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Autore: Better_Than_Words    12/03/2015    1 recensioni
Quanto può essere difficile svegliarsi sempre con il terrore di non sapere chi tu sia?
O quali saranno le difficoltà che dovrai superare con quella nuova identità?
Le domande sono molte, ma di riposta ce ne è solo una.
!Attenzione!
La storia non è mia!
L'autore, Filippo Cardoni, mi ha solo dato l'autorizzazione a pubblicargli la storia!
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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~Ricordo di non ricordare~


All’inizio vi era il buio.
Almeno, questo era finchè non aprii lentamente gli occhi. Non capivo cosa stava succedendo, non capivo dove ero o cosa fossi esattamente. Nella mia testa c’era un fischio continuo che sembrava non cessare mai, la mia vista era offuscata e non sentivo minimamente il mio corpo. Provai a stiracchiarmi un po’ ma non potevo, ancora non riuscivo a sentire nemmeno un muscolo. Mi sforzai dunque di mettere a fuoco ciò che avevo davanti e iniziai a vedere qualcosa di bianco, una luce soffusa forse. Poi, di nuovo, il buio. Evidentemente ero ancora troppo stanco per alzarmi. Feci un respiro profondo, riempiendo d’ossigeno ogni piccolo spazio dei miei polmoni, l’aria che entrava e che usciva in grande quantità mi dava un senso di relax unico nel suo genere e tutto, lentamente, tornava in ordine. Riuscii dunque ad alzarmi dal letto, appoggiando i piedi sul freddo pavimento di mattonelle. Un piccolo brivido mi salì fino alla schiena, ma fu piacevole. Passai poi in bagno, dove ogni volta la solita routine dava inizio alla lunga giornata di lavoro, dunque mi lavai la faccia, mi pettinai e mi misi qualche vestito addosso. Specchiandomi mi vidi di nuovo, come ogni giorno; tuttavia ancora non riuscivo a capire come fossi fatto veramente. Capitava di svegliarmi un giorno e avere occhi verdi, capelli marroni chiari e pelle chiara. Altri giorni invece, mi svegliavo ed avevo occhi e capelli neri, scuri come il carbone. Oggi, invece, avevo gli occhi celesti, capelli lunghi fino al collo, un leggero accenno di barba marrone come i capelli. Passai la mano sul viso, provando a fondo la sensazione di piacere nel sentire i peli che mi sfilavano tra le dita, che finivano poi sul collo nudo e crudo. Mi spruzzai un po’ di profumo addosso e uscii di casa.

…Casa? La storia era la medesima. Un giorno mi ritrovavo in una piccolissima casa di legno in campagna, un altro mi trovavo in un lussuoso edificio in pieno centro a New York. A volte mi ritrovavo invece a Pechino e poi di nuovo nelle Hawaii. Curiosamente, in ogni posto in cui mi ritrovavo, avevo sembianze diverse. Tuttavia, sapevo perfettamente ogni lingua, conoscevo benissimo il posto, le persone che frequentavo…ogni singola cosa era a me già conosciuta. Questa volta invece, mi trovavo in Australia, a Melbourne per la precisione. Il mio vestito formale sicuramente era poco adatto alla situazione: a quanto pare ero appena uscito da una casa sulla spiaggia, con un giardino piuttosto capiente con palme e ortaggi. Eppure, io non avevo proprio il look di un cittadino tipico dell’Australia. Quando pensi all’Australia la prima cosa che ti viene in mente è il surf, i ragazzi a petto nudo, le ragazze in bikini. Sole, mare, surf e koala. Questo è. Eppure, io ero lì, con un giubbotto di pelle sopra una camicia bianca e un paio di jeans. Guardai per un attimo la cassetta delle poste, ma come al solito, non c’era ombra del mio nome. Non sapevo chi fossi, ne quanti anni avevo, ne se avevo famigliari o altro. L’unica cosa che sapevo, è che ogni volta che andavo a guardare in una cassetta della posta ricevevo sempre lettere analoghe. Decisi di tentare di nuovo a leggerle e mi ritrovai un messaggio che citava:

“Fai proprio schifo! Tu e tutti i tuoi discorsi sul rendere felici le persone, in realtà sei inutile e finto!”

O ancora…

“Dicono che conoscerti sia bellissimo eppure avrei preferito non conoscerti affatto!”

La prossima…

“Wow! Grazie grazie grazie! Finalmente dopo tanto tempo hai mantenuto la promessa, sono davvero felice.”

Ecco, forse questo era l’unico messaggio degno della mia nota.  Abbozzai un sorriso e stropicciai il resto delle lettere. Poi, iniziai a camminare. Mi piaceva un sacco sentire semplicemente lo scricchiolio dei bastoncini sotto i miei piedi, la brezza che mi passava tra i peli del viso e i capelli, vedere gli uccelli che si liberavano in volo e l’acqua del mare che lentamente e ripetutamente si schiantava sulla spiaggia. Poi, dalla spensierata immensità della spiaggia passai immediatamente alla riservatezza di una foresta, dove le palme sovrastavano i raggi del sole che filtravano e rischiaravano le rocce e il delicato flusso dei ruscelli. Il canto dei grilli che si univa a quello dei pettirossi rendeva il tutto così tranquillo e armonioso, così delicato, che io stesso mi sentii in pace. Capii, per un momento, il bisogno di riservatezza e di solitudine a cui l’uomo tiene così tanto. Quel bisogno di staccare la spina, di andare a stare un po’ da soli, con la musica -o in questo caso il suono della natura- che ti fa da copertura dai problemi del mondo. Presi in mano un piccolo sasso e lo lanciai sulle sponde di un fiume. Nel fare questo mi immaginavo in un ipotetico futuro mano nella mano con il mio piccolo figlio, mentre gli insegnavo a far rimbalzare il sasso sull’acqua. Se c’era una cosa che rimaneva la stessa ovunque fossi, era questa: provavo sempre grande gioia e soddisfazione ad immaginarmi in situazioni amorevoli. Ogni tanto poi, mi giravo e vedevo uno scoiattolo che poco a poco si riempiva le guanciotte di noci, e la sensazione che provavo era praticamente la stessa. Pensai che ogni essere vivente, animale o umano, aveva una sua famiglia a cui far ritorno e che quello scoiattolo probabilmente stava salvando del cibo per la sua famiglia. E mentre pensavo a tutto questo non potevo far a meno di lasciarmi guidare dall’istinto, dalle mie gambe che una dopo l’altra si muovevano verso una direzione sconosciuta.

…O forse no?  Avevo sempre questa doppia sensazione, questo sesto senso, dove tutto mi sembrava già premeditato. Difficile da spiegare, era come se io già sapessi dove andare, cosa fare, chi incontrare. Eppure, ogni giorno, le cose cambiavano. Che casualità era? Davvero era tutto premeditato? No, strano ipotizzarlo e fin più strano crederlo.
Continuai dunque a camminare verso il nulla, o ciò che sembrava tale, avvolto dalla sensazione di essermi appena svegliato e in un certo senso, frastornato. Poco a poco cominciai di nuovo ad avere il sole dritto nei miei chiari occhi, e lentamente adattai la vista e misi a fuoco. Mi ritrovavo in un bar, era un posto squisito avvolto dall’ombra della foresta. Più che un bar in effetti, sembrava un piccolo chiosco, ma era piuttosto frequentato e l’insegna accanto era chiara: “Jungle Bar”. Iniziai a guardarmi attorno finchè non sentì una voce femminile chiamarmi dalla distanza.

“Oooooi, Aiden!” Sentii alle mie spalle, E sulla mia faccia si abbozzò un sorriso involontario. Mi voltai e vidi una ragazza che, seduta su una sedia, mi faceva cenno con la mano di andare da lei.

Mi avvicinai con disinvoltura:  Sapevo di essere piuttosto affascinante, ero in un posto carino e non troppo rumoroso, in mezzo alla natura. Dunque, appena arrivato da lei, si alzò dalla sedia e mi baciò sulle guance, poi mi abbracciò fortemente per qualche secondo. Quando lasciò andare la presa, io le poggiai le mani sulle spalle e le dissi: “Buongiorno Jamie, è da parecchio che aspetti?”

“Veramente è da poco più di cinque minuti, ma non fa nulla” rispose, poi si sedette invitandomi a fare lo stesso. Io le risposi che andavo ad ordinare qualcosa al bar e che sarei tornato subito. Dunque varcai la soglia ed entrai, andai al bancone ed attesi di avere l’attenzione del barista. C’era un po’ di fila, dunque il mio istinto di osservare l’ambiente circostante prese il sopravvento. Osservai ogni cosa, il soffitto era fatto di intrecci di travi e bambù, in un certo senso era raffinato e appagante. Il bancone, sul quale ero poggiato, era anche esso di legno, molto liscio e senza schegge. Anche questo appagava il mio tatto. Sì, mi resi conto che forse ero materialista, o meglio, perfezionista. Ma il vedere qualcosa fatto a modo mi faceva stare meglio. Mentre ero perso in tutti quegli stupidi ragionamenti, ebbi una palpitazione: per un attimo il cuore mi salì in gola e mi accorsi che avevo salutato quella ragazza, Jamie, con tanta naturalezza mentre poco fa non mi ricordavo nemmeno il mio nome. Aiden, Io ero Aiden. E lei era Jamie. Il barista bussò due colpi sul bancone per avere la mia attenzione. Io mi schiarii la voce e ordinai una Coca-Cola per me e un Gin&Lemon per Jamie. Non so nemmeno io come sapevo che a lei piaceva il Gin&Lemon, ma lo presi con totale sicurezza. Lasciai i soldi lì e mi diressi di nuovo verso Jamie.

“Ti sei fatto attendere più del previsto, Aiden”  seguito da un occhiolino quasi di sfida.

“Signorina Leng…”

“Jamie Leng.” Aggiunse lei.

“…Jamie Leng, Mi sono fatto attendere ma le ho portato un bel bicchiere di Gin&Lemon. Credo che me lo terrò per me.”

“No, si accomodi pure signor Blaze.”

“Con permesso, dunque” conclusi così la discussione e mi sedetti vicino a lei. Con questo piccolo stratagemma mi ricordai il mio cognome. Aiden Blaze. Guardai velocemente gli occhi di Jamie mentre beveva lentamente il suo drink, e io feci lo stesso con la mia Coca-Cola. Poi, di nuovo, la guardai negli occhi.

“Allora, come mai hai scelto questo posto?” le chiesi.

“Beh, è tranquillo, in un certo senso, riservato e…”

“E…?” mi accorsi che con la coda degli occhi stava fissando un punto in lontananza e decisi di buttarla sullo scherzo, così aggiunsi:

“Ho capito. Dietro di me c’è una Tigre che sta per assalirmi e questa era una tua trappola.”
Mi guardò per un attimo perplessa, poi però si lasciò andare ad una risata sfrenata. Si coprì la bocca sorridente con la mano in un gesto che rispecchiava solo grazia. E mentre lei rideva, sotto sotto ridevo anche io.

“Sì lo ammetto, sei divertente” disse lei, avvicinandosi con le braccia conserte e appoggiate sul tavolo. Io, mi avvicinai allo stesso modo e presi un sorso di Gin&Lemon dalla sua cannuccia.

“E io ammetto che tu hai un certo fascino e una certa grazia.”

“Ma sentilo…” disse sempre con una certa aria di altezzosità, poi mi spinse indietro con una pacca sulla fronte. Io, mi lasciai andare e tirai la testa verso l’alto, rimanendo così per qualche secondo.

“Che diamine stai facendo?” mi chiese, al che io risposi molto pacatamente:

“Mi hai appena sparato in testa piccola, sono morto” poi, riabbassai la testa facendo una faccia idiota, quelle mi riuscivano sempre bene.
Lei abbozzò un ghigno ed era chiaro che stava tentando di trattenere un’altra risata, poi appoggiò la fronte sulle braccia conserte e si lasciò andare di nuovo ad una risata.
Io nel frattempo stavo finendo la mia Coca-Cola. Vidi con la coda dell’occhio il barista avvicinarsi a noi per prendere il bicchiere ormai vuoto di Gin&Lemon e la mia lattina di Coca.

“Posso?” chiese gentilmente, al chè Jamie si alzò di scatto, quasi sorpresa di ritrovarselo davanti.

“Certo che puoi, fa con comodo” disse. Poi guardò me, facendomi cenno con gli occhi di guardare il barista. Il tutto, seguito da un sorriso naturale.

“Grazie” replicò lui e se ne andò di nuovo nel bar.
Mi ci volle davvero poco per capire dove voleva arrivare, ma la fermai prima che potesse parlare. Le uniche cose che uscirono dalla sua bocca furono:

“Che hai? Ti vedo…triste, così da un momento all’altro.”

“Triste?” replicai “No, direi seccato, questo sì” e la fissai negli occhi. Questo semplice fatto, intendo il fatto di averla fissata negli occhi, deve averle fatto male. Lo dico perché subito si chiuse su ste stessa, abbassò lo sguardo e non parlò. Non riuscii ad infierire oltre. Aspettai che fu lei a guardarmi nuovamente, poi sempre con lo stesso sguardo freddo e rigido, le dissi:

“Magari la prossima volta lasciagli il tuo numero sullo scontrino…” e feci per andarmene.

“No! …Aspetta” aggiunse lei. Al chè io mi voltai verso di lei per sentire cosa aveva da dire.

“Non volevo che tu lo venissi a sapere così, sul serio… è che…”

“È che come al solito mi hai sfruttato. Ma cosa cazzo credi? Se non gli interessi ora non gli interesserai mai a meno che non ti fai vedere. E farti vedere in compagnia di un altro ragazzo non è certamente il modo migliore.”

“Speravo che fosse geloso… almeno un minimo…”

“Gelosia. Non provare mai più a confondere l’amore con quella stupida cosa chiamata gelosia. La gelosia è dannosa. Certo è inevitabile essere gelosi di chi si ama, e proprio grazie a questo tentiamo di mantenere un ottimo rapporto con i nostri cari. Ma quando la gelosia dilaga, quando diventa il fulcro, quando il centro non è più l’amore ma la gelosia, allora lo distrugge. È proprio così che inizia a decadere un ottimo rapporto! E se credevi di potermi sfruttare, se credevi che fossi un coglione qualsiasi, hai sbagliato di grosso Jamie.”
Finii così. Il mio monologo la lasciò distrutta. Brutto a dirlo, ma ero contento di averlo fatto, ero contento di averle buttato contro tutta la mia rabbia. Non era la prima volta che capitava, comunque.

“Aiden…” tentò di richiamare la mia attenzione di nuovo, ma ormai me ne stavo andando. E non avevo intenzione di voltarmi.

“Aiden per favore!”  ripeteva. Ma non la sentivo, non mi scalfiva.

Doveva lasciarmi andare. Non poteva convincermi a restare. Camminavo verso casa e ormai ero entrato di nuovo dentro la foresta, lasciandomi alle spalle Jamie. Ritornai al ruscello dove tiravo i sassi immaginandomi padre, ma ora accanto all’immagine di me e mio figlio si poneva l’immagine di Jamie. Non so esattamente, o meglio non ricordo esattamente che tipo di rapporto avevo con Jamie, ma pare che fosse un buon rapporto. Non è che un giorno ti svegli senza motivo, ti prepari e vai in un bar dove ti aspetta una ragazza con cui riesci a parlare tranquillamente e a scherzarci. Tornai a casa, lentamente, perdendomi nei pensieri. Perché capitava spesso che fossi sfruttato così? Cosa sperava di raggiungere Jamie? E perché è stata così diretta nel dirmi le sue intenzioni? Tutte queste domande mi tormentavano la mente, insomma sì, ricordavo poco, ma qualcosa dentro di me soffriva.
Tornato dunque sulla spiaggia dove si trovava casa mia, era ormai sera e vidi una coppia di ragazzi che avevano acceso un falò sulla spiaggia. Erano abbracciati, quasi come se il calore di quel falò non fosse abbastanza; anzi, sicuramente non lo era, il tipo di calore di cui avevano bisogno loro era quello delle proprie braccia che si incrociano e la sicurezza che l’uno c’è per l’altro nel momento del bisogno. Il falò dunque diventò un semplice accessorio. Come mio solito, la vista di queste scenette mi infondeva una certa sensazione di piacere e contentezza, sebbene io stesso avevo bisogno delle medesime braccia da incrociare. Sapevo che Jamie non era quella giusta, me lo sentivo dentro, ma quella parte di me che si ricordava di Jamie e di tutto ciò che c’era tra di noi, non riusciva a staccarsene.

«In fondo credo sia così» risuonò l’eco dentro la mia testa. Difficile staccarsi da una persona con cui hai un certo rapporto perché in quel caso diventi come un pezzo di carta: rischi di venir messo nelle mani di qualcuno che ti stropiccia, ti lancia e ti sbatte per terra. Alla fine, riaprendoti, torni ad essere lo stesso pezzo di carta, ma con piegature, cicatrici, segni che resteranno a far parte di te finchè non arriva qualcun altro che, prendendoti nelle sue mani, non ti dà lo strappo finale portandosi via parte di te, poco prima di buttarti nel cestino della spazzatura.
Questo pensiero fisso mi accompagnò per tutta la notte. Non riuscivo a capacitarmi di come mi fossi scordato di tutto, di chi fossi, dove mi trovassi…dell’appuntamento con Jamie. Chi diamine era Jamie? Come facevo a ricordarmi il suo nome e non il mio? Queste sottigliezze, se così possono essere definite, ormai erano le domande che mi ripetevo di continuo. Avrei potuto chiedermi cose del tipo «Ma io sono davvero Aiden Blaze? » o addirittura  «Come mai cambio aspetto, città, lavoro…insomma, vita, così continuamente?» Ma tutto quello che importava ora era capire cosa potevo fare. Il sonno non mi arrivava, ma ero comunque troppo giù di animo per fare qualsiasi cosa. Guardai la mia stanza nel buio, con lo sguardo perso e mi accorsi che nonostante tutto, non ero triste. Certo, ero incazzato, senza dubbio. Ma non triste e questo era forse la cosa più importante, quella cosa che mi faceva tenere duro piuttosto che crollare nell’oblio della disperazione. Potevo io, un uomo, essere così in pena per una ragazza che non ricordavo di conoscere?


-Spazio a me-
Come detto nella trama, la storia non è mia ma bensì di un mio caro amico: Filippo Cardoni.
Trovo che questa storia sia geniale oltre che bella! Trovo anche che lui sia molto bravo e con molta fantasia.
Per mia sfortuna non so come andrà a finire, perciò lo scopriremo insieme ;)
Spero piaccia anche a voi, e che lasciate delle recensioni per capire cosa ne pensate :)

Baci Xx

 
  
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