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Autore: Biecamente    19/02/2015    5 recensioni
Angst è una parola onomatopeica. Indica il suono - tipo una ventosa che si stacca - dei polmoni che si aprono per accogliere aria. E poi si riattaccano tra loro. Perché, per quanto tu possa respirare, resti comunque boccheggiante come dopo un immenso sforzo fisico.
Questo è per me l'angst e ho cercato di renderlo al meglio. E "workingclassheroin è la mia padrona e io giuro che non farò mai più soffrire Jawn Lenin perché ci sta più male lei che Jawn stesso".
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«John, hai l’asma per caso? Dobbiamo prendere una bombola d’ossigeno? Guarda che qui ce ne sono un sacco, se hai bisogno» diresti sghignazzando. Chi non lo farebbe? Probabilmente è la prima e ultima occasione di vedere John Lennon in uno stato simile. E annaspa, frattanto tenendosi sempre a quella dannata sbarra.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Epstein, John Lennon, Paul McCartney
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Paul is alive
alias breathless
a fanfiction by Biecamente




 
La dedico a quella bellezza della mia ragazza
perché è grazie a lei se ora mi struggo tanto indecorosamente per questi due.
E perché noi due siamo uguali a questi idioti qui sotto, e non sto esagerando.
E ti amerò sempre, sappilo.


Altre citazioni dovute - oltre il dito medio della sopracitata alla fine della lettura della roba sotto.
"Sto scrivendo il dolore; Sto scrivendo l'anticristo della tranquillità", workingclassheroin
 
Il mio amico, stavolta, non aveva frasi faighe da darmi.
L'ho lasciato nell'autobus in lacrime, poverino.

 


 

Angst è una parola onomatopeica.
Indica il suono - tipo una ventosa che si stacca - dei polmoni che si aprono per accogliere aria. E poi si riattaccano tra loro.
Perché, per quanto tu possa respirare, resti comunque boccheggiante come dopo un immenso sforzo fisico.







 

«Voglio metterlo in chiaro una volta per tutte». La voce di John Lennon gracchiava alla radio. «Questa cosa della morte di Paul è l’ennesima montatura».

Tutto era cominciato dopo il 7 gennaio ’67. Tre incidenti stradali di seguito non potevano essere casuali, così parlavano i fan. E la sera del 7, Paul aveva commesso l’imprudenza di volare con la propria mini cooper oltre il ciglio della carreggiata, l’ardire di lasciare la propria dentatura contro il volante, addirittura farsi oltrepassare il petto dal ramo crollato sul parabrezza.
Come minimo avrebbero parlato! Stupido Paul a pensare di poter accartocciare in tal modo il cofano della propria auto contro un albero senza averne conseguenze.

Respira! Cazzo, Paul! Respira!

«Ma poi— immagino che tu ne sappia più di me». Alla radio, gli ascoltatori non potevano vedere la gomitata che John tirava allo speaker. «Tutti ne sanno più di me».

Se non vuoi farlo per te, se non tieni a vivere per te stesso, fallo almeno per questo povero John Lennon. Fallo per questo poveraccio che è accorso in questo squallido ospedale con l’idea di trovarsi un fan e invece—
Non riesce neanche a pensarci. Paul, guardalo, ti sta pregando; apri quelle dannate palpebre sul volto sfigurato e guardalo. E’ ridicolo. Oh, come rideresti a vederlo Paul. Ha le nocche sbiancate da quanto convulsamente stringe la sbarra della barella. E il fiato gli si blocca in gola, soffocandolo in un tormento atroce.
«John, hai l’asma per caso? Dobbiamo prendere una bombola d’ossigeno? Guarda che qui ce ne sono un sacco, se hai bisogno» diresti sghignazzando. Chi non lo farebbe? Probabilmente è la prima e ultima occasione di vedere John Lennon in uno stato simile. E annaspa, frattanto tenendosi sempre a quella dannata sbarra.
«Oh, John, ho trovato qualcosa di tuo. La tua maschera» e sorrideresti.

«Io Paul, lo vedo tutti i giorni. Scriviamo musica. Cantiamo, registriamo. Ma sembra che tutti ne sappiano più di me. Forse Paul non va mai a cantare con loro. E sono tanto tristi».
Seppur fosse un’intervista alla radio, non riusciva a trattenersi dal dare spettacolo: sporgeva il labbro inferiore in fuori mentre parlava. «Ma tanto tristi—».

Paul, cazzo! una sola cosa ti sta chiedendo con gli occhi lucidi, sbarrati dallo strazio; ti chiede di aprire gli occhi, solo questo e in cambio potrai vantarti tutta la vita di averlo visto così.  Ma le palpebre restano sigillate su quelle guance scavate - la bocca vuota di denti in una smorfia deforme.
«John, chi è la principessa, adesso? La damigella da salvare?».
E un groppo in gola gli soffoca l’urlo, il pianto acquoso che è ormai un piatto indigesto in fondo allo stomaco. Avrebbe dato un pugno al muro, un pugno alla barella, un pugno anche allo stesso Paul - fanculo! perché non reagisci? - se avesse potuto. Chiuso lì, in quella fottuta stanza d’ospedale con il corpo privo d’identità di un fan, non può neanche socchiudere le labbra. Non sa cosa ne uscirebbe. Anche questo è divertente, Paul. Anche solo per questo potresti sollevare la palpebra. John Lennon senza parole, con la bocca vuota d’insulti come le tue gengive sanguinano i denti persi.
Al pensarlo, John è costretto a sedersi. Le gambe indietreggiano un paio di vacillanti passi e crolla sulla sedia di plastica. Non lo vede nessuno, ora? Sono tutti occupati? Per favore, concedetegli almeno un attimo, un attimo di respiro dall’essere John Lennon. Ne riprenderà le vesti subito, sarà freddo e ironico come lo volete. Ma ora un attimo; ha bisogno solo di un respiro.
Nasconde il volto tra le dita bianche delle ossa d’un morto, si accartoccia su se stesso e un rantolo asfissiato gli fugge dalle labbra. Riecheggia rumorosamente nella stanza vuota, come sia d’un tratto piena di vecchi rantolanti malattie.


«Non so da dove sia iniziata; si diffonde a macchia d’olio. Ormai tutti ne parlano, tutti sanno tutto— Però devo dire che mi sento molto fortunato».

«Paul». E’ la prima volta che parla da quando è accorso al tuo capezzale. Come minimo dovresti rispondere.
«Paul». La sua voce è un singhiozzo modulato a mo’ di parola, un leggero spasmo delle labbra. E proprio dovresti rispondere a tutta questa angoscia. E’ troppa, basta ad uccidere un uomo.
«Paul, io—». Chissà cos’altro avrebbe detto in quel parlare tremante, ma è interrotto.
«Zitto, coglione. Zitto» gli intima appena entrato, Brian Epstein. Detta legge, lui, quando parla e John ingoia gli ultimi rantoli. «Già siamo stati fortunati, mica vogliamo rovinare tutto così. Chi si immaginava che il caro Paul se ne andasse in giro senza documenti addosso? Solo una vecchia foto spiegazzata nel portafoglio—».
«La facemmo a Liverpool. Erano un paio di giorni che—».
«Sì, sì, conosco la storia, John. Non c’è bisogno che me la racconti di nuovo» e affonda la mano tra i suoi capelli, un sorriso triste sulle labbra. «Va tutto bene, John?». Lo guarda, lo guarda fisso scrutando dietro gli occhiali - le lenti troppo limpide per un simile momento.
Il silenzio è la sola risposta e il meccanico bip dei macchinari a cui è collegato Paul a fare da sottofondo. Un respiro di quelli profondi, di quelli che gonfiano i polmoni senza riempirli. 
«John, ricorda, siamo stati fortunati».

«E’ Paul quello che ogni giorno deve toccarsi i coglioni. Non io. Ogni volta che cominciamo a lavorare a qualcosa di nuovo, lui si strizza il pacco. Qualsiasi verso scriviamo verrà mal interpretato. Io ci convivo. Lui si tocca i coglioni».
Era perfettamente a proprio agio mentre parlava così - padrone della situazione. Il gomito sul tavolo, la mano protesa attorno al microfono quasi per sussurrarvi un segreto.
«Credetemi, se li sta consumando a furia di scacciare il malocchio. E quando lo guardo mi sento sempre più felice di essere vivo. Davvero non sarei mai capace di fare il morto».

Un altro respiro, l’ennesimo. E John ancora soffoca. «Dici? Perché io lo vedo lì con tutti quei tubicini che gli spillano la pelle. E non reagisce: non si muove, non apre gli occhi, quasi non respira… Forse—» è morto gli resta incastrato in gola, solo che non può tossire per cacciarlo fuori. Sempre gli impedirà di respirare, bloccato lì tra il palato e la laringe. Quel Paul è morto che, silente, per un attimo regna nella stanza.
Brian gli accarezza la guancia. «Sì. E’ morto».
Nulla come realizzarlo potrebbe cadergli addosso con lo stesso peso, alla stessa asfissiante velocità. Paul, negalo! Paul, tu sei qui, sei qui ora - dì a Brian che non sei morto! Socchiudi l’occhio, contrai di un minimo movimento il mignolo: basterà. Gli basterà. A John basterebbe anche un sospiro, un tuo dolce sospiro che si stacchi leggiadro dalle tue labbra.
E invece, niente. Unicamente, il niente solcato dal bip meccanico e dalle parole di vana consolazione di Brian.


«John, allora, ci assicuri che Paul è vivo e vegeto?».
«Per le sue palle non posso assicurare - potrebbero essere morte soffocate. Però lui sì. Paul è vivo».

«Vattene». Non sa neanche da dove gli è giunta la forza di pronunciare quelle poche sillabe. Eppure le sputa lì, contro Brian. «Non ho bisogno di te. Ho solo bisogno di un bicchiere di whiskey».
«Eccoti, John! Bentornato! Pensavo ci avresti messo più tempo a metabolizzare la cosa— In fondo eravate molto amici. Ma ora, lasciamo perdere questi convenzionali. E’ un bicchiere di whiskey che vuoi? Un bicchiere di—». Un fiume ininterrotto di parlare esagitato che nasconde quell’ultimo bip - quello lungo, acuto dal sentore mortale.
«Sta’ zitto. E vattene». E’ di schiena che gli si rivolge e guarda Paul. Gli accarezza quel volto distrutto, sperando ancora nascostamente che reagisca. Una lacrima - l’unica in quella fottuta serata - gli solca la guancia accanto al profilo del naso. Sente la porta della stanza richiudersi dietro Brian e respira.
«Ci provi ancora, John? Ma lo sai benissimo che non potrai mai più respirare. Non finché ci sarò io a chiuderti i polmoni, non finché avrai la parola morto a ostruirti la laringe. Perché sai, la manovra di Heimlich funziona solo con il cibo».


E ripeté con la serietà di un condannato a morte. «Paul è vivo».
  
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