- Cosa c’è? – ha appena chiesto Sherlock e Molly
davvero vorrebbe saperlo per potergli rispondere, ma la verità è che non lo sa
neppure lei.
È stato un sogno.
Oddio, che cosa sciocca, eppure è proprio per colpa
di un sogno che quella mattina si è svegliata di soprassalto, provando un’acuta
e lacerante sensazione di perdita che tuttora perdura. È una sensazione che non
le è estranea o nuova, i lutti in fondo non sono che i pezzi raffazzonati che
le cuciono l’anima, ma l’intensità con cui l’ha provata, l’ha risentita
incombere sopra di lei come un nero fantasma persecutore, le ha fatto venire in
mente l’eco di dolore delle altre che ha subito. Sognare è ricordare e un
dolore così non puoi combatterlo o abbatterlo, l’unica soluzione è farsene
carico in silenzio e in silenzio sopportarne lo strascico. Tollerare la
bruttura e l’asprezza, pazientare, aspettando giorni più lieti e voltare
l’angolo in cerca di quell’arcobaleno che si era intravisto da lontano,
prendere tempo: è ciò che le riesce meglio fare.
- Molly – la richiama all’attenti Sherlock e pur se
grezzo c’è un contrassegno di gentilezza nella sua voce che la mette in
allarme.
Con orrore, Molly si accorge che il suo nome, unito
alla minutissima espressione di inquietudine che si rincorre sollecita negli
occhi blu di Sherlock, ha rotto il mostro a cento facce che è la propria
compostezza. Con orrore ancora maggiore e un certo disprezzo di sé, si rende
conto che potrebbe star piangendo. La
confusione di un attimo prima scompare in un baleno, spodestata dalla vergogna
che le fa posare in fretta il set di bisturi che stava controllando e le fa
voltare le spalle per dirigersi in fretta nel suo ufficio. Da quando è tornato,
dopo che nulla è cambiato e nulla è mai più stato lo stesso, si è fatta fregio
della sicurezza acquisita durante la sua assenza, sbandierandola come altri
farebbero con orologi costosi o borse firmate dal valore peddisequo di migliaia
di sterline.
Nel seguirla, a stento a due passi di distanza e
con quelle falcate ampie e altere che lo fanno assomigliare a una personalità di
spicco della letteratura ottocentesca, Sherlock fa un verso sbuffante col naso che,
lei lo sa, non è di sdegno o seccatura, quanto di irritazione, non verso di
lei, ma nei confronti di se stesso. È irritato perché non capisce e il non
capire qualcosa, per una mente come la sua, è il peggiore dei mali.
- Oggi sei più strana del solito, Molly – sentenzia
Sherlock, dopo che ha richiuso la porta dell’ufficio e ha preso arbitrariamente
possesso di una delle poltroncine di fronte alla scrivania oberata di cartelle
cliniche e vecchi file. Le sue sopracciglia sono aggrottate in una linea
pericolosa, un poco fosca e Molly può leggere come se si trattasse della
propria l’aura di irritabilità che ne accerchia la figura.
È un male?, vorrebbe chiedergli. È da innumerevoli anni che
l’essere diversa, non omologata, non riesce più a riempirla del turbato sgomento
di quando era un’adolescente con l’apparecchio ai denti e le scarpe ortopediche,
che si guardava intorno con occhi sgranati dall’incomprensione, quella dello
scoprirsi ad osservare il mondo in maniera differente e non semplificata.
- Cosa c’è? – domanda di nuovo Sherlock ed è il
ripetersi della domanda, Sherlock odia
ripetersi, ad averla vinta sull’orgoglio e sull’umiliazione di essere
scoppiata in lacrime davanti a lui, tra
tutti proprio davanti a lui accidenti, che infine la convince.
Molly, che intanto ha trovato rifugio all’imbarazzo
dietro il modico quadratino di carta di un fazzoletto, sospira. – È per via di
un sogno che ho fatto stanotte.
Le sopracciglia di Sherlock seguono una danza tutta
loro: un attimo prima sono scure e avvinghiate in un acciglio senza rimedio, in
quello successivo, laddove prima v’era concitazione, compare uno stupore che ha
un retrogusto divertito. Non le è nuova neppure quella luce né gli effeti che
si ripercuotono su di lei. Incompresa, zimbello nella farsa teatrale a cui
spesso la sua vita rimanda come ad un miraggio.
Un sogno?, sembrano irriderla quelle sopracciglia, ma non gli
occhi che stanno al di sotto. Quelli, mirabile dictu, conservano un compassato
riserbo sull’emozione che intendono mostrare.
- Un sogno – mormora Sherlock inespressivo,
picchiettandosi il mento con le dita, come per invitarla a procedere mentre lui
si concentra nella lettura di quel caso che gli è ostico.
Molly vorrebbe sprofondare. Non è un caso, è la sua
vita ed è mortificata dallo scorcio ben misero che ne sta dando. – Lascia stare
– dice, stritolando il fazzoletto, tirando e avviticchiando la carta su se stessa.
Si accorge dell’insicurezza che il gesto lascia trasparire e butta i resti nel
cestino. Ora che ha le mani vuote vorrebbe non averlo fatto. Con la perspicacia
che gli appartiene, Sherlock le passa la scatola di fazzoletti.
- No, grazie – la rifiuta con risoluta cortesia Molly.
Qual è il problema? Nessuno, davvero. E allora perché si sente così,
perché lui la guarda in quel modo? Perché ha pianto davanti a lui e in dieci
anni non era mai successo, neppure nei loro momenti peggiori o in quel fatidico
giorno in cui tutto ciò che conta tra loro è stato stabilito nel laboratorio e
lui ne ha poi orchestrato la recita dal tetto del Barts.
- È una sciocchezza – lo avverte in tono di difesa.
Non vuole che in seguito lui le rinfacci la natura insulsa di quella
conversazione.
Sherlock non cambia espressione. Lascia che sia a giudicarlo, sembra
dire.
E Molly, contro ogni scampolo di ritrosia che le
ingiunge di fare l’esatto contrario, lo accontenta e gli illustra il sogno che
ha fatto. Nel sogno, gli racconta, le sembrava di precipitare da altezza
vertiginose e quando ha smesso di cadere è atterrata su qualcosa di solido, in
un paesaggio ostile e avulso dove ogni realtà era tenebra ed ogni parete di
vuoto era ricoperta dalla nebbia come da una patina di brina. Ha camminato,
cercando punti di riferimento con cui orientarsi, ma non è riuscita a farlo
perché ovunque posasse lo sguardo c’era solo oscurità e il freddo era tale da
ghiacciarle il respiro nei polmoni e intirizzirle il cuore.
- Eri sola? – domanda Sherlock.
Molly lo guarda, leggermente sorpresa sia
dall’interruzione sia dall’interrogativo. – Sì.
- Cosa hai fatto quando hai capito che procedere
era inutile? Ti sei fermata?
- Cosa?
- Ti sei fermata o sei avanzata ugualmente? - Sherlock
mostra i sintomi di un’esaltazione febbrile. È il modo in cui dimostra il suo
interesse verso un argomento di trattazione, ma Molly non sa se esserne
lusingata o preoccuparsene invece, specie sapendo di essere lei l’oggetto di
quell’analisi perniciosa.
- Sono andata avanti – risponde, scrutandolo
incuriosita. – Perché? Tu cosa avresti fatto al mio posto?
Non che non possa immaginarlo. Lo vede, circondato
dai banchi di nebbia e dallo sfondo cupo dell’ambiente del suo incubo, magari inginocchiato
e intento a tastare lo spazio attorno a sé a palmi protesi, che si concentra
nel trovare una via di fuga dall’impasse di quel vagare senza meta. Sorride e
il sorriso immediato di Sherlock le fa capire l’esattezza delle sue intuizioni.
- Come prosegue il sogno? Ricordi la fine?
- Intravedo una luce in lontananza, bluastra, che
ricorda un fuoco fatuo.
- La segui?
- Cerco di avvicinarmi, ma…
- Non importa quanto cammini, non riesci a
raggiungerla – la interrompe lui, accompagnando le parole con un gesto rapido della
mano. – Alterazione delle percezioni, distorsione spazio-temporale. Tipico. Ovvio.
A quello, Molly non sa cosa ribattere.
- E dunque?
Cosa intende con ‘dunque?’.
- Mi riferisco al nocciolo della questione, alla complicazione.
Cosa, del sogno che mi hai raccontato, ha scatenato questo – esita, nell’evidente
tentativo di trovare una definizione appropriata a quanto successo
nell’obitorio; inclina il capo e fa una smorfia – questa emotività? -
tenta, alla fine.
Emotività, pensa Molly, sul
serio?
- Non è cosa ho sognato – si affretta a spiegargli,
anche se c’è ben poco da spiegare in merito, – ma cosa ho provato, come mi ha
fatto sentire sognandolo.
- Come?
Come se fossi l’unica creatura esistente, completamente abbandonata alla
mia solitudine. Non può dirgli questo, semplicemente non può. E
dopotutto, a che pro rivelargli qualcosa di così fragile e intimo? Qualcosa che
è insieme verità e paura, assillo e tormento. Sola. A volte lo è senza timore, lo è alla luce del sole, è fiera
della propria indipendenza, dell’autonomia che si è costruita. Altre, però, nel
segreto delle pareti di casa propria, durante le cene frugali che si prepara
quando la stanchezza l’ha vinta su ogni altra cosa, guarda con rammarico i
posti a sedere in cucina che sono liberi da eventuali occupanti, la terra
bruciata che si è a poco a poco fabbricata dal nulla ogni qualvolta una persona
amica e diversamente amata scivolava via negli anni, persa di vista o scomparsa
per ragioni di ogni sorta.
Sola. A volte è una benedizione, la affranca dalla
paura, dalla dipendenza che crea. Altre è una condanna a cui non c’è rimedio. Essere
soli non arreca soltanto dispiaceri, non possiede unicamente il lato spoglio
della medaglia. Amare, ha imparato quando già non era più giovanissima, è
riuscire a piacere a qualcuno senza compromettere se stessi. No, amare non è
una battaglia a colpi di armistizi e tregue, non è cedere per non essere
rifiutati. È accettazione, piena e completa cognizione dell’altro, è dare
valore a chi si ama senza intaccare o dimenticare l’importanza dei propri
meriti. Amare qualcuno è reso possibile innanzittutto dalla prospettiva
dell’amore che si nutre per se stessi.
Non può dire qualcosa del genere a Sherlock. Non
perché non capirebbe, forse per il motivo opposto. Teme che lui capisca e a
quel punto cosa farebbe lei? Quando anche l’ultimo mattone di un’enorme
muraglia viene estratto, a chi li ha spostati uno ad uno cosa rimane di quel
duro lavoro se non il ricordo di ciò che la demolizione ha comportato, è
costata?
Sì, Sherlock potrebbe capire e questo pensiero è
terrorizzante e non consolante come normalmente dovrebbe suonare.
- Molly.
Quando ha imparato a essere gentile per il piacere
di esserlo e non per il beneficio dei suoi usufrutti? Da quando, nel pronunciare
il suo nome, usa la stessa delicatezza che in passato riservava alle persone
davvero importanti? Da quando, come adesso, guardandolo prova la certezza
meravigliosa di contare quanto gli altri? Forse da quando lei ha smesso di
farsi inglobare dalla soggezione. Forse da quando lui ha smesso di dare tutto
per scontato.
Sherlock comunica con gli sguardi penetranti che ne
hanno incrementato la fama di uomo del mistero, affiliato al mistero e
scopritore dei suoi enigmi. Quello di adesso è uno sguardo penetrante come i
soliti, ma sottilmente difforme. Esprime sentimento, un certo sostegno morale e
cognizione, cognizione di lei, di ciò che non ha avuto il coraggio di
esternare. - Non sei sola – afferma con aria grave e solenne e se è lui a
dirlo, allora Molly potrebbe finire con il crederci.
- Vai a dirlo ai miei sogni – cerca di scherzare e
abbozza un sorriso tirato.
Sherlock arcua un angolo di bocca in un sorriso
asimmetrico, come se intendesse prenderla in parola.
– Potrei farlo.
Si sorridono e Molly si accorge di aver dimenticato
il panico irrazionale del suo sogno-incubo, ormai.
- Torniamo in laboratorio? – chiede, sistemandosi i
lati del camice che indossa. - Ho un paio di campioni che potrebbero
interessarti.
Sherlock annuisce, la precede in direzione della
porta. Quando la apre, mentre la lascia passare per prima, la richiama quasi
subito. Nel girarsi, Molly vede qualcosa che difficilmente si riesce ad
osservare. Nel mondo che si è scelta, infatti, vedere tracce di dubbio scavare
i suoi intrichi nel volto di Sherlock Holmes non è affare da tutti i giorni.
- Quel sogno… – inizia lui, per poi frenarsi,
indeciso su come inoltrarsi nell’argomento.
- Sì?
- Ti capita di farlo spesso?
Ora Molly è perplessa. – No, perché? Conosci
qualcun altro che lo ha fatto?
Sherlock sembra sul punto di aggiungere qualcosa,
ma ha un ripensamento. Appare esasperato mentre le rivolge l’ombra del vecchio
sguardo canzonatorio, soltanto smussato da un affetto palpabile. – Molly Hooper
– scandisce in tono sibillino, con viso insondabile. La afferra per il braccio
e insieme si incamminano lungo il corridoio, entrambi immersi in pensieri che
riguardano la persona che hanno al fianco, senza che l’altra ne abbia
coscienza.
Avrebbe dovuto confessargli la natura delle sue paure?, si chiede Molly. Dirgli che l’orrore del sogno è scaturito non dalla
persuasione che sarebbe rimasta intrappolata nel buio come in una prigione, ma
da quella che così non l’avrebbe rivisto mai più, che le sarebbe stato
iraggiungibile in ogni modo possibile e immaginabile?
No, si rassicura in ultimo Molly, scrollando la
testa, non avrebbe proprio potuto dirgli qualcosa di così infantile.
Note
d’Autore:
Mentre
la scrivevo ripetevo a me stessa che fosse una sciocchezza, ma come al solito
ho preferito mettere a tacere la ragionevolezza e il criticismo e ho seguito
l’impulso, lasciando che le parole si seguissero da sole, si incastrassero come
tessere di un mosaico. Dapprincipio doveva essere qualcosa di molto semplice,
avevo questa scena cristalizzata nella mia immaginazione da mettere in atto: un
giorno qualsiasi in laboratorio in cui Molly scoppiava in lacrime senza
apparente ragione, solo perché perseguitata da uno stato d’animo molto
particolare e dove Sherlock, agghiacciato, assisteva senza capirne le
dinamiche.
Per
mia esperienza personale trovo i sogni pericolosamente intriganti, ad un passo
dal cielo e a uno dall’inferno. Se i sogni fossero esseri viventi sarebbero
scaltri e sfuggenti quanto il Popolo Fatato. Ci sono sogni bellissimi da cui ti
svegli piangendo per paura di dimenticarli e per il dispiacere di esserne
uscito; ma ce ne sono altri di ben altra pasta e si tratta in questo caso di
mostriciattoli che ti addentano nei punti di maggiore sensibilità, che centrano
senza colpo ferire. Sono sogni che lasciano intontiti e quasi tramortiscono per
la loro intensità, per la vividezza dei sentimenti che acuiscono. Al risveglio
non riesci a scrollarti di dosso l’intorpidimento che hanno causato e sei
costretto a trascinartene gli effetti collaterali per tutto il giorno, come una
sbronza o un’arrabbiatura o un’influenza mal gestita. A voi è mai capitato?
Come
ho detto, doveva trattarsi di qualcosa di facile da gestire, ma la situazione
mi è sfuggita di mano. Quindi questo scorcio potrebbe – nella mia testa già è
:D – essere l’antefatto di quella famosa AU di cui avevo accennato in
precedenza un mesetto fa, che a questo punto ha preso una piega assolutamente inaspettata
e differente da quella che inizialmente avevo ideato. Ma in fondo non è questo
il bello dello scrivere? Affrontare i limiti imposti dagli schemi a cui ci si
circoscrive… Perdonate, deve essere l’ora e Dio, quanto mi mancavano gli
aggiornamenti fatti al coprifuoco di Cenerentola!
Manco
da un po’ e mi sento un po’ arrugginita, ma spero che il risultato tutto sommato
vi piaccia :)
Un
bacione!
P.s.:
ho cambiato il carattere, voi cosa ne pensate? Anno nuovo, carattere nuovo?
L’anno scorso sono passata dal caro Cambria al Georgia (mio omonimo xD), ora al
Verdana. Forse troppo piccolo? Fatemi sapere ;)