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17 settembre 1781; New York.

Quella sera, Connor correva più veloce. Che fosse per il buio che stava cominciando ad inoltrarsi, o per la sua mente troppo confusa in quel momento, si sentiva come se tutto intorno a sé fosse cambiato, come se fosse diventato tutto più scuro e surreale. Si fermò uno, due, tre, sessanta secondi; il suo fiato tornò più lento di prima, il ragazzo – o uomo, non sapeva neanche lui stesso, a 25 anni, come definirsi – cominciò a levarsi dalla mente tutti i pensieri offuscati di qualche secondo prima.
Era passato solo un giorno dalla morte di suo padre. Sì, era la cosa migliore da fare, tuttavia Connor non riusciva a non levarsi il suo sguardo feroce – e in qualche modo, forse, stanco – e quegli occhi grigi che sembravano spegnersi ad ogni respiro.
Per un ultimo secondo, forse il più malinconico della sua vita, riuscì ad intravedere nell’animo di Haytham uno spirito paterno misto a rabbia, rancore e.. orgoglio.
“Eppure, sono orgoglioso di te.” Furono alcune delle sue ultime parole.
Ormai rimaneva l’ultimo templare da uccidere: Charles Lee. Connor sapeva che non l’avrebbe ucciso proprio dopo la morte di suo padre, no. Voleva aspettare; aspettava qualcosa il cui arrivo non era certo. Eppure, pensava che se avesse ucciso Lee prima di tutti non sarebbe successo questo. Non avrebbe avuto la sensazione di vuoto e di peso insopportabile allo stesso momento che portava sul petto. Sentiva una voragine di emozioni miste a malinconia e sollievo. Connor era ormai sicuro che Haytham sarebbe cambiato, forse proprio grazie a lui. Ma d’altro canto, seppur entrambi seguivano la stessa idea di pace, usavano mezzi diversi – fin troppo diversi per collaborare a lungo.
Il ragazzo era troppo confuso: aveva bisogno del silenzio, poi del caos più totale, poi ancora del silenzio assoluto. Cominciò persino a pensare che il nome con cui tutti lo conoscevano era fin troppo sciocco.
Ratohnhaké:ton, questo era il suo vero nome. Achille, l’uomo che aveva visto il ragazzo crescere, gliel’aveva assegnato a causa del suo nome “impronunciabile”, cosa che non si era mai sentito dire fino ad allora. In realtà, Connor Davenport era il figlio deceduto di Achille.
- Ma io non sono morto. Non ancora. Non ancora.. –
I suoi pensieri si dissolsero quando si accorse che un uomo gli stava gridando alla sua schiena di spostarsi dal mezzo della strada, per passare con il suo carro. Pronunciò qualche altra parola che non capì; corse via, un’altra volta, verso chissà quale meta; si fermò, poi corse ancora.
Quella sera, Connor correva più veloce.



Salve a tutti! Ho finito un paio di ore fa AC3 per la seconda (o terza?) volta, e avrei tanto voluto che le emozioni di Connor si facessero mostrare di più nel gioco. Molte persone lo considerano un personaggio freddo e senza sentimenti a quanto pare; a me, invece, Connor sta molto a cuore (pur essendo solo un personaggio di un videogioco.) Spero che questa flashfic piaccia a qualcuno; l'ho scritta solo in un momento di malinconia post-fine-videogioco-mannaggia-a-me ma ci tenevo sin dalla prima volta che l'ho giocato a scrivere i pensieri, secondo me, di Connor.
Volevo aggiungere, inoltre, che il titolo è tratto da una frase della canzone "Solitaire" di Marina and The Diamonds, che mi ha fatta diventare ancora più malinconica.
Vi ringrazio!
Reen {twitter: @ghostlymelix}