Anime & Manga > I cinque samurai
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Autore: PerseoeAndromeda    11/03/2015    1 recensioni
Una fanfic che, in qualche modo, anticipa le paure provate da Shin nel secondo oav. Se, in aggiunta alle sue incertezze, gli fosse accaduto qualcosa? Forse lui era già entrato in contatto, in qualche modo, con la kikutei oscura. L'idea di mollare tutto, di non combattere più, si fa strada da tempo nella mente di Shin, che teme di non essere più in grado di reggere la situazione e l'abbandono al suo elemento potrebbe essere la risposta che cerca.
Genere: Angst, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Cye Mouri, Kento Rei Faun, Rowen Hashiba, Ryo Sanada, Sage Date
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'ABISSO DELL'ANIMA





CAPITOLO 1


“Anche se soffrirai, anche se sentirai dolore, ricordalo, piccolo Shin... ricordalo sempre, perché solo questo ti farà andare avanti, solo questo ti aiuterà a sopportare... ricordalo... è per il loro bene...”.
“E al suo bene? Chi ci pensa? Lui non è in grado di farlo...”.

Un singhiozzo ed un tremito scossero il ragazzo addormentato.
“Perché loro stessi non ne abbiano a soffrire, perché tu possa prenderti cura del loro dolore e farlo tuo, perché tu non puoi stare senza condividere ciò che provano... perché tu hai sottratto altri ad un amaro destino... è tuo dovere fare in modo che nessuno soffra più del dovuto”.
“A costo di soffrire lui stesso più del dovuto, non è vero? È questo che pretendi da lui?!”.

Il ragazzo singhiozzò ancora, tremò più forte; sul volto adolescente dai lineamenti un po' infantili si delineò una smorfia di sofferenza.
“È il tuo destino, Shin Mori; se non lo avessi accettato avresti condannato altri al dolore. Se ora lo rifiuterai, anche chi ti è caro sarà condannato al dolore”.
“E così gli è richiesto di condannare se stesso, troppo facile, perché non saprebbe mai dire di no, non saprebbe mai respingere una richiesta di aiuto”.

Il ragazzo si mise a sedere con un balzo, il suo grido si levò nella stanza silenziosa, gli occhi si sgranarono nel buio. Poi si portò le mani al viso, soffocando ulteriori singhiozzi.
Chi erano? Chi gli parlava? Era solo la sua mente distorta, erano solo gli incubi che gli facevano visita ormai ogni notte?
Quand'era cominciato tutto quel tormento? Da quando l'oscurità si era infittita a tal punto nel suo spirito che ormai faticava a lasciar emergere, in superficie, un sempre più illusorio, artificioso ottimismo?
La spavalderia con la quale era andato incontro al proprio destino, con la quale si era gettato a capofitto in ciò che gli era stato imposto, null'altro era se non una maschera, una recita, un'assurda messa in scena per soffocare tutto il terrore che gli lacerava l'animo, non per nasconderlo agli altri, non solo. Soprattutto a se stesso, perché non se lo poteva permettere. E allora doveva nascondere, doveva negare a se stesso che non voleva combattere, che lo disgustava, addirittura, combattere.
Soprattutto lo disgustava pensare alla propria persona che combatteva; l'orgoglio guerriero, se un tempo c'era stato, un barlume, un lumicino, che lo teneva in piedi e tirava fuori il suo orgoglio, si andava sgretolando insieme ai suoi ideali e alle sue certezze, insieme ai suoi sogni.
Probabilmente non aveva neanche mai pensato di doverlo fare davvero prima di trovarsi di fronte alla realtà dei fatti; non che non avesse creduto a Kaosu, che non avesse creduto a quello che aveva visto ed udito quando la yoroi si era, per la prima volta, presentata a lui, solo che la mente cancellava, rinviava, faceva tacere quel che lo avrebbe atteso dopo il compimento del suo quindicesimo anno di età.
Poi, per la prima volta, si era trovato riunito ai suoi nakama, a Shinjuku, di fronte a loro il primo inviato di Arago e tutto era cominciato davvero, senza scampo, né speranza, né via di fuga.
Da quel momento era stato rapito dal vortice, senza più porsi domande, senza più soffermarsi a pensare, a rifettere su quanto stava facendo, su quanto accadeva a tutti loro perché, se uno spiraglio di consapevolezza si fosse affacciato alla coscienza, insieme ad esso sarebbe giunta la follia.
E allora era meglio ridere, scherzare, farsi passare tutto addosso, con il sorriso sulle labbra, con gli incoraggiamenti rivolti ai compagni, con il combattere in prima linea, magari sperando di tenere lontani loro, almeno un poco, dalla battaglia, dal cozzare delle armi e dei corpi, dalle ferite, dal pieno della mischia. Ma non si poteva, tutti erano soli di fronte al loro nemico, nessuno poteva difendere i compagni come avrebbe voluto, nessuno poteva proteggere gli altri come avrebbe voluto, neanche donando la vita, perché poi i compagni sarebbero stati comunque in pericolo. E sicuramente non ci sarebbe riuscito lui, così debole rispetto a loro, lui che solo a contatto con l'acqua riusciva a far prorompere appieno la propria forza. Ma l'acqua tanto spesso era stata lontana in battaglia e allora si era sentito impotente, inutile.
Per quanto poteva essere possibile nascondere i propri sentimenti o, peggio ancora, farli tacere?
Perché questa era la realtà, lui i propri sentimenti li rinnegava, almeno quanto comprendeva, assecondava, cullava quelli degli altri.
Per quanto ancora avrebbe resistito prima che questi sentimenti, queste emozioni trascurate, abbandonate a se stesse, traboccassero, facendo affogare l'anima?
Il terrore andava crescendo, perché quel momento era vicino, troppo vicino. Lo confermavano gli incubi, le... le voci nella sua testa.
Aveva sempre sofferto di incubi, da quando otoosan lo aveva lasciato, da quando poi erano cominciate le battaglie, incubi che lo costringevano a riviverle, giorno dopo giorno, a riaffrontare le sofferenze dei suoi amici, le loro lacrime... e le proprie... ma non importavano le proprie.
Loro però no, non poteva accettarlo, il loro dolore era insopportabile.
E da tempo gli incubi erano diventati peggiori, ancora più reali, palpabili e c'erano quelle voci che gli parlavano, che parlavano tra loro e non le sentiva solo di notte, turbavano le sue attività quotidiane, lo distraevano a scuola, gli impedivano di studiare... ma ad impedirgli di studiare bastava la sua inquietudine interiore.
Cominciava a credere che stava diventando pazzo, era ad un passo da quella follia che aveva sempre fuggito o, più probabilmente, vi si trovava già immerso e quelle voci ne erano la prova.
“Ricordalo, Suiko, è per il loro bene, solo per loro...”.
“Suiko... mio adorato figlio dell'acqua, come lei puro, come lei sincero e generoso, pensa un po' a te stesso, scappa da tutto questo, non meriti tutto il dolore che provi, hai già sofferto troppo”.

Seduto sul futon, si portò le mani alle tempie, affondò le dita tra i capelli:
“Basta, basta, basta!”.
“È per loro, Suiko, per loro...”.
“Per... loro...” fece eco lui, ma le sue parole uscirono flebili, intrise di tutta l'impotenza del topolino preso in trappola, senza possibilità di fuga.
Le mani scivolarono in basso e gli occhi si spalancarono nella tenebra della sua stanza, che non gli consentiva di vedere nulla; neanche la luce della luna penetrava dalla porta finestra che dava sulla piccola veranda, solo, un poco, si intravvedeva il candore delle tende, lievi bagliori nel buio.
La sua stanza non gli era mai sembrata tanto tenebrosa e cupa, la sua bella stanza che un tempo era il suo rifugio; ora desiderava solo scappare, ma sarebbe stato inutile, perché le tenebre erano dentro di lui e da esse non avrebbe avuto scampo, in alcun luogo nel mondo, qualunque cosa avesse fatto.
Prese a tremare così forte che temette di andare in pezzi e, quasi per darsi sostegno, strinse le braccia al petto, raccolse le ginocchia, incassò la testa tra le spalle, desiderò farsi tanto piccolo da scomparire.
“Scomparire... scomparire... scomparire...”.
Erano ridotti a questo i suoi sogni? Non sapeva più cosa desiderare dalla vita se non un po' di pace, a costo di svanire nel nulla?
Non pace del corpo, ma della mente; era snervante trascinarsi nel terrore di dover indossare ancora quelle vestigia che non si sentiva più in grado di comprendere e che monopolizzavano la sua esistenza da troppo tempo ormai.
Dopo che avevano sconfitto Arago, che sollievo era stato, ritornare alla vita di tutti i giorni, alla famiglia, ad un legame con i suoi nakama basato unicamente su un'amicizia... un amore... sereni.
Ma poi era arrivato Shikaisen ed erano riaffiorate quelle paure con le quali Shin aveva dovuto fare i conti fin dall'inizio, così terrorizzato da esse da tenerle nascoste in un angolino di anima, in modo che anche lui potesse fingere di ignorarle.
La yoroi aveva imposto la propria volontà, aveva chiesto di venire ancora usata, mascherandosi dietro al bisogno di salvare un amico.
E la yoroi di quell'amico, priva del controllo del cuore, aveva seminato morte e distruzione, perché questa era la sua natura, le loro yoroi erano state forgiate dai residui di uno spirito oscuro.
Seiji era forte, eppure era stato tanto difficile anche per lui accettare l'accaduto; Shin era stato aggredito dalla sofferenza che Seiji tentava di nascondere come fosse stata propria.
Alla fine il dramma di Seiji era salito in superficie e si era rivelato difficile aiutarlo a riprendersi dalla prostrazione, dal senso di colpa: per un po' aveva persino rifiutato di rivedere tutti loro, collegava il gruppo alla sofferenza, alle battaglie... a ciò che Korin aveva fatto a New York.
Poi quell'incidente che l'aveva gettato in coma e, ironia della sorte, quel suo sonno innaturale aveva loro permesso di entrare in contatto con la sua anima e di ricondurlo alla luce che gli era propria.
Era stato terribile, ma Seiji ce l'aveva fatta, la sua integrità interiore aveva retto, la sua grandezza morale era esplosa in tutta la sua luminosa fermezza.
Ognuno di loro avrebbe potuto cadere in quel tranello, era toccato a Seiji per una pura casualità.
“E se fosse toccata a me una simile esperienza... cosa avrei fatto io?”.
Avrebbe perso la ragione, in fondo gli stava capitando per molto meno.
L'evento aveva risvegliato in tutti loro antiche incertezze e anche se qualche mese, ormai, era passato, sempre più difficoltà aveva Shin nel mettere a tacere quell'angolino di sé, era sempre meno tollerabile, per lui, la possibilità di avere ancora a che fare con quella realtà. Ancora una volta, ancora un richiamo della yoroi, ancora una pretesa del fato di obbligarlo a prestare se stesso a forze tanto più grandi di lui e, lo sentiva con terrificante certezza, sarebbe precipitato in quel baratro da cui Seiji era riuscito a tirarsi fuori.
E niente e nessuno avrebbe potuto aiutare lui, neanche il disperato tentativo dei compagni, troppo più nero, più debole il suo animo, troppo più fragile.
Portò gli occhi alle mani, ombre indistinte nell'oscurità, forgiate di tenebra...
Fu colto da un capogiro.
“Forse sono già nel baratro, la yoroi mi ha già distrutto l'anima e io... io...”.
Si piegò in avanti e in quelle mani affondò il viso. Era terribile non riuscire a ripristinare, nella propria esistenza quotidiana, una parvenza di normalità, non potersi lasciare tutto alle spalle, non potersi considerare, unicamente, quello che dopotutto era: un ragazzo con dei sentimenti, con delle passioni, con il desiderio di vivere da ragazzo e non da samurai.
Ma l'aveva davvero questo desiderio? Si sentiva così interiormente spento, sempre di più, incapace di guardarsi intorno, di scoprire cosa la quotidianità gli offriva, di vedere cosa ci fosse di bello nel mondo per lui. Si sentiva solo, da tempo, solo come un samurai, solo come altri quattro come lui, solo in un mondo che non li avrebbe mai capiti, solo loro uniti in un'unica, inscindibile entità di reciproco amore, ma anche di dolore pulsante.
Uniti, eppure lontani, ciascuno a fingere che tutto andasse bene, che tutto fosse sotto controllo, a recitare una normalità che, come prezzo, li teneva distanti, li separava gli uni dagli altri, lui soprattutto, relegato in quell'angolino di sud, così difficile da raggiungere, così lontano dal cuore del Giappone dove i suoi nakama erano, più o meno, raccolti.
Eppure nessun altro amico esisteva per loro in quella normalità, nessun amore. Erano separati, ma perdutamente uniti, i loro cuori incatenati, sarebbe stato sufficiente che uno di loro strattonasse quella catena per attirarli tutti, per farli accorrere, mollando tutto, qualunque cosa, si sarebbero ancora corsi incontro, anche a costo di perdere se stessi, disperatamente innamorati gli uni degli altri, tanto da tenere fuori tutto il resto.
“E allora perché?” mormorò, nel gelido abbraccio della notte, “perché non mi è neanche concesso averli accanto? Solo in battaglia abbiamo dunque il diritto di camminare insieme? Solo nel dolore?”.
Si trattava, forse, di un'ulteriore paura che non trovavano il coraggio di esprimere apertamente? Riunirsi avrebbe significato richiamare i ricordi e magari rimaterializzarli, venire gettati in un nuovo incubo fatto di scontri, sangue, violenza e lacrime.
“Non è giusto” sbottò il ragazzo scostando con nervosismo le coperte e scivolando fuori dal futon, per poi mettersi in ginocchio sul tatami, rifugiando ancora il volto tra le mani.
“Certo che non è giusto ma forse, piccolo mio, è meglio a questo punto non vederli più, rinunciare a tutto, anche a loro, resta lontano da loro, lontano da tutto... dimentica, mio tenero Suiko... dimentica...”.
“E così soffriranno, soffrirai, soffrirete tutti comunque!”.

Le mani risalirono fino alla nuca, affondarono nei capelli fin quasi a strapparli, un singulto salì alla gola del ragazzo, il suono stesso della disperazione.
“Volerli al tuo fianco... temi di essere egoista in questo... lo so... ma non avrai più bisogno di loro”.
“Egoista è la rinuncia, lo sai bene, Suiko, tu non vuoi essere egoista, non l'hai mai voluto, non con la tua famiglia, non con i tuoi nakama, non con l'universo stesso”.

“Tacete... basta... vi prego..”
Si artigliò il cuoio capelluto con tale ferocia che le proprie unghie graffiarono la cute, ma non ci diede peso, non gli importava, forse non se ne rendeva neanche conto del tutto; sfiorava tali livelli l'odio verso se stesso, il senso di inutilità, che il dolore del proprio corpo gli appariva... meritato? Era così?
Perché era giunto a tal punto?
Aveva difeso il mondo dalle tenebre, non aveva mai fatto del male e se l'aveva fatto non aveva voluto. Aveva sempre difeso, unicamente difeso, ciò che tentava di fare da sempre, ciò in nome di cui era cresciuto, ciò che aveva promesso a suo padre, mentre si dicevano addio.
“Abbi cura di loro, okaasan e Sayoko-Neesan avranno bisogno di te” gli aveva detto, “sei un ometto Shin, sei l'uomo di casa adesso, non avere mai paura e dimostrati forte e credimi, io sarò sempre orgoglioso di te”.
La promessa di non deluderlo e la sensazione di averla già infranta...
Perché c'era un'ombra dentro di lui, perché la yoroi l'aveva contaminato, l'aveva messo al cospetto della sua parte oscusa... o forse del vero se stesso?
Abbassò le mani, si fissò ancora i palmi, senza poterli davvero vedere, le dita ripiegate e contratte, proprio come artigli che tentavano di sfuggire a quelle tenebre che erano loro proprie.
“Ero inadeguato” mormorò, lo sguardo colmo d'orrore, “fin dall'inizio... inadeguato per tutto. La yoroi me l'ha solo fatto capire, sono troppo debole, troppo negativo per sopportarla, è tutto sbagliato, non dovevo promettere... non avrei mai dovuto promettere... a nessuno”.
Si alzò lentamente, barcollando un poco; perché quell'equilibrio instabile? Portò la mani alla fronte e la scoprì sudata, un inquietante sudore freddo che colava lungo le tempie.
“Vuoi la pace, Suiko, la desideri più di ogni altra cosa al mondo, non è vero?”.
“Oh, sì... sì...”.
Per la prima volta rispondeva ad una di quelle voci con totale abbandono, per la prima volta si trovò a volere ascoltare proprio quella... quella che sembrava più amica.
Era pericoloso, lo sapeva, se avesse ceduto, se avesse ascoltato gli scherzi della propria mente distrutta...
“Shu...”.
Lo mormorarono le sue labbra, così, senza preavviso, un nome salito dal petto, dal cuore, il bisogno autentico che quelle fantasie assurde rischiavano di cancellare.
Quanto avrebbe voluto che Shu fosse lì con lui, si sentiva sempre al sicuro accanto a Shu, fin dal primo giorno, dall'istante in cui si erano conosciuti, anche se ad ammetterlo a se stesso ci aveva impiegato un po', ma neanche in battaglia poteva staccare del tutto il proprio sguardo da lui, perché gli occhi di Shu gli davano forza, gli trasmettevano coraggio, non lo facevano sentire solo, mai, neanche quando in battaglia erano davvero tutti soli. Ma erano insieme, un controsenso che non necessitava di nessun'altra spiegazione.
Era lo stesso con tutti i suoi compagni, ma Shu sapeva tirare fuori il meglio di lui, era in grado di cancellare ogni male, ogni ansia, ogni incertezza.
Ma Shu era lontano, dall'altra parte del Giappone, tutti i suoi nakama erano lontani e lui si sentiva solo, perché quella distanza, forse, avrebbe finito per non essere unicamente una distanza fisica.
“Forse li perderò un giorno... li perderò davvero...”.
Sarebbe arrivato il momento in cui non sarebbe più stato in grado di soffocare tutto ciò che aveva dentro, sarebbe arrivato il giorno in cui tutto il suo malessere, le sue angosce, la sua autentica vigliaccheria, sarebbero saliti in superficie e allora? Allora li avrebbe delusi, avrebbero perso la fiducia in lui e per lui avrebbe significato la fine di tutto.
Camminò fino alla veranda e scostò le tende, affacciandosi sul giardino rigoglioso, ma in quel momento invisibile agli occhi: la notte di Hagi poteva essere così buia, a volte, e silenziosa nelle strade più antiche. Non c'era neanche lo sciacquio delle onde a confortarlo, l'oceano era distante dalla zona in cui lui abitava.
“Più vicino... devo andare... più vicino...”.
Il bisogno del suo elemento si faceva disperato e vitale in alcuni momenti, anche se vi era un forte conflitto in lui: l'acqua, Suiko, la yoroi e la missione dei samurai... tutto troppo legato... avrebbe dovuto odiare persino l'acqua... e allora?
“L'acqua è vita... come potresti?”.
In quel messaggio un soffio di tristezza, che scese come un macigno sul suo petto fin quasi a soffocarlo.
Si portò le mani agli occhi, di nuovo.
“Non volevo” gemette.
Accese la luce e la sua stanza tornò riconoscibile, nel suo ordine immacolato, pochi oggetti sul tavolino basso e agli angoli, il resto vuoto, ogni cosa riposta con cura nell'armadio a muro della parete più interna. In apparenza gli oggetti di un ragazzo, un qualunque ragazzo di diciassette anni: libri, un pallone da basket e, sul tavolino, la borsetta a forma di pesce per la quale i suoi nakama lo prendevano spesso affettuosamente in giro. Ce l'aveva da quando era bambino, uno di quegli oggetti cari dai quali non si separava mai.
Andò a sedersi a gambe incrociate davanti al tavolino, prese un foglio, una penna e scrisse poche righe, come un automa, un saluto per la sua famiglia, ormai abituata a vederlo scomparire quasi senza preavviso, un pensiero per sua madre che si sarebbe preoccupata, non importava l'abitudine, con certe cose era impossibile imparare davvero a convivere e Shin, ormai, lo sapeva bene.
Okaasan soffriva di cuore, non avrebbe mai voluto causarle ansie che avrebbero potuto creare ulteriori problemi al suo cuore malato. Ancora sensi di colpa, accumulati sugli altri, sensi di colpa mai estinti dal giorno stesso in cui Otoosan se n'era andato.
Eppure, per una volta, aveva possibilità di scelta, nessuno ora gli imponeva di farla preoccupare; certo, era puro egoismo, il suo egoismo di sempre che finalmente decideva di mettersi in luce, perché non riusciva più a stare lì, non un giorno, un minuto, un istante di più. Non riusciva a stare lì, ma non sapeva dove sarebbe riuscito a stare.
“Forse, dopotutto, in questo mondo non esiste davvero un posto per me, non esiste più...”.
Egoismo... il bisogno di ascoltare se stesso che stava crescendo dentro di lui, quel bisogno mai ascoltato prima, i suoi sentimenti che volevano essere presi in considerazione e lui ne era terrorizzato, con tali sentimenti entrava in conflitto, litigava, ci si arrabbiava, perché lo soffocavano, affollandosi l'uno sull'altro, senza risoluzione, senza quasi più controllo.
Una lacrima cadde sul foglio, sbavando un pochino l'inchiostro.


 
"Devo partire di nuovo, vi prego di scusarmi se ancora una volta non vi saluto, abbiate cura di voi e non state in ansia per me, vi bacio con tutto il mio affetto.


Shin".


Perché lo faceva? Doveva solo andare al mare, no? Doveva solo camminare fino al mare e poi tornare a casa. Perché aveva sentito il bisogno di scrivere quella lettera?
Aprì l'armadio, afferrò una maglietta azzurra e un paio di jeans, lasciò scivolare a terra lo yukata e si vestì. Poi ripiegò ordinatamente lo yukata, lo ripose sul cuscino del futon, fece scorrere lo shoji e chiuse la luce.
Attraversò in silenzio il corridoio, oltrepassò quella che era stata la stanza della sorella, trasferitasi con Ryuusuke-Niisan nella dependance accanto da quando si erano sposati, poi si fermò un poco davanti alla porta chiusa della madre e lì non resistette: scostò appena lo shoji e sbirciò dentro. Non voleva svegliarla, ma c'era quel rituale quasi ossessivo che lo spingeva a controllare, ogni volta che la sapeva chiusa lì dentro da sola, che stesse bene.
La stanza della madre aveva una finestra situata proprio sopra al punto in cui dormiva, e un frammento appena percepibile di luce accarezzava la sua sagoma, un lieve movimento indicava un respiro regolare. Shin impiegò parecchi istanti prima di notarlo, ma solo allora si rassicurò e richiuse, più silenziosamente che poté.
Scese le scale, si mise un paio di scarpe da ginnastica che sembravano lì, in attesa e si ritrovò in giardino, tra aceri, ciliegi, cedri ed ogni genere di altre piante cui tutti loro dedicavano un'amorevole cura.
Camminò ancora lungo il viale, simile ad un sonnambulo, senza rendersene conto lasciò una lieve carezza alla corteccia del grande acero rosso che si ergeva come un re nel loro piccolo terreno, poi fu fuori, immerso totalmente nella notte di Hagi.
Un passo dopo l'altro, ignaro degli occasionali passanti, dei vaghi e rari rumori notturni, andò avanti, un muro bianco accanto a un altro muro bianco, se li lasciò tutti alle spalle fino a giungere alle stradine più remote, eretto e lo sguardo fisso davanti a sé, l'apparenza molto sicura di chi conosceva perfettamente la propria meta, mentalmente distante da ogni manifestazione di vita intorno a sé, in testa solo l'altro universo, quello fatto d'acqua, che ora voleva toccare, nel quale voleva immergersi perché, forse, entrando con esso in completa simbiosi, tutte le insicurezze avrebbero perso il loro significato e qualcosa, per lui, avrebbe riacquistato un senso, l'unico senso... lui e l'acqua... insieme...
Non era breve il cammino per il mare; Hagi era una cittadina marittima ma non così piccola da essere tutta raccolta solo in riva all'oceano, con passo tranquillo avrebbe impiegato poco meno di mezz'ora. Aveva fretta di vedere il mare ma, al tempo stesso, sentiva dentro una strana pace, una pace non positiva, la pace della rassegnazione e della rinuncia che allontanava da lui il bisogno di affrettarsi.
Camminava piano, come in preda ad uno strano sogno, la notte con i suoi radi suoni lo accompagnava: un leggero frusciare delle fronde dai giardini, le cicale che, in quel primo periodo estivo, elevavano il loro canto alla calura di Hagi, qualche cane che al suo passaggio svolgeva il proprio lavoro di custode.
Il ronzio delle macchine distributrici di bevande si faceva udire qua e là e i lampioni rendevano un po' meno oscure le vie strette non tutte, però, ugualmente illuminate.
Quando giunse alla spiaggia, sul suo volto serio si dipinse l'ombra di un sorriso estatico, immaginava se stesso come uno spettro smarrito in una dimensione parallela, in un limbo tra cielo, terra e acqua... e dell'acqua ricercava l'abbraccio, in essa il completo abbandono.
Sulla battigia fermò i propri passi, si sfilò le scarpe, poi assaporò, per qualche istante, la carezza delle onde intorno ai piedi nudi, la consistenza della sabbia a contatto con la sua pelle; gli era sempre piaciuto sentire i granelli che scivolavano via ad ogni andirivieni dei flutti, ma questa volta non gli diede gioia, solo un maggior senso di abbandono, il bisogno diventava necessità di lasciarsi trascinare anche lui insieme ai granelli, per non tornare più.
Avanzò finché l'acqua non gli avvolse le caviglie, poi le ginocchia. Allora si fermò ancora, alzò gli occhi al cielo e si immerse nella contemplazione della volta stellata; un frammento di coscienza condusse il suo pensiero a Touma, il signore del cielo, a Seiji, la cui luce poteva accendere le stelle, al calore di Ryo che ardeva in quelle più luminose.
I suoi occhi si velarono e la vista si offuscò. Lanciò uno sguardo alle proprie spalle, alla terra che si stava lasciando indietro, le sue labbra si mossero, lievi:
“Shu...”.
Socchiuse le palpebre, in un'istintiva reazione al bruciore delle lacrime, riportò lo sguardo davanti a sé, strofinò l'avambraccio sugli occhi e, quando lo riabbassò, qualcosa si accese nell'oscurità, un luccichio metallico, un barlume rosso e argento in una sagoma nera. Gli era familiare, ma anche estraneo. Strinse le palpebre, focalizzò la propria attenzione e, in preda allo sgomento, sussurrò:
"Kikutei".
La yoroi che si materializzava dall'unione dei loro cuori, le candide vestigia che sempre avevano avvolto Ryo in battaglia gli apparvero, nere come le tenebre più profonde, oscure, malvagie.
E la yoroi era grande, più immensa che mai, grande e spaventosa come Arago.
Immobile, terrorizzato, Shin non riusciva a distogliere gli occhi da quella figura che si stagliava davanti a lui. Senza poter in alcun modo reagire rimase a fissarla, occhi sgranati, labbra aperte e tremanti come lo era ogni fibra del suo corpo, mentre il mostro di metallo allargava le braccia. Ricordi orribili si fecero strada nella memoria di Shin: risentì nelle ossa, vivo e presente, il dolore che Arago aveva provocato al suo corpo quando, con tutta la violenza di cui era capace, si era abbattuto su di lui, senza pietà, senza ripensamenti. Su di lui e, soprattutto, sui suoi nakama, che non era mai stato in grado di proteggere.
Poi tornò, una delle due voci che tormentavano i suoi momenti di sonno e di veglia:
“Non andare oltre, Suiko, devi restare, avranno bisogno di te”.
La Yoroi gli parlava, con un tono sovrannaturale e metallico che gli gelava le vene e lo rendeva folle per la paura e l'angoscia.
Fu colto da brividi ancor più violenti e, mentre i suoi occhi si riempivano di tutto l'orrore che provava, strinse le braccia attorno al corpo, alla ricerca di un calore che, lo sapeva, nessuno avrebbe più potuto dargli.
“Lascialo andare, lascialo libero, lascia che venga da me...”.
Ecco l'altra voce, consolante, non più umana dell'altra, ma rassicurante, protettiva.
“Dipende da te, piccolo Suiko, puoi cacciare l'oscurità che ti vuole per sé, devi solo scegliermi...”.
“Oh... sì...” mormorò il ragazzo, sciogliendo le braccia e riportandole lungo i fianchi, “voglio solo... essere in pace... sono così stanco...”.
Riprese il cammino.
Sapeva perfettamente che la sua scelta era quella sbagliata, ma l ' alternativa, al punto in cui era, non lo sarebbe stata meno: era troppo debole, troppo rassegnato, troppo stanco, si sentiva in grado di scegliere solo la pace.
La sua attenzione si concentrò su un'onda lontana che si innalzava. Era acqua... o una creatura degli abissi che si ergeva sempre più, altissima e stava venendo per lui.
Shin fissava quel fenomeno; ogni ombra di paura era scomparsa dal suo volto e, quando la barriera d'acqua torreggiò sopra il suo corpo, ora così piccolo, un puntino insignificante in quella immensità della quale desiderava far parte, aprì le braccia, contemplando la sommità dell'immenso muro liquido.
Di colpo l'onda si abbassò e Shin chiuse gli occhi, in attesa, lasciandosi sommergere, abbracciare, trascinare dovunque il flutto avesse voluto.
“Sei arrivato da me, tenero Suiko, lascia che io ti protegga... ora non soffrirai più”.



 
***


In quattro angoli diversi del Giappone, quattro ragazzi aprirono gli occhi nel medesimo istante, strappati al sonno da un'acuta sofferenza che attraversò i loro cuori.
Il legame era stato spezzato, il quinto elemento del gruppo strappato via, svanito, come spento in uno straziante gemito d'agonia.
Sulle labbra di ognuno di loro prese forma un nome che divenne un richiamo, una preghiera e, al contempo, un lamento di paura e dolore :
“Shin!”.
Alle loro orecchie, ne furono convinti, giunse in risposta un sussurro, flebile come il pianto di un bambino cui la sofferenza avesse cancellato, quasi del tutto, la capacità di parlare:
“Perdonatemi...”.


NOTA DELL'AUTRICE: Lo so che prometto sempre di pubblicare solo storie terminate, ma non ho resistito, anche perché questa ha una forma abbastanza definitiva sul mio pc e i primi capitoli li considero terminati e non penso di toccarli ancora, quindi tenetevela :P
   
 
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