancora. Si intravedeva una fioca luminescenza attorno alle sue dita pulsare sempre più disperata. Come se stesse gettando la spugna.
Non azzardati!, pensò Hyoga. Aumentando la velocità delle sue mani. Poi la sentì dire: «Ci siamo. Sta rispondendo.». Avvicinò il globo di luce – il fuoco fatuo – al terreno e questo cominciò a brillare con maggiore intensità. A riprendere fiato. Hyoga continuò a scavare e scavare e scavare fino a quando non riuscì ad estrarre qualcosa da sotto la terra.
«Usa la vanga. Usala come leva», disse la ragazza, indicandogli l’arnese che Hyoga aveva divelto dal terreno e lanciato contro il muro della casa, ma Hyoga non l’ascoltò. Tirò fuori Shun dal terreno, nemmeno fosse stato una rapa gigantesca e lo riversò su un fianco.

«Presto… presto!», disse Hyoga.
Lei avvicinò l’anima – il palloncino – al corpo di Shun. L’alone rosato svanì nel petto di Andromeda, per poi sgusciare via. Lei lo riprese al volo, tra le mani strette a coppa, e scosse la testa.
«Che succede?», le chiese. Terrorizzato.
«È troppo freddo», disse lei, chinandosi. «Il corpo deve avere la giusta temperatura, o l’anima sguscerà via di nuovo.»
Hyoga sospirò, ansimò e si deterse il sudore dalla fronte.
«Portiamolo dentro.»
«Ti do una mano», disse lei, mentre il vento soffiava sulle loro teste. Ma lui s’era già messo Shun in spalla, come un sacco di farina, e stava tornando indietro. Come se lei non esistesse.
Gli diede quattro passi di vantaggio. Lui ne compì sette. Lei lo raggiunse, l’anima del Santo di Andromeda che ondeggiava nel vento, e si chiuse la porta alle spalle.
Shun era livido. E Hyoga si sentì annaspare.

«Aiutami», disse lei inginocchiandosi. «Togligli la corazza.»
Gli incastri che tenevano assieme l’armatura di Shun erano congelati. Hyoga li fece saltare uno per uno, come fossero stati bottoni sullo sprone di una camicia. Pazienza. Avrebbe versato lui il sangue necessario per riparare Andromeda, ma prima doveva salvare il Santo. Per le corazze c’è sempre tempo, si disse, liberando l’amico dal peso degli schinieri. Lo afferrò sotto le ascelle e lo trascinò davanti al camino. Aggiunse alcuni ceppi al fuoco e soffiò per ravvivare le fiamme.

«Dobbiamo rianimarlo», disse lei posandogli due dita sotto la mascella.
«Non dirmi che…»
Certo che sì!, gli dissero i suoi occhi. «Conviene sempre prima riscaldarli», replicò, invece, reclinando all’indietro il collo di Shun. Frizionò il corpo, poi chiuse le mani una sull’altra e le posò sul petto di Shun. «Io spingo. Tu soffia.»
«Non sarebbe meglio il contrario?»
«Sei un maschietto. Hai una maggiore capacità polmonare, tu.» Pausa. «Non devi baciarlo. Basta mettere le mani a coppa attorno alla bocca aperta e soffiare. E ricordati di tappargli il naso.»
Hyoga annuì. Dischiuse con delicatezza le labbra di Shun facendole ruotare indice e pollice - come se stesse aprendo un portamonete - ed infilò un dito tra i denti per aprirgli la bocca. Chiuse una mano attorno alle sue labbra e poi annuì.

«Dai il tempo.»
«Ok. Uno, due, tre, quattro, cinque.»
Hyoga si chinò su Shun, gli tapò le narici e gli soffiò in corpo tutta l’aria che aveva nei polmoni.
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»
«Uno, due, tre, quattro, cinque.»

Al sesto tentativo il fuoco fatuo – l’anima di Shun – reagì. Splendette con maggiore convinzione e di propria sponte fluttuò tra le dita delle ragazza e svanì dentro il petto di Shun.
«Hai visto?», le chiese Hyoga.
Lei annuì. Gli posò due dita appena sotto la mascella e chiuse gli occhi.
«È debolissimo», disse, continuando a tenergli una mano sul petto, all’altezza del cuore. «Adesso tutto dipende da lui», aggiunse, scostando le dita dal collo. «È un tipo testardo?»
«Abbastanza», rispose Hyoga.
«Ok. Diamogli una mano, vuoi?», disse. Si alzò, gli passò la coperta e Hyoga vi avvolse Shun. La sentì tornare nell’altra stanza e rovistare tra le masserizie.
«Ho trovato questi», e gli mostrò una tinozza di legno e un paiolo.
«Che dovremmo farci?», le chiese lui.
«Mettere ammollo il tuo amico. Dentro dell’acqua calda. Pensi di potermi procurare un po’ di neve?»
«Non si mette in acqua calda chi è assiderato.»
Lei chinò la testa da una parte. «No?», chiese.
«No», replicò lui.
«E allora, che si fa?»
«Lo si avvolge in panni caldi. Gli si copre la testa. Lo si riscalda col calore umano, se serve. Ma non lo si mette nel brodo come fosse un’aragosta.»
Lei annuì. «Non abbiamo vestiti asciutti, né berretti. Che facciamo?»

Hyoga si passò una mano sul viso. «Lo portiamo a Kohbotek», disse.
«Quanto dista da qui?»
«Non so nemmeno dove sia, qui
«Se Kohbotek è l’ultimo avamposto della civiltà, non è molto lontano. Dovrei farcela in pochi minuti…»
«Vengo con te.»
«Per chi mi hai preso, per un traghetto?», e la mascella di Hyoga si irrigidì. «Riesco a malapena a trasportare lui. Tu barcolli. Non riusciresti mai a starmi dietro.»
«Io sto bene!»
«Cazzate! Sei appena tornato dall’aldilà, non puoi stare bene! E io non posso portare indietro un cadavere!»
«Questo è un mio problema», disse Hyoga, avvolgendo la coperta attorno a Shun.
«No, è un mio problema!»
«E poi, tu non parli russo. O sbaglio?»
Lei si morse le labbra.
«Non sbagli», disse. «Ma tu non puoi correre…»
«… alla velocità della luce, lo so. Lo so.»
«Non puoi correre veloce quanto me. Non andiamo sempre alla velocità della luce. Per cosa ci hai preso? Ghepardi? La velocità della luce la si usa in battaglia.»
«Anche questa è una battaglia!»

Il fuoco schioccò nel camino.
«Senti», sospirò lei. «Facciamo così. Adesso riscaldiamo il tuo amico il più possibile. Poi io me lo metto in spalla e vado avanti. Corro più veloce che posso. Tu mi raggiungi. Ma devi promettermi di mettere sotto i denti qualcosa, intanto.»
«E cosa?», le chiese lui, sarcastico.
«Quelle andranno benissimo», disse lei, indicando le mele cadute sul pavimento. «Hai bisogno di zuccheri, o non riuscirai a fare nulla. E mi toccherà venirti a cercare nella tormenta. Abbiamo avuto tutti una giornata pesante, e non è ancora finita. Risparmiacelo, vuoi?»

Hyoga fissò il volto di Shun. Annuì.
«Avviciniamolo al fuoco», disse, spostandolo con delicatezza e posizionandolo su un fianco. Lei lo aiutò, poi spaccò la tinozza e ne gettò i pezzi al fuoco, che accettò grato quello spuntino fuori programma.
Hyoga si posizionò alle spalle di Shun. Si sdraiò dietro di lui e lo abbracciò.  Il suo corpo gli avrebbe fornito il calore di cui aveva bisogno. Come nella Settima Casa, pensò. Non si azzardò ad espandere il proprio cosmo, però.
«Mangia», gli disse lei, porgendogli una mela. Hyoga si puntellò su un gomito e l’addentò. Lei prese il paiolo ed uscì a raccogliere un po' di neve. «Sarà acqua calda, ma ci riscalderà», disse lei, rientrando e fissando la pentola al gancio.
«Potremmo metterci i torsoli della mela per dare un po' di sapore», propose Hyoga.
«Facciamo che te ne frego una e ce la mettiamo intera....», disse lei.
«Non ho ben afferrato il tuo nome.»
«Coralie», disse. «Puoi chiamarmi Coco, se per te è più facile. Lui è?»
«Shun.»
«Shun», ripeté. Poi tacquero. Hyoga addentò la mela e tornò a fissare le fiamme. Lei sistemò la coperta attorno a Shun e sedette accanto a loro, davanti al fuoco.
Fuori soffiava il vento.


«Hai i capelli di tua madre. Gli occhi, però, li hai presi da me.»
Lo sconosciuto occupa la poltrona del re con noncuranza. Le gambe accavallate, il mento appoggiato sul dorso della mano, riserva a Lukas lo stesso sguardo di chi cerca una somiglianza sul viso di una persona. Lukas si sente osservato. Passato ai raggi X, quasi. O da parte a parte. Come se fosse fatto di vetro.
«Era bella, sai? Tua madre, dico.» Lo sconosciuto – quello che gli ha appena rivelato di essere suo padre – sorride. Una smorfia di tenerezza che, però, su di lui assume una connotazione inquietante. «Si chiamava Freya. Come la dea. Divertente, vero? Mah, che vuoi farci? Tutte le principesse reali di Asgard si chiamano Freya…»
Lukas apre le orecchie. Sì, sua madre si chiamava Freya. Ma è anche vero che sì, tutte le principesse reali si sono sempre chiamate così. Freya. Come la dea dell’amore. Della bellezza. Della fertilità.
«Logico. Freya appartiene a Vanheim, dopo tutto.»
Lo sconosciuto – suo padre – prosegue col proprio monologo. Senza dar segno di curarsi del proprio pubblico.
«Era una ribelle. Una romantica. E un’amante eccezionale. Con tutto il rispetto», aggiunge lo sconosciuto quando si accorge che Lukas ha serrato i pugni. «E tu le assomigli. Moltissimo.»
Lukas non si lascia abbindolare. Sì, lui è quello dei tre principi che assomiglia di più a sua madre. Capelli biondo cenere, occhi verde chiarissimo, pelle d’alabastro. Ma questo lo sanno tutti, nel regno. Basta aver visto re Åkon e la defunta regina Freya.
«Ti abbiamo concepito in una sera di tempesta. Freya era bellissima con i suoi capelli d’oro zecchino sparsi sul cuscino. Deliziosa… Con rispetto parlando, ovviamente…»
«Cosa vuoi?»
È un ringhio basso quello che esce rombando dalla gola di Lukas. Il borbottio di una bestia impaurita che si fa più grande per convincere l’avversario che, tra i due, quello più forte è lui. Che non è il caso di insistere. Che avrà la peggio. Anche se è tutta una finta. Un bluff. Il tentativo disperato di portarti a casa il piatto quando in mano hai cinque carte spaiate.

«Conoscere mio figlio», ribatte il Tizio. Serafico. Come se quella fosse la cosa più normale del mondo. «E da quello che vedo, buon sangue non mente.»
Il tizio sorride. Il lampo della tagliola nel bosco che abbaglia la volpe poco prima di scattare. Il tizio si alza. Con molta, moltissima calma. Colla sua camicia rosso scuro, i suoi pantaloni a sigaretta, le scarpe lucide e i suoi capelli. Neri. Lunghi fino alle spalle, che gli incorniciano il volto magro e affilato. Gli dà le spalle, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni, e si avvicina alla finestra. La apre – la spalanca – e si affaccia, il vento che gli accarezza la pelle e il velluto della sua giacca nera.
«È un bel volo, eh?» dice. Guardando in basso, le mani sul davanzale interno. Lukas sa che basterebbe poco. Molto poco. Una spinta. Più energica di quella data a suo padre. Più veloce. E tutto sarebbe finito. Qualcuno diceva che gli omicidi sono come i passi. Tutto sta nel compiere il primo. Il resto, vien da sé, e Lukas non è atterrito all’idea di concedere un bis, questa sera.
È lui che se l’è andata a cercare, si dice. Fissando la schiena del tizio. Rilassata. Le spalle scese. Inermi.
«Quanto saranno? Due, trecento metri? Fino alle rocce sul fondo dico…»

Lukas lo sapeva, ma adesso l’ha dimenticato. Adesso non gli importa. Adesso sa solo che sì, è un bel volo. E che…
«Sai cosa mi piace di te, figliolo? Che non ti arrendi», dice il tizio, voltandosi verso di lui. Sorride, da sopra la spalla, e Lukas è costretto ad ammettere che sì, che qualcosa nello sguardo di quell’uomo molto simile alla luce che brilla nei suoi, di occhi, quando qualcosa lo diverte. «Però ti manca la fantasia. L’immaginazione. La creatività.»
Il tizio si stacca dal davanzale – la finestra resta aperta alle sue spalle – e avanza verso di Lukas, le braccia allargate in un abbraccio.
«Va bene
pensare», gli dice. Toccandogli le tempie. «Va benissimo. Ma devi evolvere il tuo pensiero. E spesso, non puoi usare due volte lo stesso sistema. Non si usa lo stesso trucco una seconda volta, Lukas. Mai. In nessun motivo. Perché un trucco svelato non piace più. Ha perso la magia, la sua allure. È brutto. Triste. Patetico. Capisci?»

Lukas si ritrova ad annuire, un braccio del tizio attorno alle sue spalle. Come farebbe un padre che racconta a suo figlio come vanno le cose della vita. Come gira il mondo.
«Non puoi buttare due cadaveri dalla finestra, figliolo. Uno è un incidente, una disgrazia. Due sono un omicidio. Capisci?»
Il tizio lo accompagna alla finestra. «Guarda, Lukas», gli dice, mostrandogli il panorama e descrivendo un arco col suo braccio. «Guarda, figliolo. Questo è il mondo.»
Lukas irrigidisce le gambe. Cerca appigli. Una mano si serra alle tende. Sposta il peso del corpo sui talloni, come a frenare una prossima caduta.
«Non ho intenzione di buttarti di sotto, Lukas», gli dice il tizio, restando impassibile. Sorride, lo sguardo perso ad osservare chissà cosa oltre al panorama, al nero della notte e delle stelle che brillano fredde e lontane sulle loro teste. «Sono
tuo padre, dopo tutto…»
«Cosa vuoi da me?»

Il tizio ride. Di cuore. Lukas non si accorge che alle loro spalle le fiamme nel camino rispondono alla sua allegria, danzando sui ceppi.
«L’ho sempre saputo che eri un ragazzo sveglio», dice. «Cosa voglio da te? Darti quello che meriti. Un futuro migliore. Più consono al tuo rango. Tu sai chi sono io, vero?»
E Lukas si specchia nei suoi occhi. E Lukas
sa. Lukas vede. Che è tutto vero. Sua madre da ragazza. Sua madre incinta di lui scaldarsi le mani al fuoco, le fiamme che le accarezzano la pelle. E il tizio, accanto a lei, testimone silenzioso, osservare mentre lui veniva al mondo. Mentre lei rendeva l’anima. Mentre gridava: «Mio Signore! Lukas, mio Signore!» e la sua mano ricadeva inerte sulle lenzuola rosse di sangue. E lui che accarezzava la guancia di suo figlio. E che se lo metteva sulle ginocchia.

«Tu… tu sei L…»
«Taci! Quel nome non è fatto per i mortali», gli dice, posandogli un dito sulle labbra. «Io sono tuo padre. Ciò ti basti.»
Lukas annuisce. Annuisce mentre un profondo senso di vertigine lo rende leggero. Come se lui stesso fosse aria calda che vuole salire in alto, ed abbandonare il freddo ed il gelo del suo regno.
«Il tuo nome lo ha scelto lei. Lo ha
gridato. Con tutto il fiato che aveva in gola. Le è sempre piaciuto. Diceva che fosse giusto così. I figli ereditano il nome dai padri, dopotutto, no?» Il tizio – suo padre – torna a sorridere. «Ti piace questo luogo, Lukas?»

E Lukas annuisce. Di nuovo. Perché sì, quello è il luogo dov’è cresciuto. Dov’è nato. La sua terra, dove affondano le sue radici.
«Sì», dice – soffia fuori – osservando il profilo della torre di sinistra stagliarsi contro la luna. Come a volerla pungere. Per dispetto. «Non voglio partire…»
«Lo capisco. Anch’io sono un esule in terra straniera, sai? Ma, ciò nonostante, a volte bisogna fare ciò che si
deve e non ciò che si vuole
«Ma io…»
«Ma tu?»
«Io voglio restare. Voglio governare questo regno. È un mio
diritto
«Un tuo
diritto? Davvero?» Lukas annuisce. «Ma tu non sei figlio di re Åkon, figliolo. Sei mio figlio. Che ti rende…»
«Un semidio?»
«Piano con le parole, ragazzo. Piano. Le parole sono importanti, sai? Sono potenti incantesimi, se usate come si deve. Per questo non le puoi sparare fuori dalla tua bocca come se fossero le cartucce di una mitragliatrice.» Il tizio sorride. La sua mano si stringe con maggior forza attorno alla spalla di Lukas. «Hai molti fratelli e sorelle sparsi per il mondo, Lukas. Ma quelli che conosci tu, quelli che popolano i racconti delle vecchie leggende e delle antiche religioni, no. Non sono tuoi fratelli e sorelle. Loro sono ad un livello superiore, figliolo. Loro sono
dei
«E io?», gli chiedono gli occhi spalancati di Lukas. Gli occhi del bambino che viene lasciato indietro dai compagni, che non riceve il dolce dopo cena, come i suoi fratelli e sorelle.
«Per te ho altro in serbo, figliolo. Qualcosa che tu, piccolo essere umano, apprezzerai di certo. L’immortalità può essere una gran seccatura, sai? Ma per quello c’è sempre tempo…»
«Hai… hai trovato un modo per permettermi di tenere il trono?», gli chiede Lukas. Fissando la luna splendere argentea nel cielo.
«Lukas, Lukas, Lukas… Io ti offro il mondo e tu mi parli di salsicce!» Il tizio ha un’aria delusa. Un tono di voce sconfortato.
«Il… mondo?»
«Esatto. Ma il mondo non è una caramella che puoi metterti in tasca alla mattina, appena sveglio. No, non funziona così. Te lo devi lavorare, il mondo. E devi distrarre i tuoi rivali. Che sono tanti. E invidiosi. E stupidi. Devi mostrare loro un’esca. Un abbaglio. Uno zimbello da seguire. Mentre tu ti occupi di altro.»
«Per questo devo andare ad Asgard?»
Suo padre annuisce.
«Esatto, ragazzo. Devi andare ad Asgard e lavorare per me dall’interno.»
«E tu?»
«Io? Io resterò qui e governerò Vanheim come re Åkon. Voglio vivere un paio d’anni come un essere umano. Sarà divertente, vedrai. E poi devo avere un posto dove poter pensare. Lontano da sguardi indiscreti, tu capisci?»
«E poi?»
«Tempo al tempo, Lukas. Ti manderò a chiamare quando sarà il momento di entrare in scena. Ma adesso non parliamo di questo. Abbiamo tutta la notte davanti. Per chiarirci e per conoscerci. Per chiacchierare. Godiamoci la luna, adesso. Dimmi, non è bellissima, stasera?»








Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Aggiornamento di giovedì, come un bel piatto di gnocchi.
C'è tantissima carne al fuoco in questo capitolo, per cui vediamo di fare ordine.

Mi piace essere il più accurata possibile in quello che scrivo, ragion per cui, mi documento. Mi informo. Faccio ricerche. Ma la pratica, come si suol dire, val ben più della grammatica. Specie in campo medico. Sotto coi disclaimer, dunque!
Il massaggio cardiaco fa parte del cosiddetto BLS - Basic Life Support - una serie di manovre di primo soccorso che tutti dovrebbero essere in grado di eseguire all'occorrenza. È utile seguire un corso per conoscere queste manovre ed eseguirle correttamente, prima di improvvisare; tutti gli ospedali delle grandi città organizzano corsi di primo soccorso all'interno delle loro strutture. Sono gratuiti e possono sempre tornare utili, nella vita.
Ovviamente, trattandosi di finzione, mi sono concessa delle libertà. Il massaggio cardiaco serve a mantenere in vita l'infortunato fino a quando non arrivano i soccorsi ed il personale medico specializzato ed addestrato. Un massaggio cardiaco salva una vita, sì, ma è impensabile che una persona colpita da un infarto, ad esempio, si rimetta in piedi dopo un massaggio. Fantascienza. Letteratura pura. E come tale deve essere considerata la descrizione delle manovre di rianimazione presenti in questo capitolo. Patti chiari, amicizia lunga.

Stessa cosa dicasi per i soccorsi da prestare in caso di assideramento. Mai mettere qualcuno di assiderato a bagno nell'acqua calda. Mai. Anche qui, lasciate perdere la letteratura e copritelo, piuttosto. E se frequentate le montagne durante la stagione fredda, seguire un corso di primo soccorso sulla neve male non farà. Anzi.

E parlando di posti innevati, Freya e suo fratello Freyr non sono Asi. La mitologia norrena comprende due specie di divinità, gli Asi (divinità guerriere) che vivono ad Asgard e i Vani (divinità legate al culto della terra), che abitano le pianuire di Vanheim. Secondo le leggende, vi furono due guerre tra Asi e Vani, e alla fine dell'ultima i Vani inviarono ad Asgard alcune divinità come scambio in seguito ad un trattato di pace: Freya (l'amore e la bellezza), Freyr (fertilità), Ullr (l'inverno) e Njordr (il mare).

Ho avuto modo di apprendere dalle opere della bravisisma Callie Stephanides che era uso tra i vichinghi riconoscere la propria figliolanza posandola sulle proprie ginocchia. Non so se quest'uso fosse stato tramandato da Tacito o da un altro autore della classicità. Da Callie l'ho appreso e lei cito come mia fonte.

Non ho resistito. Nel 2004 sulle pagine di Amazing Spiderman (#503 e #504) L'Uomo Ragno va in giro con una certa gentile personcina a risolvere un problemuccio che riguarda la di lui figliola (della gentile personcina, non dell'Uomo Ragno). Non ho resistito e ho dotato Voi-Sapete-Chi di una discendenza terrena. Ma gli ho tolto corna dorate e abiti verdi e gialli, giurin giurello.

E prima di affondare la forchetta nel mio piatto di gnocchi, una comunicazione di servizio. Purtroppo ho una fastidiosa tendinite al polso e devo tenerlo a riposo. Cercherò di essere il più puntuale possibile con gli aggiornamenti - basta copiare ed incollare da word - ma per qualche giorno non potrò rispondere ai vostri commenti. Sappiate, però, che li leggo tutti. E che vi sono grata per l'affetto con cui state seguendo quest'avventura. Alla prossima! Ci conto.
   
 
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