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Autore: Jo_March_95    10/03/2015    1 recensioni
“Not Monica.”
E’ una smorfia, quella che accompagna la dolce condanna dei sottili filamenti di acido desossiribonucleico riassemblati in un entropico disegno difettoso. Gli occhi spenti di Ian fissano un punto al di là delle spalle ossute di Fiona, vanno oltre la sua disapprovazione, la paura che crea un varco invalicabile tra le parole sputate al vento con rabbia infantile e pupille imploranti.
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Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Fiona Gallagher, Ian Gallagher
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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“Not Monica.”
E’ una smorfia, quella che accompagna la dolce condanna dei sottili filamenti di acido desossiribonucleico riassemblati in un entropico disegno difettoso. Gli occhi spenti di Ian fissano un punto al di là delle spalle ossute di Fiona, vanno oltre la sua disapprovazione, la paura che crea un varco invalicabile tra le parole sputate al vento con rabbia infantile e pupille imploranti.
Con gli angoli della bocca piegati, spinti verso il basso da una stanchezza trascendente, le parole escono senza sforzo ma è quell’ingorgo all’altezza della glottide a sfinire Ian.
Not Monica, scandisce a voce alta, ma le corde vocali vibrano di monotonia. Nessuna certezza, nessun sollievo.
Se qualcuno potesse restituirgli le redini di quel corpo stremato, un qualsiasi tipo di arbitrio, la possibilità di controllare anche un terzo di quelle spoglie doloranti, sarebbe tutto diverso. Avrebbe un sapore differente, una condanna impersonale che soffia in viso un alito di vento inaspettato.
Il familiare senso di nausea impedisce qualsiasi movimento secco del capo, con spirito quietista Ian porta avanti il dibattito.
Il cuore di Fiona batte ad un ritmo insostenibile, brividi freddi martellano il rachide, minacciano di spingere sulla lingua parole inopportune, di formulare sentenze senza espiazione.

Guerra fredda, li lascia entrambi rigidi a combattere in una trincea di disperazione, la genetica che riemerge lasciando l’impronta di un sorriso angosciante. Se il cielo smettesse di girargli attorno forse il rosso potrebbe portare avanti un’invettiva più efficace, ma quella dinamica staticità rischia di farlo cedere sotto il peso di accuse mortificanti.
Not Monica.
Sua madre avrebbe messo Yevgeny in pericolo, l’avrebbe lasciato chiuso in macchina con i finestrini alzati e sarebbe andata a cercare una dose di qualsiasi cosa potesse farle dimenticare di aver rovinato tutto un’ennesima volta.
Monica è la donna dai denti troppo bianchi e la guance scavate da lacrime che non sono più in grado di riparare nulla, la mamma capace di portarti sulla cima dell’Everest per poi lasciarti lì a guardarla cadere giù. Con la voce squillante della convinzione e il respiro pesante della disfatta è disposta a scortarti in cerca di te stesso, lasciandoti la mano ad intermittenza e spingendoti verso il buio quando la luce diventa troppo calda e la sua azione ustionante.
Monica è una mamma che non sarà mai nulla più che una figlia.
Ian è diverso, se il mondo smettesse di girare e le tempie premessero meno e pensieri più coerenti affollassero la sua mente sarebbe più facile spiegarlo. Spiegarlo a Fiona, quella figlia che sarà sempre e solo una mamma, con cinque gravidanze sulla coscienza e un bagaglio di sbagli tra tra le dita rigide.
E' un'onda familiare, un mare denso in cui ha imparato ad annaspare in cerca d'aria, lo sguardo placido del fratello non riesce a vedere oltre la superficie melmosa, ma la Gallagher più anziana sfiora con le caviglie libere una punta di quell'oblio.
Ha la consistenza fredda dell'attesa, ore e ore seduta sullo stessa identica sedia aspettando il momento in cui sarebbe stata grande abbastanza per scappare via. La pancia della mamma sempre troppo tonda e il viso del papà così spento, le pupille ridotte a tappi di bottiglia.
E' con ingenua cattiveria che Frank le rimprovera quegli occhi troppo grandi "è come se mi seguisse ovunque", quello sguardo così presente mette a disagio i genitori non ancora collaudati.
"Sei la mia principessa", sussurra Monica scompigliandole i capelli, ma anche lei evita quelle pupille liquide di maliconia, le bacia le orecchie e le pizzica le braccia, eppure non esita mai a chiudersi la porta di casa alle spalle.
A volte sono solo ore, altre ancora giorni, e Fiona non si muove da quella sediolina, quattro anni e le spalle troppo ossute, quattro anni e nessuna voce per chiedere aiuto.
E' la solitune a divorarla, le guance scarne e l'incarnato biancastro acquistano nuova consistenza con la nascita di Lip. Strilla troppo, sempre.
A Fiona piace sentire quel pianto primordiale, quella disperazione genuina. Ian le fa fare i salti di gioia, le sedie sono tre adesso.
A distanza di anni prova ancora quel senso di perdita all'altezza dello stomaco, il timore di sentire la porta di casa chiudersi per l'ennesima volta.

Ian prova a srotolare quella matassa di pensieri sottili, un filo di Arianna senza missione nè gloria. Vorrebbe gridare, dilatare la gola e riprendere il controllo di sé stesso, restituire un'immagine del vero Ian Gallagher.
Ritrovare una cadenza normale, che non oscilli tra discorsi deliranti colmi di parole e frasi spezzate i cui termini sfuggono alla presa della coscienza alterata, ripristinare quell'equilibrio naturale tra l'avventatezza dell'adolescente medio che arranca in cerca dei mezzi basilari di sopravvivenza e la saggezza di chi ha forgiato la propria mente addestramento dopo addestramento.
La libertà emotiva di chi riesce a seguire il movimento ciondolante della libido ma può ancora legarsi indissolubilmente e con cieca fedeltà ad un'unica persona. Riassemblare i frammenti e restituirli alla cornea di Fiona è un'impresa gravosa, Ian vorrebbe esserne all'altezza ma neppure sotto il tocco leggero delle proprie dita riesce a riconoscersi.
Nella mente vorticano immagini spezzate, richiami lontani. Le mani che lo sfiorano adesso non sono più le sue, sono di Monica, sono una condanna. Stringono ovunque, si arrampicano sulla schiena, e solleticano l'orecchio.
Monica, che non è più sua madre, ormai è un sintomo. Lo stereotipo dell'abbandono, della pazzia, dell'assenza.
Se Fiona lo capisse, se potesse scavare più a fondo e non soffermarsi sulla propria cicatrice personale, capirebbe quanto sforzo costa non sentirsi Monica in questo momento. Mentre le sue mani lo accarezzano, i suoi denti ne mordicchiano la volontà.
E sarebbe più facile piangere, chiedere scusa perché sì qualcosa non va, ma non è Monica, non può essere lei. Un fantasma che ti afferra alle spalle portandoti giù mentre il martellare del cuore ti indica un altro burrone, una nuova caduta.
Implorare perdono perché fa paura, ma è un incubo nuovo, non la semplice eco di quello passato.
Il moto circolare degli eventi non ha scelto Ian come portavoce, è già passato oltre, lui sta impugnando una nuova arma.
Il pericolo è assillante, ma sono sbagli nuovi, non il ricalco dei vecchi.

Ian chiude gli occhi ed è piuttosto sicuro che il movimento delle palpebre che si avvicinano sia il suo, non di Monica.
Tira in su gli angoli della bocca e l'amarezza di quel sorriso gli appartiene, le labbra mordicchiate dall'apprensione della madre non hanno nessun ruolo in questo. Resta solo Ian, non intero, non spezzato. Solo distorto, una rappresentazione incompleta, lo scherzo di un dio architetto che dopo un grandioso progetto iniziale decide di prendersi una pausa e lasciare il resto al caso.
E' in quel momento che Fiona lo vede. Quel suo disagio, quella sua ostinazione. La cieca convinzione di poter trovare le cicatrici del Ringraziamento sul polso di Ian, di vedersi riflessa in quelle cornee translucide come la Principessa di casa, di intravedere l'alone giallo delle dita di Frank attorno al collo pallido e sottile del fratello.
Not Monica, e adesso lo sa. Not Monica ma non fa meno paura.
  
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