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Autore: Liy    11/12/2008    6 recensioni
“Rimarremo tutti uniti… anche… dopo che l’Ordine verrà… sciolto.”
“Certo”, pareva una risposta a una domanda che nessuno gli aveva posto, “tutti uniti.”
Lenalee sorrise, il volto ancora nascosto fra le braccia appoggiate al bordo del letto di Allen. Aveva passato lì giorno e notte da due settimane, spostandosi solo per andare a prendere del cibo per sé e i due compagni.
“Tu non… hai intenzione di rimanere… vero, Lavi?”
Quella sì, era una domanda. Ma la risposta la si poteva leggere tranquillamente negli occhi di Bookman Junior, senza necessità che venisse espressa ad alta voce.
“Ho dei doveri da portare a termine. Questo Log è terminato.”
[Allen][Lenalee][Lavi]
[AreRina - Implicito]
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Allen Walker, Lenalee Lee, Rabi/Lavi | Coppie: Allen/Lenalee
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Fic

Titolo: Give away to Darkness
Personaggi: Allen, Lenalee, Lavi.
Pairing: AllenxLenalee (implicito).
Rating: Giallo
Genere: Angst, introspettiva.
Avvertimenti: Spoiler, One-shot.

Disclaimer: D.Gray-man e i rispettivi personaggi non mi appartengono, ma sono di Katsura Hoshino.

 

 

 

 

 

Give away to Darkness



Sembrava tutto un sogno.

Erano così felici e stanchi che tutta quella situazione pareva irreale.

Quel giorno aveva portato con sé un’innaturale pace, rotta solamente da qualche breve singhiozzo. Era finita, era completamente finita. Il Conte ed i Noah erano stati definitivamente sconfitti, non avrebbero più turbato l’animo di nessuno, né esorcisti né semplici esseri umani.

Era davvero finita.

Tutto l’Ordine Oscuro – o per lo meno, quello che ne rimaneva - sarebbe stato sciolto a breve dal papa, quindi tutti si godevano quegli ultimi attimi insieme, in attesa dei funerali che avrebbero decretato la definitiva fine dell’Ordine.

Avrebbero finalmente messo la parola Fine a quella vicenda.

Niente più guerre, almeno per loro, gli esorcisti, i finders e tutte le altre persone che avevano contribuito a quel finale. Erano finalmente liberi ma ora, ottenuta quella nuova e tanto ambita libertà per anni, non sapevano che farsene. Qualcuno aveva iniziato a programmare lunghi viaggi attorno al mondo, altri di tornare dalle rispettive famiglie e per chi, come a Kanda, non era rimasto niente e nessuno era iniziato un periodo di disperazione e confusione interiore. Ma in quel momento poco importava.

Era finita.



***

 

Possiamo tornare tutti a casa…

 

I passi svelti di Lenalee risuonarono nei corridoi ormai vuoti della Sede dell’Ordine, facendo riprendere Komui, tramortito dal lavoro. Si alzò di scatto l’uomo per andare incontro alla sorella, scivolò però su un foglio, cadendo rovinosamente a terra.

“Nii-san, sei ancora tutto intero?”

Il volto pallido e scarno di Lenalee fece capolino sulla porta dell’ufficio, i capelli ora lunghi fino alla vita.

“Sto bene, sto bene… sono solo caduto.”

Si alzò in fretta, sistemandosi i vestiti da comune uomo ordinario che ora indossava.

“Tu piuttosto, come stai?”

La ragazza sorrise debolmente, inclinando gli angoli delle labbra poco convinta. “Sto bene. Non preoccuparti.”

Invece Komui si preoccupava, dannatamente. Jerry gli aveva riferito di non averla più vista in Caffetteria e il suo volto scarno e pallido aveva confermato i loro sospetti: aveva smesso di mangiare.

Avevano sofferto tutti per le perdite subite ma lei, forse, era stata quella che più di ogni altro si era addossata la colpa di quelle morti che, secondo il suo parere, potevano essere evitate.

“Allora se stai bene, io me ne ritornerei in camera mia…” Volse la schiena al fratello, iniziando a camminare.

“Lenalee”, il rumore dei tacchi si bloccò all’improvviso, segno che Komui poteva parlare tranquillamente, “i funerali sono oggi alle cinque e trenta.”

L'inconfondibile rumore dei tacchi sul pavimento iniziò a spezzare ritmicamente quel silenzio innaturale che si era venuto a creare all’Ordine da quel giorno, quel gioioso e dannato giorno per cui avevano pregato le milioni di persone che erano in lotta contro il Conte del Millennio. Però, non era andato tutto secondo i loro desideri e, dopotutto, era una guerra, delle perdite erano più che necessarie e inevitabili.

 

… Ma casa nostra…

… con il passare degli anni è diventata l’Ordine…

 

Quella notte Komui era più agitato che mai.

In sede erano rimasti solo i ricercatori scientifici, gli esorcisti e i finders si trovavano in missione, l’ultima missione, la più grande e pericolosa dalla quale molti erano sicuri di non tornare.

Batté il piede a terra con ritmo, nervoso, le braccia incrociate e lo sguardo corrucciato. Attendeva, come tutti gli altri, davanti alla porta dell’Arca l’arrivo di possibili –e desiderati- sopravvissuti che, però, non arrivavano.

“Caposezione Reever, che ora è?” non si voltò verso di lui, il suo sguardo era troppo preoccupato ad osservare la porta.

“Sono le quattro e quarantuno.” Rispose prontamente, forse anche troppo, perché il silenzio teso di qualche secondo prima ridiscese su di loro.

Il battere del piede si fece più frenetico; erano ore che aspettavano lì, erano ore che non ricevevano una chiamata, una qualsiasi notizia. Nessun segno del fatto che qualcuno fosse ancora vivo li aveva raggiunti.

“Dove sono tutti?”

Nel dire quello, un braccio avvolto in fasce sporche di sangue raggrumato si fece strada attraverso la porta, seguito a ruota da un volto in lacrime che Komui riconobbe subito.

“Lenalee!”

Corse incontro alla sorella, aiutandola a scendere gli scalini mentre due finders la sorreggevano.

“Lenalee… cosa…?”

“Allen-kun… Lavi… loro…” iniziò a piangere come Komui non l’aveva mai vista fare, senza sosta, gli occhi rossi e gonfi e i singhiozzi che laceravano l’aria, talmente erano carichi di paura e dolore.

Altri finders li seguirono, reggendo fra le braccia i corpi di due ragazzi ricoperti interamente di sangue.

“Non saranno mica…?” esclamò Reever, avvicinandosi.

“No.” Un altro cercatore si avvicinò, “Sono vivi, ma molto gravi. Bisogna portarli subito dalla matrona.”

E così iniziò la notte più lunga che Komui ricordasse.

 

… Per molti di noi sarebbe impossibile andarsene...

… Ma c’è chi ha sempre sperato di poter terminare questa guerra…

 

La stanza gli pareva così piccola e buia in quel momento.

Aveva passato tanto tempo lì in quei giorni e, ora, vedeva la camera per quello che era: un ammasso di inutile mobilia che sarebbe stata gettata chissà dove fra non molte ore.

Kanda non si era mai posto la domanda “cosa farò dopo la guerra?”, semplicemente perché aveva sempre creduto che non ne avrebbe avuto bisogno. Che non sarebbe vissuto abbastanza per vedere la fine di una guerra persa in partenza.

Eppure, avevano vinto.

Aveva acquisito anche lui quella libertà –la considerava più un supplizio- ed ora desiderava solo nascondersi fra quelle quattro mura storte, per non permette a nessuno di rivolgergli ancora quella domanda a cui ancora non aveva trovato risposta.

Sentiva i passi della gente che correva lungo il corridoio, gli scatoloni che cadevano rovinosamente al suo una volta che si inciampavano e tutto quel baccano, stranamente, non lo disturbava in alcun modo. Probabilmente, ciò era dato dal fatto che aveva altro a cui pensare, qualcosa di più importante.

L’ennesima persona bussò alla sua porta quel giorno e lui, come aveva fatto già in precedenza, non diede segno di vita, limitandosi a star fermo e non far rumore.

La persona al di là della porta non si diede per vinta, però.

“Kanda, apri. Ti devo parlare.”

Quel malato mentale di Komui.

“Che vuoi?” domando burbero, alzandosi dal letto ed aprendo la porta.

“Lenalee ha smesso di mangiare.”

Il silenzio piombò nella stanza, mentre Kanda iniziava a sentire la mancanza di Mugen sul fianco, sempre pronta per esser afferrata con entrambe le mani.

“E a me dovrebbe interessare?”

La solita frase disinteressata, non era cambiato.

“Costringila a mangiare.”

Il ragazzo squadrò il supervisore da capo a piedi. Stava scherzando, vero?

“Tu sei tutto scemo.”

Chiuse la porta di scatto in faccia all’uomo, cercando di non prestare ascolto alle proteste di Komui, che picchiava i pugni sul legno, urlando. Inutile, strillava troppo.

“Come se fosse colpa mia…”

 

… Una Guerra Santa che non ha portato a nulla…

… Se non alla nostra profonda amicizia...

 

Un lieve brusio raggiunse le sue orecchie, svegliandola. Tenne lo stesso gli occhi chiusi e rimase ferma: non voleva interrompere i due ragazzi che, finalmente, si erano ripresi dalle ferite. Ci erano volute due settimane perché ciò accadesse ed il primo a dare segni di vita fu proprio Allen, che in quel momento stava sussurrando delle parole confuse a Lavi.

“… Me lo… prometti?” sibilò il più giovane, la voce affannata come se avesse corso per ore.

“Certo. Infondo siamo…” si bloccò. Non poteva dire quella parola, non a lui o a chiunque altro che lavorasse all’Ordine.

“… amici, sì.” Allen sorrise, tossendo e sfiorandosi il collo fasciato. “Non voglio che… Lenalee ne soffra…” tossì ancora una volta, il volto serio però.

“In caso contrario, tu faresti lo stesso?” domandò Lavi e dalla sua voce traspariva una nota di terrore, di dolore.

“Cer… to…” sussurrò Allen, lasciando cadere la testa nel morbido e candido cuscino che aveva dietro la schiena, “Rimarremo tutti uniti… anche… dopo che l’Ordine verrà… sciolto.”

“Certo”, pareva una risposta a una domanda che nessuno gli aveva posto, “tutti uniti.”

Lenalee sorrise, il volto ancora nascosto fra le braccia appoggiate al bordo del letto di Allen. Aveva passato lì giorno e notte da due settimane, spostandosi solo per andare a prendere del cibo per sé e i due compagni.

“Tu non… hai intenzione di rimanere… vero, Lavi?”

Quella sì, era una domanda. Ma la risposta la si poteva leggere tranquillamente negli occhi di Bookman Junior, senza necessità che venisse espressa ad alta voce.

“Ho dei doveri da portare a termine. Questo Log è terminato.”

 

… E verrà distrutta a breve.

 

Miranda ripose tutti i suoi – pochi - averi nella valigia, un sorriso triste in volto.

Indossava, per l’ultima volta, la sua divisa da esorcista.

“Ho promesso che l’avrei portata fino alla fine”, disse, come se i vestiti che stava piegando la stessero ad ascoltare, “è la prima volta che porto a termine un lavoro.”

Silenzio.

I vestiti non rispondevano.

“Domani si torna a casa.” L’ultima parola suonava una condanna, una sentenza inappellabile.

“Probabilmente dovrò cercami un nuovo lavoro.”

Al solo pensiero di tornare alla vita di prima, rabbrividì.

“Non voglio dover ricominciare da capo.”

Fare l’esorcista era stata l’unica cosa utile nella sua vita, tutto ciò che era antecedente a quel mestiere era stato un fallimento su tutti i fronti.

“Sono stati tutti gentili e disponibili qui, vero?”

Ancora nessuna risposta.

Sperava davvero che i vestiti si animassero e prendessero a parlare con lei. Un po' di compagnia in quel momento l'avrebbe fatta felice.

“Magari il mio vecchio appartamento è ancora libero… Magari non è ancora stato venduto.”

Parlare – e pensare - cose così semplici erano come accoltellare il mondo in cui aveva vissuto, squarciare quelle memorie tanto importanti quanto dolorose.

L’appartamento, lo sapeva, anche se fosse rimasto invenduto non lo avrebbe ricomprato. In quella città non sarebbe tornata. Era troppo difficile abbandonare il passato, lasciarsi tutto alle spalle in un lasso di tempo così breve e pensare anche solo minimamente di tornare alla vita di tutti i giorni.

Indossava la sua divisa scura da esorcista, Miranda. Sarebbe stata l’ultima volta, ma l’avrebbe portata con dignità.

 

Avevo desiderato questa fine,

Ed ora che l’avevo conquistata, cosa avevo in mano?

 

Sembravano passati secoli.

Si mosse per la stanza, il passo svelto e nervoso. Aveva una strana sensazione fin da quando si era svegliata; sentiva che qualcosa non stava andando per il verso giusto. C’era qualcosa di enormemente sbagliato.

Quella mattina, però, il cielo terso non lasciava intender nulla. Se ne stava là, immobile, a fissare gli uomini dall’alto al basso con fare altezzoso.

Uno sfarfallio improvviso le strinse lo stomaco in una morsa dolorosa. Strinse le braccia al petto e si sedette sul bordo del letto, gli occhi ancora puntati verso la finestra.

Picchiò il piede a terra, freneticamente.

Lo stesso vizio di suo fratello.

La sensazione di frustrazione si fece più forte ed iniziò a sentire che il silenzio la stava come soffocando. Le pulsava la testa.

Due settimane. Era passate già due settimane dalla sconfitta definitiva del Conte.

“Due settimane…” sibilò Lenalee, lasciandosi cadere nel letto.

La matrona l’aveva obbligata a tornare nella sua stanza, senza darle spiegazione alcuna. Però, almeno, le aveva concesso di poter portare ad Allen e Lavi il pranzo e la cena.

Qualcosa non andava. Sentiva che quella pace era fasulla tanto quanto quei sogni in cui nulla andava storto, in cui tutto era legato semplicemente dal filo del classico finale “tutti felici e contenti”. Ma lei sapeva che quello non poteva essere il loro caso, anche se se lo sarebbero meritati, visti gli immani sacrifici che avevano fatto per tutta una vita.

“Perché…?”

Perché non poteva mai concedersi dei pensieri felici, Lenalee? Perché doveva sempre cercare il lato triste in ogni cosa? Non era lei la persona positiva, il “collante” dell’Ordine?

E allora perché non si concedeva non dei pensieri felici, ma solamente meno tristi?

Si prese il capo fra le mani, iniziando a singhiozzare sommessamente.

Forse quei pensieri pessimisti erano dati dal fatto che, infondo, aveva sempre sperato dentro di sé che quella guerra non finisse mai, aveva sempre sperato di passare tutta la sua vita rinchiusa in quel “recinto” con i suoi compagni. Quella sofferenza, quei migliaia di sacrifici infondo non le dispiacevano, almeno finché servissero a tenere attaccati quei pezzi tanto fragili del suo prezioso puzzle.

Tornare in Cina significava strapparle l’anima. Ormai le sue radici erano affondate in quel terreno impregnato dal sangue di centinaia di persone che si erano sacrificate per un “futuro migliore”. Ma chi aveva mai detto che quello fosse migliore? Esistevano mille alternative di “futuro migliore”, e molte non contemplavano la conclusione di quella guerra invisibile.

Era finita. Non la guerra, ma bensì quella felicità che avevano contribuito tutti a costruire e a tenere salda, pezzo per pezzo, sacrificio per sacrificio.

“Tutto finito.”

 

… Non avrei mai abbandonato i miei compagni,

Ma sono costretta a farlo ora.

 

Ancora qualche minuto.

La lancetta più grande si spostò sull’otto con un leggero tac che, però, risuonò forte nella stanza vuota.

Ancora qualche minuto.

Si passò una mano fra i capelli, accasciandosi contro il muro freddo, accanto all’armadio ormai vuoto.

Poggiò il capo sulle ginocchia, facendosi sfuggire un sorriso triste, accompagnato da una lacrima.

Aveva assistito ad abbastanza funerali nella sua vita, e la prospettiva che a minuti avrebbe preso parte a quello di persone a cui si era affezionato lo distruggeva.

Il tempo passava troppo alla svelta. Infondo, era sempre stato così: quando qualcosa di terribile era prossimo, le lancette degli orologi iniziavano a correre, frenetiche.

Ancora pochi minuti.

“Ah…”, sospirò, alzando il capo verso la finestra, “adesso cosa farò?”

Una volta uscito da quel posto sarebbe stato invisibile. La divisa che lo faceva spiccare fra la gente l’avrebbe abbandonata a breve, come la sua vita da esorcista.

Chiuse gli occhi, abbandonandosi al rumore leggero di passi per il corridoio.

“Lenalee…”

Sapeva che era lei. Anzi, ne era certo.

Provò l’impulso di spalancare la porta, uscire di corsa ed abbracciarla, consolarla e spiegarle come stavano veramente le cose, dato che nessuno si degnava di farlo.

Lei era quella che più di ogni altro stava soffrendo.

Però, contrariamente ai suoi pensieri, rimase fermo.

Non avrebbe mai voluto uscire da quella stanza, perché significava lasciarsi alle spalle il passato e ricominciare una vita nuova. Una vita che, dopotutto, non gli interessava. Voleva solo essere un esorcista.

Bloccato in quella stanza, attese ancora, concentrandosi solo sul suono delle lancette che scandivano il conto alla rovescia del loro finale.

 

… Non desideravo tutto ciò…

… Questo non è proprio quello che avevo a lungo voluto.

 

Il cielo rimase terso fino a sera. Il manto della notte portò con sé qualche nuvola grigia carica, forse, di pioggia. Al cambio repentino del tempo non fece caso nessuno; in quel posto era sempre così. Se non pioveva per troppo tempo, c’era da preoccuparsi.

“Lenalee!”

Una voce e il bussare alla porta la distrassero dai suoi pensieri. Si alzò di scatto, correndo verso la fonte della sua improvvisa gioia.

“Allen-kun! La Matrona ti ha lasciato andare?!”

Abbassò la maniglia e si gettò di slancio verso il ragazzo, cingendolo stretto al collo.

“Le-Lenalee, se mi stringi così dovrò tornare in infermeria…”

Lei allentò un po’ la presa, poggiando però il capo nell’incavo del collo di Allen, iniziando a singhiozzare sommessamente.

“Sono così felice che tu stia bene!”

Lo strinse a sé con più forza, cercando di non fargli male, di non sfiorare nessuna sua ferita.

Allen si lasciò abbracciare, incapace di contraccambiare viste le stampelle che lo sostenevano. Sorrise, poggiando il capo su quello di Lenalee.

“Dovresti preoccuparti un po’ anche per te, Lenalee…”, bisbigliò, a pochi centimetri dal suo orecchio.

La ragazza si spostò da lui di scatto, facendogli perdere un po’ l’equilibrio. Lo fissò mentre spostava leggermente una stampella, cercando di non cadere, gli occhi un po’ lucidi.

“Allen-kun… come stanno le tue gambe?”, domandò, portandosi una mano al petto. Era colpa sua se lui era ferito in quel modo. Si era sacrificato per lei, come suo solito, lanciandosi fra lei e il suo avversario, prendendo il colpo al posto suo.

“Oh”, sorrise Allen, inarcando debolmente gli angoli delle labbra, “stanno meglio, ormai non fanno quasi più male!” Il sorriso sul volto si allargò mentre, lentamente, muoveva qualche passo verso la ragazza.

“La tua mano, invece, sta bene?”

Lenalee annuì, abbassando il braccio, nascondendolo dietro la schiena.

Restarono per qualche minuto in silenzio, fissando il pavimento con aria sconsolata. Non avere argomenti di cui discutere era stressante, per entrambi.

Il rumore di qualcosa che si infrangeva al suolo li fece voltare di scatto verso la sezione scientifica. L’urlò di dolore di Komui allarmò Lenalee, che si tranquillizzò non appena sentì delle grosse risate sovrastare il pianto infantile del fratello.

“Lavi dovrebbe uscire stasera dall’infermeria.”

La ragazza sorrise al compagno, gli occhi pieni di lacrime di gioia.

“A quanto pare ce l’ha fatta, però la Matrona vuole tenerlo in osservazione fino a stasera.”

Lavi era quello messo peggio. Aveva rischiato di non uscire vivo dall’infermeria.

Il giovane allievo di Bookman aveva dato tutto sé stesso nell’ultima battaglia, invece di stare in disparte come il suo maestro. Il suo comportamento gli era costato una sgridata e quasi la vita. Però si era ripreso, e questa era la cosa più importante.

“Ha detto che ha intenzione di organizzare una festa”, Allen sorrise, voltandosi verso le scale, “vuole far ubriacare il vecchio Panda”, riportò pari-pari le parole del compagno, facendo una smorfia di dolore. Aveva picchiato un piede a terra.

“Ehm… Lenalee, mi aiuteresti a scendere le scale?”

 

Se solo fosse possibile…

… Desidererei poter tornare indietro.

“Padre Nostro che sei nei cieli…”

Lenalee si fermò davanti alla grande entrata della chiesa, le mani inguantate di nero congiunte. Il lungo abito scuro era nascosto da un mantello del medesimo colore dei guanti.

Alzò il cappuccio sulla testa, nascondendo in parte il volto, e si avviò con passo calmo verso quelle lunghe file di bare bianche. Quanti finders avevano sacrificato la loro vita.

Tutti quei ricordi, che aveva seppellito in un angolo recondito della sua mente, parvero riaffiorare quando scorse una fila meno lunga di bare nere con inciso il simbolo dell’Ordine, la Rose Cross. Attorno a quelle casse c’erano i Generali, che si innalzavano austeri davanti ai banchi in cui sedevano i – pochi - sopravvissuti.

“… e liberaci dal male…”

Lenalee andò a sedersi in prima fila, accanto al fratello. Anche lui era avvolto in abiti scuri, per la prima volta. Lei lo aveva sempre visto con la divisa bianca, sin da quando aveva memoria.

“Lenalee…”

“Allen-kun arriverà un po’ in ritardo, ha detto. Ha dei problemi a mettersi i pantaloni, siccome entrambe le gambe sono ingessate.”

“Lenalee…”

“Sto bene.” Sorrise, inarcando gli angoli delle labbra sul volto scarno. I capelli, che non aveva raccolto, le ricadevano davanti agli occhi, uscendo a ciocche dal cappuccio nero come la notte.

“Lenalee, non devi…”

La ragazza scosse la testa, trattenendo a stento le lacrime che minacciavano di rigarle il volto di fronte a quelle bare silenziose. Quelle persone non si sarebbero mai più svegliate, non avrebbero mai più parlato, mai più rivisto le loro famiglie e gli amici. Erano morti. E presto sarebbe stato dimenticato anche il loro ricordo. Erano diventati solo tanti nomi, non più legati ad un volto, che presto sarebbero scomparsi come se non fossero mai esistiti. Loro, almeno, avrebbero avuto una degna sepoltura, con tanto di lapide e fiori. Forse, qualcuno prima o poi avrebbe trovato quello che rimaneva di loro, avrebbe trovato il nome di un suo famigliare, e avrebbe potuto piangere. Avrebbe trovato la propria pace piangendo sulla tomba di qualcuno che non sapeva nemmeno fosse morto, avrebbe pianto tutte le lacrime che tratteneva da ormai troppo tempo. Ma la verità era che nessuno avrebbe mai trovato la sede dell’Ordine, soprattutto una volta che lo avrebbero abbandonato per tornare a casa.

“Lenalee, forse è meglio se esci. Sei pallidissima.”

Lei non rispose. Rimase con lo sguardo vacuo fisso in avanti, le mani ancora congiunte e il cappuccio che la nascondeva in parte alla vista attenta del fratello.

Komui le posò una mano sulla spalla, sperando in una sua qualsiasi reazione. Ma quella non arrivò.

“Lenalee…”

Qualcuno si sedette dietro di loro. Cercarono di non prestare molta attenzione al pianto della donna, ma era troppo penetrante e colmo di dolore per poter esser ignorato. Esprimeva appieno i sentimenti di tutti coloro che si trovavano in quel luogo per dare l’ultimo addio a qualcuno a loro caro, amici, compagni di una vita. Quel pianto non accennò a voler terminare, nemmeno alle parole calme e gentili dell’uomo che le stava accanto. E Lenalee a quel punto non ne poté più. Si alzò di scatto e corse fuori dalla chiesa, le lacrime in volto e i capelli che ondeggiavano sulle spalle, liberi dal peso del cappuccio.

Sentì il fratello tentare di fermarla e ritrarre subito la mano, decidendo, probabilmente, di non seguirla nemmeno.

I suoi passi svelti tornarono a riempire i grandi corridoi dell’Ordine, solitari. Non sapeva esattamente dove stava andando, voleva solo allontanarsi da quelle bare. Voleva fuggire il più lontano possibile.

 

Vorrei poterli rivedere tutti.

Vorrei poterli osservare mentre sorridono.

 

“Lenalee!”

Allen cadde a terra, sbattendo il naso, che iniziò a sanguinare sul freddo marmo del pavimento.

“A-Allen-kun! Ti sei fatto male?”

Lenalee si avvicinò al ragazzo, aiutandolo ad alzarsi, sostenendolo con un braccio attorno alle spalle. Gli porse la stampella che aveva perso mentre capitombolava per le scale, e lui l’afferrò con una stretta salda. Non l’avrebbe fatta nuovamente sfuggire.

“Stai bene?”, chiese Lenalee, estraendo dalla tasca dell’abito un fazzoletto e tamponandogli il rivolo di sangue che gli scendeva dal naso.

“Sì… ho solo sbattuto il ginocchio contro il gradino…”, rispose, allungando una mano verso la gamba destra.

“Non hai sbattuto solo quello, veramente. La testa come va? Nessuna botta?”

Si avvicinò a lui, alzandogli la frangia che copriva l’amplia fronte. Non aveva nulla, se non quel pentacolo maledetto. Fu vicina a sfiorarglielo, ma lui si ritrasse sorridendo, muovendosi con le stampelle verso l’infermeria. Lenalee lo seguì in silenzio, una mano stretta al petto, i piedi attenti a non inciampare l’uno nell’altro.

“Lavi!” Allen spalancò la porta chiamando l’amico che, la ragazza notò, si drizzò sul letto a fatica.

“Allen! Lenalee!” Si allungò verso il bordo del letto, ma l’occhiata minacciosa che gli lanciò la Matrona lo inchiodò là dov’era. “Allora non vi siete ancora dimenticati di me!”

Lenalee fu tentata di tirargli un pugno in pieno viso, ma le molteplici bende che portava la fermarono. “Stupido. Come potremmo dimenticarci di te?” Si avvicinò a lui, allargando le braccia per abbracciarlo. “Sono felice che tu stia bene”, gli sussurrò ad un orecchio.

Lavi sorrise stancamente, accogliendo l'abbraccio ma non ricambiandolo. “Grazie, Lenalee.”

Allen, ancora vicino alla porta, osservò i compagni senza proferir parola. Sulle sue labbra comparve una smorfia di dolore, seguita da un basso lamento, inudibile per i due davanti a lui. Portò una mano al petto e scivolò oltre la porta senza farsi accorgere.

 

Se solo l'avessi capito prima...

E' successo tutto a causa mia.

 

Fuori faceva freddo.

Ansimava per la corsa e, ogni volta che apriva la bocca per prendere fiato, ne fuoriusciva una nuvoletta di fumo. Faceva veramente freddo. Forse perché erano a Dicembre inoltrato. Meno di una settimana e avrebbero potuto festeggiare il Natale.

La neve scesa la notte prima giaceva ancora, immobile, sugli edifici lontani e sul terreno. Se solo non fossero successe tutte quelle cose, sarebbero potuti tutti uscire a giocare, come dei bambini. Infondo la neve, di qualsiasi età si fosse, spronava sempre a pensieri simili. Sarebbero potuti uscire, ammantati in pesanti cappotti, a fare pupazzi e a tirare palle di neve a Kanda, tanto per sentirlo iniziare a distribuire minacce a tutti e vederlo correre dietro a Lavi con Mugen sfoderata. Allen avrebbe riso e, in quel momento, Kanda lo avrebbe chiamato 'mammoletta' e si sarebbero messi a litigare come loro solito e lei li avrebbe divisi. Sarebbe stato bellissimo.

Camminò stancamente lungo il viale bianco, i piedi che si trascinavano a fatica fra lo strato spesso di neve.

Le gote erano rigate da lacrime ormai gelide e gli occhi rossi parevano non reggere di fronte alla vastità di quel candido paesaggio.

“Lenalee, sei qui...”

Sentì due braccia forti afferrarla, stringerla al corpo caldo del ragazzo dietro di lei.

“... finalmente ti ho trovata.”

Lui poggiò il capo sulla sua spalla, stringendo di più le braccia attorno al suo esile corpo.

“Vieni dentro, qui fa freddo. Ti ammalerai.”

Non era quello il modo migliore per convincerla ad entrare. Lo capì dal fatto che ricominciarono a ricaderle le lacrime lungo le guance pallide.

“Lenalee... ti prego. Lo sai che anche lui...”

La ragazza si irrigidì. Abbassò la testa e iniziò a singhiozzare sommessamente, stringendo con le mani le braccia del ragazzo.

“Lui è dentro. Sta bene, è guarito. Ne sono sicura. Io lo so per certo.”

“Lenalee, è morto. Fattene una ragione.” Lasciò che le unghie di lei affondassero nella sua pelle, senza lamentarsi. “Sono giorni che fingi che vada tutto bene. Non è così Lenalee, cerca di capire. E' morto, non puoi più farci nulla...”

“Non è morto!”

“... smetterla di mangiare non aiuterà a riportarlo indietro. Ti stai solo facendo morire. E tuo fratello è tremendamente preoccupato per te. Ti prego, torna in te Lenalee...”

Che stupido gioco la vita. L'aveva sempre considerata come una cosa sacra, un valore da difendere e per cui combattere. Ed ora avrebbe desiderato perderla come lui, senza quasi accorgersene, colta all'improvviso. Quel vento invernale l'avrebbe spazzata via presto, eliminandola dai ricordi di molte persone. Erano già morti in tanti nell'Ordine, un'esorcista in meno che differenza poteva fare, per di più, a guerra finita?

Ma lei non poteva, non voleva credere che lui fosse morto. L'aveva visto poco prima, gli aveva portato il pranzo in camera ed era rimasta a parlare con lui per non lasciarlo solo. Non poteva essere morto. Era una cosa assurda. Lo aveva visto con i suoi occhi ingoiare la minestra e lo aveva sentito dire che, una volta guarito, lui e le sue gambe sarebbero scesi in Caffetteria pretendendo qualcosa di meglio.

“Lui non è morto. Gli ho parlato poco fa. Mi ha anche detto che era cresciuto ancora e che la divisa gli era piccola. Non è morto. Non può essere morto.” Sorrise, sentendo dentro di sé di aver ragione. Lo aveva visto, dannazione, lo aveva aiutato e gli aveva persino parlato. Non potevano venirle a dire che era morto da giorni.

“Lenalee...”, la strinse di più: non poteva farla scappare, “... tu hai parlato da sola. Quella camera è vuota. Lui è morto, vuoi capirlo? E' da quando è successo che giri per l'Ordine andando di corsa, con le mani vuote, dicendo che devi portagli da mangiare così guarirà presto. Ma lui non è più qui. Se n'è andato. E' morto!”

La volse verso di sé, guardandola negli occhi. Era un compito brutto quello che aveva deciso di assumersi, ma non poteva permettere che Lenalee continuasse ad illudersi in quel modo. Non poteva permettere che lei continuasse quell'insensata scenata davanti a tutti, senza nemmeno accorgersene.

L'aveva seguita, una volta, mentre bussava alla porta di una camera. “Sono io. Ho portato il pranzo”, aveva detto, sorridendo. L'aveva lasciata entrare e chiudere la porta, poi si era accostato al muro, l'orecchio premuto contro quelle pareti fredde. La sentiva parlare e nessuno risponderle, ma lei continua imperterrita il suo discorso, rispondendo di tal volta a delle domande inesistenti.

“Non è morto. Non è morto!”

Il ragazzo la scosse con forza, nel tentativo di farla rinsavire. “Sì, invece! Smettila di fare così. Se ne è andato, ma tu per questo non devi permettere che le tenebre avanzino sul tuo cuore. Sai quanto un dolore simile abbia già portato distruzione nel mondo.”

Lenalee scosse la testa incredula. Non voleva credergli, non voleva credere a quelle parole. Eppure, qualcosa dentro di lei iniziò a richiamare la sua attenzione. Era qualcosa di doloroso, che aveva cercato di non ricordare e di nascondere.

Era successo qualche giorno prima, e lei aveva deciso di annullarsi in quel momento.

 

Avevo pianificato il mio ritorno a casa da tempo...

Ed ora non volevo lasciare quelle rovine intrise di ricordi.

 

Era successo tutto velocemente, all'improvviso.

Lenalee era ancora abbracciata a Lavi, gli occhi chiusi. Aveva sentito un fruscio dietro di sé, e subito aveva pensato ad Allen che si avvicinava a loro, per partecipare, forse, all'abbraccio. Sentì una stretta allo stomaco quando si accorse che non c'era e poi quel rumore strano, di qualcosa che si accasciava sul pavimento, le fece riaffiorare alla mente quel brutto presentimento che l'aveva accompagnata per tutta la mattinata.

Sentì Lavi scivolare dalle sue braccia, la Matrona dirgli di star dov'era e qualcuno urlare terrorizzato nel corridoio. “Walker! Walker!”

La voce di uno degli scienziati l'allarmò. Si precipitò fuori da quella stanza calda che odorava di malato, per riaffiorare nel corridoio che già brulicava di gente.

“Cos'è successo?”, sentiva chiedere un Finder alla Matrona.

La donna, china a terra, alzò appena lo sguardo, fissando i suoi occhi penetranti in quelli spaventati dell'uomo che aveva accanto. “Qualcuno vada a chiamare il Supervisore Komui. Voi tre”, indicò alcuni uomini della scientifica, fra cui Reever, “aiutatemi a portarlo dentro.” E accennò, con un gesto del capo, alla figura su cui era china.

Il sangue nelle vene di Lenalee si ghiacciò.

Allen.

Il ragazzo era steso a terra, una mano stretta al petto e il volto contratto dal dolore. Respirava a fatica, alzando continuamente il petto ed emettendo gemiti rochi, sputando sangue.

Lenalee rimase pietrificata. Era bastato il tempo per distrarsi – quanto? Qualche secondo al massimo – e ora stava accadendo tutto quello.

“Allen-kun...”

Si mosse istintivamente verso di lui, allungando una mano come a superare quell'infinità di persone che li separava. “Allen-kun! Allen-kun!”

“Lenalee, stai dove sei per favore.” La Matrona le si parò davanti, bloccandola mentre si slanciava verso l'amico. La afferrò per le braccia, ma la ragazza continuò ad agitarsi, iniziando a piangere. “No... Allen-kun! Fatemi andare da lui! Allen-kun!”

Mentre gli passava accanto, sdraiato su di una barella, Allen si voltò verso di lei. Sputò un po' di sangue e, tra un gemito e l'altro, le sorrise. Anche in quel momento riusciva a comportarsi così.


Lenalee rimase fuori dall'infermeria, seduta con le spalle al muro, per diversi minuti. Forse anche per ore.

I finders e i molti ragazzi della scientifica erano stati mandati a svolgere i loro doveri da suo fratello che, invece, era corso ad assistere lo staff medico.

C'erano solo lei, Lavi, Jhonny e Reever lì fuori ad attendere. Lavi fissava il muro davanti a lui con sguardo spento, quasi come non lo vedesse; Reever e Jhonny cercavano di leggere qualche foglio stampato in un carattere piccolissimo, senza riuscirci; Lenalee, invece, giaceva immobile, con le braccia lungo i fianchi e la testa contro il muro. Aveva le lacrime agli occhi, ancora fissi sul soffitto, e di tanto in tanto tremava.

Dentro di se' l'aveva sempre saputo. Era da quella mattina che aveva quel brutto presentimento, avrebbe dovuto prestargli più attenzione.

La maniglia della porta si abbassò e Komui uscì, accompagnato a ruota dalla Matrona. L'espressione di rassegnazione dipinta sui loro volti fece cadere il mondo sotto i piedi di Lenalee.

Non poteva essere vero... Non a lui!

“Abbiamo fatto tutto il possibile.” Sentì la Matrona parlare, con voce quasi supplichevole.

Lenalee scoppiò a piangere, più forte di prima, più forte che mai. Jhonny fece lo stesso mentre Reever cercava inutilmente di consolarlo; Lavi rimase immobile.

Suo fratello la guardò di sfuggita, con l'aria affranta e stanca. “L'innocence che aveva sostituito le cellule mancanti del suo cuore è scomparsa, ed il sangue...”, il discorso continuò a lungo – più che altro era per i dati che Lavi aveva il dovere di raccogliere. La voce di Komui era calma e controllata, ma Lenalee aveva percepito fra quelle parole un tono di scusa che non era rivolto a lei, ma ad Allen.

“... Non abbiamo potuto fare nulla.”

Lenalee smise di pensare mentre la verità di quelle parole la trafiggeva da parte a parte.

Lui non c'era più. Era morto e non aveva potuto dirgli nemmeno addio. Non lo avrebbe più rivisto.

 

Quante volte avevo versato lacrime inutili,

se le avessi trattenute, forse in quel momento sarei stata più forte.

 

Lavi aveva ragione.

“Perché...?”, domandò, buttandosi fra le braccia aperte del ragazzo davanti a lei. “Perché lui?!”

Il giovane Bookman scosse la testa, stringendo la compagna a se'.

“Non lo so.”

“Lavi...”, Lenalee alzò il capo, fissando l'amico con gli occhi pieni di lacrime, “... Io... Io non posso farcela.”

Quante volte avevano sentito quella frase durante la loro vita da esorcisti? Migliaia. Ed ora era lei a pronunciarla.

“Lenalee, devi essere forte. Lo dobbiamo essere tutti.”

La strinse ancora di più, lasciando che affondasse il volto nella sua divisa e piangesse. Non l'avrebbe fermata, non ora.

In momenti come quelli, Lavi non sapeva mai se le sue scelte fossero giuste. Non la voleva veder triste, non la voleva veder piangere, ma era l'unico modo per lasciare che si calmasse. Forse sbagliava, ma era l'unica cosa che gli paresse sensata in un momento come quello.

Le diede qualche pacca sulla spalla, appoggiando il capo sul suo, per avvolgerla meglio in quell'abbraccio e far si che non prendesse troppo freddo. Debole com'era, si sarebbe subito ammalata.

Rimasero così per diversi minuti e, una volta che Lenalee smise di piangere, l'aiutò ad entrare. La scortò per i corridoi, standole sempre a fianco, senza perdere di vista ogni suo minimo movimento. Dopo quello che era successo ad Allen, era diventato più attento ai gesti di ogni persona che gli stava a cuore. Non voleva ripetere un'esperienza come quella.

“Ok, ora posso andare da sola. Grazie, Lavi.”

Il ragazzo riemerse dai suoi pensieri di soprassalto, notando che erano ormai davanti alla camera della compagna. Quindi non aveva intenzione di tornare al funerale.

“Lenalee, se c'è qualcosa che posso fare... qualsiasi...”

“Sto bene, ora. Grazie a te.”

Gli angoli delle labbra di Lenalee s'incresparono in un debole sorriso. Com'era cambiata da quando l'aveva conosciuta, anni addietro, all'inizio di quel Log appena terminato.

“Ok. Se hai bisogno di aiuto...”

“Certo.”

Quel mezzo sorriso si allargò ulteriormente. Era perfetto, accanto a quegli occhi rossi di pianto e spenti.

“A... A dopo allora, Lenalee.”

“A dopo, Lavi.”

Congedò il compagno sulla soglia della camera, fingendo ancora quel sorriso tirato. Quando fu sicura che si era allontanato, chiuse piano la porta, attenta a non rompere il silenzio che regnava in quel corridoio vuoto. Dovevano essere ancora tutti stipati nella piccola chiesetta, a pregare.

Tolse le scomode scarpe con i tacchi, buttandole vicino alla scrivania ormai vuota, e si levò la divisa da esorcista. Era inutile portarla ancora, ormai era tutto finito.

Si lasciò cadere sulla sedia, prendendo il capo fra le mani.

Per cosa avevano combattuto tutti loro così disperatamente? Alla fine, le loro vite erano ripiombate nelle tenebre, tenebre ben più addensate di quelle che tesseva il Conte del Millennio. Non avrebbero avuto un futuro, non felice almeno. Pareva che tutti coloro che venivano a contatto con l'innocence fossero destinati ad essere dannati per l'eternità. L'unico modo per liberarsi da quell'onere era forse la morte? No, forse Dio non avrebbe reso loro le cose facili nemmeno dopo la dipartita.

Per loro non ci sarebbe mai stata la felicità causata dall'ignoranza.

Ne avevano vissute troppe insieme. Avevano lottato come disperati, erano caduti ma, nonostante quello, avevano sempre ritrovato il coraggio per rialzarsi.

Che situazione stupida la loro. Erano sempre costretti a spingersi oltre le loro capacità, a provare il tutto per tutto, anche a costo della propria vita. Come Allen.

Al ricordo del ragazzo cominciò a singhiozzare sommessamente, passando le mani sugli occhi diverse volte.

Si voltò di scatto verso la porta. Aveva sentito un rumore di passi.

Probabilmente era suo fratello, era venuto a vedere come stava dopo che Lavi gli aveva riferito ciò che era successo. Sì, doveva essere lui. Infondo, poteva essere solo lui.

La maniglia si abbassò, e la porta si aprì con un cigolio.

Sulla soglia fece capolino la figura di un uomo tozzo, alla mano aveva uno strano ombrello.

 

 

«Allora, Lenalee Lee, vogliamo resuscitare Allen Walker? »

 

 

 

 

 

 


 

 

 

Ringraziamenti: ringrazio tanto-tanto Edward e Noriko chan, che mi sopportano quando non riesco a scrivere e pure quando finisco le fanfic. Poi, ehm... ringrazio ancora Edward che mi passava le immaginette divertenti nonostante io stessi cercando di deprimermi; mi hanno aiutato molto, in qualche modo. xD
Beh, basta, mi ritiro nel mio angolo buio in attesa di recensioni. *Vi prego, recensite. Basta un click e qualche battitura di tastiera*

   
 
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