“Do you have the time?”
Do you have the time
To listen to me whine
About nothing and everything
All at once
I am one of those
Melodramatic fools
Neurotic to the bone
No doubt about it
“Do
you have the time, to listen to me whine?”
Dovevo
dargliene conto, il suo letto, per saltare, era decisamente comodo.
Anche
io, eccelsa violinista e goth convinta, a volte avevo
le mie ricadute.
Impianto
stereo Bose, casse ovunque, dolby surround da
sollevare un cavallo. Come non salire sul morbido piumino e iniziare a
saltellare cantando a squarciagola?
Scendevo
e risalivo, mi spingevo sempre più in alto. E gli porgevo le mani.
“Allora,
hai tempo per me?”
Il
mio adorabile migliore amico, detestabile con il resto del mondo, con me, un
fratello. Con i suoi glaciali occhi verdi, e un fisico che rasentava
l’anoressia, era perfetto. Un uomo, un mito.
“Sempre”
Ville
Hermanni Valo, signori.
Niente di meno.
E
io chi ero?
Me
lo chiedevo spesso.
Per
certi ero Kylli Vuori.
Per
altri, la sorella di Jussi.
Per
il mondo, ero Vuori, violinista di un talento mai
visto.
Per
il mondo del rock, ero la protetta degli Apocalyptica,
la compagna di spese di Jonne Aaron, la ragazza da
odiare, la migliore amica di Ville Valo.
Troppe
cose, non trovate? Ero così tanto, da sentirmi un buco nero. Un piatto di
diamante dove tutti si riflettevano e vedevano ciò che a loro sembrasse più
consono.
La
grandissima musicista, la ragazza timida e boriosa, la simpatica amica.
Ma
io, cazzo, io davvero non sapevo chi fossi. Same old story, babe.
Come mi diceva lui, quelle rare sere che non era in tour e gli cucinavo la
cena. Le rare sere in cui, dopo anni, tornavamo a essere la matricola appena
entrata al conservatorio di musica classica, e il metallaro-wannabe, dai capelli troppo boccolosi e dai denti separati, che parlava come se fosse
l’ultima volta che avrebbe usato le corde vocali, che cantava come se ti stesse
facendo venire. E io lo guardavo con astio, io ero timida, lui era timido,
eravamo fatti l’uno per altro, eppure non era intenzionato a far venire me, ma
piuttosto stava da solo.
Avevo
14 anni e lui 18.
Lo
presi, un giorno come tanti, un 22 novembre di 14 anni prima. Lo portai vicino
agli armadietti, dopo la fine delle lezioni e feci del mio meglio per sembrare
provocante.
Mi
rise in faccia.
MI
RISE IN FACCIA!
Una
risata da porcospino con l’influenza. Una risata per cui sarei morta e risorta,
anni e anni dopo. Ma per quel periodo, mi limitai a scodinzolargli dietro,
aveva deciso che potevamo essere amici. Thankyouverymuch.
Questa
grande concessione, mi portò nel circolo di quelle che ora come ora sono le
divinità del rock finlandese.
A
18 anni conoscevo tutti.
Sapevo
di Holopainen, e del suo non poi tanto nascosto amore
per i peluche. Ogni volta che mi chiedeva di sviolinare qualcosa per uno dei
suoi album, me ne regalava uno. Pinguini neri, erano quelli che preferivo.
Andavo
con Jonne, più piccolo di me di qualche anno, a fare
shopping in centro. Percorrevamo Aleksanderinkatu
insieme, lui, bardato, un procione freddoloso. Io compravo roba nera e non
troppo vellutosa, e lui affondava la bionda chioma
tra tutto ciò che c’era di rosa e caramelloso. Era come vedere un bastoncino
affondare nello zucchero filato, quello buonissimo, bellissimo e soprattutto
rosa che hanno alle fiere, davanti alla tua giostra preferita. Quello che
quando lo mangi, ti senti felice. Jonne era così, era
la mia caramella, il mio zucchero, mi teneva saldamente su una nuvoletta in
paradiso.
E
poi c’era mio fratello.
Jussi.
Vampirone
con la matita nera. Avevamo 8 anni di differenza. Io ero territorio da
proteggere, tranne che dal suo amico, Ville. Li avevo presentati io, anni e
anni prima. Da quel giorno aveva sempre cercato di sistemarmi con lui. Con
scarsi risultati oserei dire. Anzi, fallimento su tutta la linea.
Sì
dai Ville, fai contento il tuo amico, fammi tua. E lui, nisba. Io ero la sua
sorellina, la sua prima fan girl, la prima che gli era saltata addosso, prima
ancora che il mondo si accorgesse che un finlandese magro e incazzoso potesse
essere qualcosa di simile a un semidio.
Erano
passati esattamente 14 anni. Erano passate Susanna e Jonna.
Erano passati Pertti e Mathias
dal mio fronte. Io mi ero rosa ogni singola unghia dalla gelosia. Lui era
diventato amico dei miei uomini. Li aveva accolti nella sua cerchia, li aveva
fatti divertire. Li aveva convinti che fossi perfetta.
Per
loro. Non per lui.
E
avevo ventotto anni. Stavo ammuffendo. Suonavo il violino da dio, e allora?
Io
volevo il mio dio. Volevo entrare nella sua orbita. Non volevo essere la cocca
di tutti, non volevo avere tutto senza avere nulla.
Era
il suo compleanno. Sotto c’era una piccola folla di amici e parenti riuniti.
Io
ero corsa sopra a rubarmi una delle stecche di sigarette che teneva nascoste
nell’armadio. Avevo aperto lo stereo, collegato il mio ipod
e deciso che era il momento di farlo. Ogni anno, il giorno del suo compleanno,
ci provavo.
I
Green Day riempivano la stanza. E io saltavo.
E
lui entrò.
“Salta
con me” gli dissi porgendogli la mano.
Ogni
santissimo anno si ripeteva questa scena, ogni 22 novembre da 13 anni. Ero solo un pizzico cocciuta. Solo un po’.
Quel che bastava perché prima o poi avrebbe capito.
Volevo
averlo dentro di me, non intorno a me.
Ero
grande per avere qualcuno che si prendesse cura di me. Grande per un amico che
volevo disperatamente nel mio letto ma non potevo averlo. Grande per essere
disperatamente innamorata di una rock star.
Mi
fermai. Mi sedetti.
Lui,
fermo, mi fissava. Prese il telecomando dello stereo e spense la musica.
“Ti
ricordi di quel giorno, eravamo ancora a scuola” iniziò.
“Non
c’è bisogno, Ville. Sono quattordici anni che ripetiamo quel giorno e
quattordici anni che io per te sono una sorella. Non rivanghiamo vecchie
memorie.”
Finto
astio. Finta rabbia.
Dentro
sbrillucicavo come Trilli. Plin
di qua, plin di là.
Lui
seduto ora.
Io
in piedi, fuori dal letto.
Eravamo
alti uguali in quel momento. “Quest’anno lo faccio solo per pro-forma, sappilo”
gli dissi. Avvicinandomi. Con. Molta. Calma.
Una
mano a toccare la spalla sinistra. L’altra mano a sfiorare la guancia pallida.
“Mangi
troppo poco, sai?”
“Same old story, babe” rispose, sfiorando la mia mano con una carezza.
Fece
per spostarsi. Per spostare me. Ancora. Per la dannatissima quattordicesima
volta.
Smisi
di brillare. Smisi di canticchiare un jingle allegro tra me e me. Il black metal faceva al mio caso in quel momento.
“Sei
troppo. Kylli, sei troppo per me”
Troppo?
TROPPO?!
“Non
mi guardare così, non ci provare. Cazzo.” Urlai. Ero timida, certo.
Un
enigma, non un uomo normale. Avevo passato quattordici anni appresso ad uno che
mi considerava troppo. Troppo!
Come
se già non avessi troppi, decisamente troppi problemi di mio.
Gli
presi una ciocca di capelli e me la strinsi tra le mani. Si fece trascinare
morbidamente in avanti, fino a che occhi contro occhi ci preparavamo allo
scontro finale.
“Io
sono quel che sono, scricciolo. Sono lunatico e stronzo. Ma lo sai, e tutto sei
ogni cosa. Sei tutto ciò che c’è intorno a me. Ovunque io vada, tu ci sei.
Chiunque io incontri, vedo te. Sei il passato, il presente e a buona ragione,
tutto il mio futuro.”
Ero
scioccata.
Di
cosa cazzo stava parlando?
“Fammi
finire”. Certo, ora leggimi anche nel pensiero. Un applauso.
“Magari
vorrai sapere perché per quattordici anni ti ho detto no”.
Il
mio piede batteva insistente sul caldo parquet. Le labbra si distendevano in un
involontario sorriso. Una calda lucina ricominciava a brillare.
“Tu
sei troppo, e io non ero quasi nulla. Lo so, è una misera, stupida, banale
scusa. Lo so. Potrei inventare qualcosa di decisamente più poetico e decandente, potevo dedicarti una canzone, fare una
conferenza stampa, farmi l’ennesimo tatuaggio in tuo onore.”
Tsk.
Che uomo teatrale.
“Uomini”
borbottai.
Perlomeno
aveva abbassato le difese. A ricostruire il castello ci avremmo pensato dopo,
per adesso mi sarei limitata a tirare via le mura e far alzare il ponte
levatoio.
Un
signor ponte levatoio oserei dire.
“Ora
sei abbastanza?” gli chiesi piazzando una mano sul cavallo dei pantaloni e
issandomi sul letto.
“Questo
me lo devi dire tu!”
“Magari
parliamo dopo, è solo quattordici anni che aspetto”.
Avrei
avuto tempo per sciogliermi al sole. Per piangere lacrime di gioia. Per
saltellare felice sui monti con Annette. Per andare in giro sorridendo come un
ebete. Per coccolarlo davanti ad un camino acceso. Per vantarmi a spasso.
Avrei
avuto tempo per tutto.
Dopo.
Ora
era mio.
Io
ero una donna. Per una volta non ero la talentuosa violinista, la migliore
amica, la groupie.
Ero
la sua donna. E non aspettavo altro che di essere reclamata.
Perché
esistono tutti i taboo sul piacere femminile, perché
veniamo sempre descritte come sospiranti, in preda al piacere, svenevoli o
affini? Perché non diciamo le cose come stanno?
Il
piacere è una roba complessa. Non basta un tocco leggero su una spalla per
iniziare a ululare e venire. Né con un casto bacio si può essere totalmente
soddisfatti.
Ville
Valo era Ville Valo, e per
quanto una sua carezza era decisamente piacevole, non nego che quando le sue
lunghe dita iniziarono a giocare con i miei capezzoli, prontamente denudati, le
carezze, come dire, furono presto dimenticate.
Per
non parlare delle mie mani, erano abituate alle dure corde di violino, ma se la
cavavano egregiamente con tutto il resto delle cose dure. Tieni la nota,
rilascia la corda, accarezza il violino, fanne una parte di te.
Dio,
quanto stavo amando baciare quel violino.
Lucido,
levigato, perfetto, unico.
E
la mia viola, come non parlare del bacio della viola. Se le labbra avevano
molto gradito il tocco delle labbra amiche, morbide e delicate, feroci e
attese, la viola, andò oltre. La viola ringrazia sentitamente le labbra amiche.
Non è più la stessa ora.
Due
timbri. Due note insieme.
Le
nostre voci.
Un
climax congiunto.
Il
suo violino e la sua viola in un unico strumento.
Eravamo
un orchestra eccitante, non c’è che dire.
Pochi
ma buoni.