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Autore: Fannie Fiffi    21/02/2015    2 recensioni
[Clarke Griffin!Centric; Bellarke; post 2x13]
« Sei sveglio? » Pausa. « Mi ricevi? Ho ucciso un uomo, stanotte. Passo. »
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"I am become death, the destroyer of worlds." 

Robert Oppenheimer.
 

 







Clarke Griffin sa bene che il sonno è un vanto che non può più permettersi.

È forse la cosa più facile da accettare, fra tutte le cose che ha dovuto affrontare fino a quel momento: non ne ha il diritto.

Ne è consapevole, e le sta anche bene. Le sembra quantomeno giusto. (Cosa vuol dire, poi, giusto? È giusto essere costretti a permettere che avvenga un massacro di vite innocenti? È giusto sopravvivere al posto di altre persone, persone che erano madri, e mariti, e figli? Persone che erano migliori di lei?)

Gli assassini non dormono. Non riposano. Non con tutti quegli occhi e quei volti, quelle mani di lavoratori e schiene stanche pronti a tormentarli.

Si guarda intorno, seduta davanti ad un fuoco che si è spento da chissà quanto tempo, e con instancabile stoicismo passa in rassegna i corpi che la circondano.

Corpi pronti a perdere la vita pur di tenerla al sicuro, corpi oppressi da un ordine superiore: la protetta del Comandante resta viva a tutti i costi.

E la protetta del Comandante non può fare a meno di chiederselo, perché diamine lei abbia questo diritto.

Perché è la leader del Popolo del Cielo? È sua madre il Cancelliere.

Perché s’è attirata la simpatia – simpatia che, diciamolo, va intesa come mera approvazione – di Lexa?

(Lexa non prova simpatia per le persone. Lexa sa semplicemente a quali persone dover tagliare la gola e a quali, invece, evitare di far tagliare la gola. È stata la prima cosa che le hanno insegnato.)

Clarke vorrebbe saperlo, perché in qualche modo c’è sempre qualcuno pronto a proteggerla. Vorrebbe proprio sapere cosa, in questo momento, la renda indispensabile per la missione.

Perché lei non si sente proprio utile. Non si sente nemmeno indispensabile, a dirla tutta. È che l’unica certezza che ha è che ormai è sicura che non ci sia nulla che non farebbe pur di annientare il Monte.

E non è mai stato così che sarebbe dovuta essere la sua vita: è che lei non sapeva nemmeno cosa significasse la parola vendetta, prima di qualche anno fa.

Prima di sentirsela scorrere nel sangue e bruciarle gli organi, o prima di scovarla a  pizzicarle sulla lingua ogni volta in cui apre bocca.

C’è davvero una parte di lei che si oppone a tutto questo – a quest’oscurità che le sguazza fra le dita e le annebbia i pensieri – e che le urla, fino a sgolarsi, di non perdersi. Di non perdere di vista quale sia veramente il suo compito.

Ma la maggior parte delle volte, pensa Clarke, questa parte riesce a sopprimerla. A farla tacere. Perché lei non lo sa più quale sia il suo compito. Perché non riesce proprio a capire, diamine, per quale motivo la sopravvivenza della sua gente debba essere per forza legata alla morte di altre persone.

Perché, in questo mondo malato, non può semplicemente salvare i suoi amici, e riportarli a casa, e vivere la vita che fino ad ora gli è stato proibito di vivere, a tutti quanti loro.

E chi l’ha deciso che debba essere proprio lei ad ammazzare quelle persone? Non vuole essere lei a farlo. Non l’ha mai voluto.

Eppure oggi ha premuto il grilletto. Bam, senza esitazione. Ha guardato negli occhi il cecchino e ha fatto fuoco, un colpo secco, dritto al cuore.

Lei non la vuole questa responsabilità. Non la vuole questa rabbia che la divora da dentro, che le infiamma gli occhi, la gola, e le fa tremare le mani. Eppure c’è.

Questa nebbia nera s’è fatta strada dentro di lei piano piano, prendendosi un pezzettino alla volta, reclamando ogni giorno un piccolo angolo della sua gabbia toracica, finché non si è impadronita dei suoi polmoni e non si è appropriata dei suoi respiri.

Clarke ha provato a buttarla fuori, davvero, a espirare così tanto da farsi bruciare il naso, ma la nebbia è rimasta.

Si è annidata in profondità, in un posto che lei non può raggiungere. Un posto che non potrebbe raggiungere nemmeno se si aprisse il petto a mani nude e scavasse con le dita fino a toccarla e a strapparla via.

La vendetta e la rabbia ti controllano, ma dipendono anche da te. Sono tue, ti appartengono fin nel midollo, e prendono il comando solo se tu glielo permetti, solo se le lasci fare.

La vendetta e la rabbia sono dei demoni pronti ad obbedirti, se sei abbastanza forte da importi su di loro. Da sfruttarle a tuo vantaggio.

Il fatto è che Clarke non sa più cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, ed è colpa della Terra.

Quello che la spaventa più di tutto, però, quello che le fa raggelare le ossa, è che lei questo pianeta lo odia perché lo ama, e perché per questo motivo gli ha permesso di distruggerla.

E sa che è colpa di questo mondo che si prende gioco di lei come un grande burattinaio può prendersi gioco delle sue marionette, che la affascina e la seduce, e che le mette davanti scelte che potenzialmente sono tutto, ma poi si rivelano il nulla.

E lei lo sente questo nulla, quest’intorpidimento scivolarle sotto i piedi e soffiarle dietro al collo, senza poter fare assolutamente niente per fermarlo.

Ma forse è la notte, questa notte, che la confonde. Che le fa pensare di poter pretendere di sapere anche la minima cosa di quello che le sta succedendo.

Forse sono le parole di sua madre che le bruciano nel retro della mente, a farle pensare queste cose.

O forse è semplicemente il fatto che Clarke non sa più cosa dovrebbe essere, cosa gli altri si aspettino che lei sia.

Con un’occhiata veloce e fulminea al proprio bagaglio – la radio che Raven le ha lasciato e qualche pugnale facile da nascondere – la giovane Griffin sa subito di cosa avrebbe bisogno in questo momento.

Ed è troppo, troppo stanca per pensare anche a questo. Per dare un senso, o una motivazione, anche a questo.

Attorno a lei, il gruppo di Grounders dorme senza fare rumore sotto al cielo notturno e solitario.

Si allunga verso il proprio zaino ed afferra la ricetrasmittente, mettendosi finalmente a sedere. Si avvicina l’affare alla bocca, stringendolo forte nella mano sinistra, poi parla.

« Sei sveglio? » Fa una pausa, prende un respiro profondo. « Mi ricevi? Ho ucciso un uomo, stanotte. Passo. » Confessa.

Non sa se Bellamy sia in grado di ricevere il messaggio, non sa se questo dannato affare funzioni, sa solo che da quando si sono separati tutto è andato nel peggiore dei modi.

Trascorrono alcuni minuti, in cui Clarke si perde nella silenziosità della foresta interrotto solo dai lievi respiri dei suoi compagni di viaggio addormentati, e non arriva nessuna risposta.

Sta quasi per buttare via la radio e rimettersi ad aspettare silenziosamente l’alba, quando dalla radio sente risuonare un rumore e qualcuno parla dall’altro lato della linea.

« Cos’è successo? » È la sua voce. È lontana, profondamente roca e metallica, ma è la sua voce.

Lei chiude gli occhi, reclina il capo contro la corteccia dell’albero.

« Avevano mandato un cecchino. Sai, per finire il lavoro dopo il missile. Io l’ho ucciso. »

Clarke ha paura dell’apatia con cui pronuncia quelle parole. Ha paura dell’indifferenza che sente graffiare contro la gola.

E, nonostante questo torpore dei sensi, non riesce a smettere di provare.

Lei prova ancora tutto: il dolore, l’angoscia, la disperazione. È ancora tutto lì, e, per quanto ci provi, non riesce a spegnerlo.

Vorrebbe solo strapparsi questa maschera di freddezza dalla pelle, squarciarsela di dosso a costo di perdere le unghie nel tentativo.

Bellamy è silenzioso dall’altro lato dell’apparecchio, e a lei va bene così.

Se sia caduta la linea o se semplicemente non abbia parole da rivolgerle, non le interessa. Ne ha solo bisogno.

Quando parla, distogliendola dall’oscurità della selva che la circonda, dalla foschia degli alberi e dall’umidità delle foglie, la sua voce fa crack, viene coperta dal segnale disturbato, ma è comunque il suono più rasserenante che lei abbia sentito durante l’ultima settimana.

« Stai bene? » Conosce quel tono. Riconoscerebbe ognuno dei suoi toni ovunque, ma questo è indistinguibile: preoccupazione.

È lo stesso tono che ha usato in quello che ormai sembra solamente un ricordo lontano, quando la malattia del sangue aveva indebolito l’intero campo e avevano temuto per il peggio.

La giovane Griffin sente una voce nella propria testa, incredibilmente simile a quella di Lexa, suggerirle di confermare, che certo, perché non dovrebbe stare bene? Non ha alcun motivo per non stare bene.

Eccetto tutti i motivi del mondo.

E forse non riuscirebbe a spiegarlo a parole, ma c’è un peso nel suo petto incapace di andarsene, di lasciarla anche solo per un momento: odio. Odio per questa guerra, che l’ha trasformata in causa e portatrice di morte.

Odio per il Monte, che le ha tolto tutto proprio sotto i suoi occhi: una famiglia, una casa, una ragione per essere se stessa.

Perché Clarke non può più essere se stessa, ha perso questo privilegio nel momento in cui ha tagliato la gola al Grounder che la teneva prigioniera.

Non sta bene. Non c’è niente che vada bene. Non a giudicare dalle lacrime che ogni giorno le si annidano negli occhi, gocce amare pronte a rivelare il suo gioco a chiunque abbia un minimo di riguardo per accorgersene.

Per questo motivo, perché lei non riesce a smettere di provare, non ne è capace, non può nemmeno fingere.

« No, Bellamy. » Afferma, e la sua stessa voce le provoca disgusto, una repulsione che batte insieme al cuore e le pompa disprezzo nelle vene, mescolandosi alla stessa linfa che la tiene ancora viva. (Ma è davvero viva?)

« Sei ferita? » Le parole le arrivano chiare e distinte, nonostante stiano comunicando praticamente grazie ad un rottame che non dovrebbe nemmeno funzionare.

« Non mi ha fatto del male, no. Ma… Non so più cosa fare, Bellamy. » Sussurra, e per un attimo la paura le raggela le membra.

Clarke è terrorizzata. È terrorizzata da se stessa, da quello che ha avuto il coraggio di fare – orrori che fino a qualche anno fa l’avrebbero profondamente sconcertata – e da quello che, invece, non sarebbe disposta a fare per la propria gente.

È rimasto davvero qualche crimine per cui non si sporcherebbe le mani? Esiste ancora qualcosa che lei non sia capace di fare?

Finirà mai questo vortice, quest’uragano senza principio né fine in cui è stata risucchiata? Potrà mai trovare riposo?

« Stai facendo quello che devi fare per salvare la nostra gente, Clarke. Stai rimanendo viva. »

Le assicura lui con quella sua voce profonda e grave, capace di snocciolare la più dolce delle parole e di sputare il più tossico dei veleni, quella voce che vorrebbe dipingere, se solo sapesse come.

La voce che le scava fra le costole senza fare male e si insinua nei solchi delle sue ossa, completandola.

« Sono persa. » Bisbiglia ancora più piano, un po’ perché non vuole che nessuno dei suoi compagni si svegli – lancia un’occhiata al Comandante che dorme qualche piede più in là, un coltello sempre stretto al petto – e un po’ perché spera che lui non la senta, che non possa accorgersi di quanto stia crollando in mille pezzi.

Lo sente sospirare il suo nome, e vorrebbe chiedergli di ripeterlo, di chiamarla ancora e ancora, se questo potesse servire a farle ritrovare se stessa.

« Non so più chi sono, Bellamy. »

Vorrebbe implorarlo di guidarla fuori dal tunnel buio in cui si è completamente perduta, ma sa che lui è solo un uomo. È proprio come lei. E non può salvarla, non stavolta.

« Non voglio essere quest’assassina. Non voglio, » tira su con il naso, e ormai le lacrime sono scese, si sono versate senza pietà sul suo volto stanco, e non c’è alcun modo in cui lui non se ne sia reso conto, « Non voglio più lottare per qualcosa che nemmeno esiste. »

E niente di quello è giusto, o va bene. Dio, lei è quella che aggiusta le cose e cura le ferite. Lei rimette insieme i pezzi, ma ora non sa nemmeno come abbia fatto a distruggerli in primo luogo.

In quel momento, appoggiata contro la corteccia di un albero, circondata da quelli che erano i suoi nemici – smetteranno mai di essere tali? Sarà forse costretta, un giorno, a dover uccidere anche Lexa? Non vuole pensarci. – Clarke non ha mai provato così tante cose tutte insieme, senza sentirle veramente.

E si è quasi convinta di star perdendo la testa. Di essere diventata pazza, annientata totalmente dalla follia che quel mondo le ha ficcato nella mente a forza di sangue e battaglie.

Quella dev’essere l’unica spiegazione al fatto che sia in grado di sentire nulla e tutto simultaneamente, come due pesi di una bilancia che la trascinano giù, ognuno da un lato, senza però farle perdere l’equilibrio.

E forse il momento peggiore sarà proprio quando uno dei due differirà dall’altro, quando sarà l’intorpidimento o la pienezza ad accaparrarsi la vittoria, e lei cadrà.

Perché ne è consapevole, certo, che un giorno cadrà. Che la vittoria potrebbero anche non raggiungerla mai.

« Ehi! » La voce di Bellamy arriva a distoglierla da quei pensieri prima che sia troppo tardi e si addentri in un vortice troppo pericoloso, e la giovane Griffin prende un respiro profondo, perché non vuole più piangere. È stanca, tremendamente stanca di farlo.

« Io so chi sei. Sei la nostra leader. E tutto quello che devi fare è andare avanti, non fermarti mai, continuare a combattere come hai fatto fin dall’inizio. Come abbiamo fatto fin dall’inizio. Ti ricordi quando ci stavamo preparando per l’attacco dei Grounders? »

Notando il silenzio che ottiene in risposta, il maggiore dei Blake continua: « Ti ricordi, Clarke? »

La bionda annuisce solo per accorgersi che lui non può vederla, quindi sussurra subito dopo: « Sì, mi ricordo. »

« Eravamo più deboli, eravamo molti di meno, non avevamo armi a sufficienza, ma abbiamo lottato. Abbiamo combattuto fino allo stremo, perché dovevamo rimanere vivi. Perché quella era la nostra casa e nessuno aveva il diritto di portarcela via, perché l’avevamo costruita con le nostre mani e ci apparteneva. Ti ricordi quella sensazione? »

La voce di Bellamy è gloriosa mentre le racconta il loro passato come racconterebbe un passo dell’Iliade, con la passione e la foga di chi vive nelle proprie parole. Di chi le vive come un secondo strato di epidermide.

Le loro storie fanno parte di loro, e non hanno intenzione di arrendersi per smettere di raccontarle.

« Era diverso, sai che lo era. » Lo contraddice lei, anche se non può impedire al ricordo dell’adrenalina della lotta di farle provare un brivido lungo la schiena.

« Perché eravamo insieme », le ricorda Bellamy, « ma lo saremo di nuovo, okay? Tutti noi. Jasper, Monty e Miller stanno bene. Gli altri stanno bene. Dovresti vederli, sono così forti. »

E Clarke può quasi toccare con mano l’orgoglio che sente mischiarsi dolcemente alle sue parole, la fierezza del suo tono forte.

« Mi mancano. » Ammette Clarke. Mi manchi, ma evita di dirlo ad alta voce. Non è ciò di cui hanno bisogno in questo momento.

« E tu manchi a loro. » Mi manchi anche tu, e non è necessario aggiungerlo. « Ma andrà tutto bene, okay? Octavia è lì con te? »

Quasi non le sembra vero, ma la giovane Griffin sente quasi un pizzico agli occhi. È davvero… sonno? Stanchezza? Finalmente la richiesta di riposo?

Senza allentare la presa dalla radio, attenta a non fare troppo rumore, si gira su un fianco e sprofonda contro la terra, sdraiandosi nuovamente.

Non sa quanto tempo sia passato da quando lo ha contattato, né vuole sapere se qualcuno abbia sentito i loro bisbigli lontani, sa solo che non vuole smettere.

« No, non è qui. È rimasta a Tondc insieme a mia madre e a Lincoln. È al sicuro. »

« Non è andata molto bene, l’ultima volta che me lo hai detto. »

La bionda si passa una mano sul volto, e sospira: « Non volevo mentirti, Bellamy, ma avevo bisogno che rimanessi concentrato. Stavo solo cercando di- »

« Di proteggermi, lo capisco. Solo… La prossima volta dimmelo, okay? »

« Odio mentirti, lo sai. » Mormora lei.

« Va tutto bene. Ti senti meglio? »

Prima che abbia la possibilità di rispondere, riesce a sentire un’altra voce dall’altra parte della radio, e subito dopo: « Sì, è Clarke. Certo, va bene. »

« Che succede? » Domanda lei, una volta caduto il silenzio dall’altra parte della connessione.

« Non preoccuparti, era Maya. Si chiedeva se stessi parlando da solo. » Accenna una risata, e lei non può fare a meno di volerlo veder sorridere.

Come se fosse normale, come se non fossero soldati e figli di una guerra senza tempo e senza arresto, come se fossero due ragazzi normali, simili a quelli dei libri che gli facevano leggere sull’Arca.

Per un attimo Clarke desidera guardarlo ridere come se fosse la cosa più semplice del mondo.

« Oh. Sei… Sei con lei ora? » Non è che sia sorpresa, è ben consapevole del fatto che i due stiano collaborando per liberare la loro gente, ma prova una strana sensazione al solo pensiero di immaginare il suo co-leader lavorare con qualcun altro. Qualcuno che non sia lei.

La fa sentire completamente e infinitamente sola.

« Suo padre ci permette di nasconderci qui, per il momento. Stiamo elaborando nuove tattiche. »

« Bene, bene. È una cosa positiva. » Annuisce più per se stessa che per lui, continuando a domandarsi se è così che le cose sarebbero dovute andare fin dall’inizio.

Se lei sia stata fin dall’inizio destinata a stargli lontana, ad essere separata da lui.

Come se parlare a un pezzo di metallo che ha la voce di Bellamy sia l’unico tipo di confessione o di assoluzione che possa meritare.

Entrambi non dicono più niente, ma rimangono consapevoli della presenza dell’altro.

Pur aggrappati ad un segnale che potrebbe svanire da un attimo all’altro, spegnere le loro voci come si spegne il sole dopo un’intera giornata trascorsa a girare su se stesso e farle svanire via, lontano, come echi distanti, loro rimangono lì, con le radio in mano e la testa piena di parole.

E forse qualcuna di queste dovrebbero dirsela – hanno imparato, ormai, che la Terra non offre tempo a chi non sa sfruttarlo – perché domani stesso potrebbero non esserci più.

Perché Bellamy potrebbe venir scoperto e il suo midollo osseo potrebbe concedere ai polmoni di qualcun altro di respirare per la prima volta l’aria della Terra, e perché Clarke potrebbe non essere fortunata come oggi e cadere vittima dell’ennesimo cecchino.

Quindi, certo, lo sanno entrambi che dovrebbero parlare, che alcune cose dovrebbero proprio dirsele, dopo tutto questo tempo, ma non lo fanno.

Non perché abbiano paura – arrivati a quel punto delle loro vite, quando ogni nuova alba è un piccolo sospiro di vittoria e una grande fatica d’anima, le parole sono le ultime armi da temere – quanto perché non vogliono rivelare segreti e poi portarsene il peso sulle spalle.

Perché sono ben consapevoli che poi, irrimediabilmente, si avvererebbe la possibilità di perdersi. Perché dire addio implica per forza una separazione, una successiva sconfitta, una inevitabile perdita, e loro non possono, non possono, accettare o perfino prendere in condizione l’idea che non si rivedranno presto.

Perciò rimangono in silenzio, senza dire nulla, dato che forse questo fa capire molto più di quanto possano lasciar intendere.

E in fondo lo sanno tutti e due che fra loro non c’è mai stato bisogno di parlare, di spiegare, poiché ci hanno sempre pensato i loro occhi.

E anche se è da un po’ che non li ha davanti, quegli occhi neri e sicuri che ogni volta la riportano ai giorni alla navicella, Clarke li vede comunque e in loro ci crede comunque.

Non riesce ad impedirsi, però, di pensare a come sarebbe averlo lì.

A come sarebbe voltarsi con la sicurezza di trovarlo lì, magari mentre è impegnato a parlare con qualcuno o a camminare dal lato opposto del campo, e semplicemente sapere di non essere sola, di essere in due a far parte di un meccanismo molto più grande e potente di loro.

Immagina come sarebbe se in quell’esatto momento lui fosse steso al suo fianco, e il suo respiro dentro al suo petto le accarezzasse lievemente i capelli dietro l’orecchio, e ci fosse lui a proteggerla, anche se, ormai è ovvio, Clarke Griffin non ha bisogno di nessuno che la protegga.

Sarebbe bello comunque, però.

E fra tutte le cose che vorrebbe dire, fra le scuse che sa di dovergli e le promesse che le piacerebbe fargli, una se la fa scappare. Una sola, ma per ora va bene.

Quando parla, il suo sussurro potrebbe facilmente essere inteso per il rumore delle foglie mosse dalla brezza notturna, ma lei sa che gli arriverà.

« Vorrei che fossi qui. » Ammette, e una parte di sé le ricorda che questo dovrebbe farla sentire debole, ma in realtà la fa semplicemente sentire lei, la ragazza che era e che ha dovuto seppellire via in nome della maschera impenetrabile in cui si è trasformata.

Finalmente lo capisce: non è l’amore la debolezza.

La debolezza è la guerra, è questo mondo in cui sono costretti a vivere, è questa ridicola legge per cui la vita di uno corrisponde inevitabilmente alla morte di un altro, e lei in questo non vuole più crederci, non vuole rinunciare a quella scintilla che ancora le brilla nelle pupille e le offre uno scopo per cui alzarsi tutte le mattine e lottare.

La radio fra le sue mani fa nuovamente crack, e per un attimo Clarke pensa che il collegamento sia stato interrotto e che questa potrebbe essere stata l’ultima volta che sentiva la voce di Bellamy.

Ed è terrorizzata, di nuovo.

Ma poi un istante, un secondo dell’immobilità più concreta, e lui è di nuovo lì.

« Sarò a casa presto. E non sarò solo. »

E molto probabilmente questa è l’unica cosa che possa farla sentire meglio, in quel momento: sapere che, per quanto siano distanti, i loro progetti e i loro orizzonti sono rimasti gli stessi, ed entrambi lottano per la stessa cosa e vogliono la stessa cosa, proprio com’è sempre stato.

La giovane Griffin finalmente riesce a chiudere gli occhi senza che fuoco, lacrime, urla e morte le si dipingano sul fondo scuro delle palpebre, e per ora va bene così.

« Buonanotte, Bellamy. Passo e chiudo. »




 
  




 

  
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