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Autore: Francine    19/03/2015    7 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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16.

 

 


Dicono di chiamarsi Lung e Ullr, e sono una coppia così male assortita da sembrare uscita fuori dalla mente stanca di un autore di commediole slapstick fuori tempo massimo. Enorme e massiccio – e con una gran voglia di menare le mani che gli scorre sotto pelle – il primo; snello e agile – e più sciolto di parlantina – il secondo. Lo aspettano sul molo, avvolti in pesanti tabarri scuri e abiti complicati che spuntano da sotto le decorazioni di pelliccia. Il vento soffia severo, increspando il mare color del ghiaccio.

Suo padre l’ha avvertito circa quello che lo avrebbe aspettato, una volta sceso dalla nave. Con le fattezze di Re Åkon, gli ha messo una mano sulla spalla destra e gli ha detto:«Vieni. Passeggiamo.». Lukas l’ha seguito, il colbacco ben calcato in testa.
«Ti attende un regno, ad Asgard, figliolo», gli ha detto suo padre, avvolto nel suo mantello bordato d’ermellino. «Ma non credere che ti sarà graziosamente porto su un cuscino di velluto. Nossignore. Dovrai
prendertelo. Acchiapparlo. Ghermirlo tra le dita. Sarà difficile, ma non sarai solo. Avrai seguaci. Gente che ti seguirà ciecamente. Che ti obbedirà senza battere ciglio. Gente che userai come fondamenta del tuo nuovo regno. Perché nelle tue vene scorre il mio sangue. Ricordatelo, figliolo.»

I due inviati sorridono di malavoglia.
«Lukas di Vanheim?», chiedono, più per proforma che per sincera curiosità, mentre il fiato diventa fumo nell’aria di ghiaccio. Certo che è lui, Lukas di Vanheim. Chi altri potrebbe mai spingersi fino ad Asgard se non costretto? Chi altri, se non lui?
«Sono io», risponde, lo sguardo di vetro che si sposta dall’uno all’altro per capire che intenzioni abbiano nei suoi confronti. Arriverà vivo ad Asgard o perirà strada facendo, magari cadendo in qualche crepaccio com’è successo a suo fratello Torsten? Lukas se lo chiede, ma le espressioni del suo comitato di benvenuto sono indecifrabili. Può solo seguirli sul 4x4 nero che li aspetta alla fine del molo col motore acceso.
«Da questa parte, prego», gli dice il più basso dei due – «Ullr. Come l’Inverno.» – precedendolo. Lung chiude la fila, un sorriso poco piacevole che gli incurva appena le labbra secche. L’autista li aspetta dentro, oltre i finestrini fumé. Le mani, protette da un paio di guanti di pelle nera –
da assassino, pensa Lukas – stringono con finta calma lo sterzo.
«Ancora un po’ su quel dannato molo e mi si gelavano le palle…», dice il bestione. E ride, come se avesse sentito la più spassosa delle barzellette. Ullr apre lo sportello. Lukas sale a bordo e prende posto accanto al finestrino. L’interno è caldo e confortevole. Ullr gli porge una coperta da stendere sulle gambe.
«Per il freddo», gli dice.
Lung sale a sua volta e si siede davanti, accanto all’autista, il fuoristrada ondeggia, e lo sportello si chiude. Il motore borbotta in sottofondo, come un gatto che fa le fusa. Poi l’autista ingrana la prima e la vettura si muove.
Il viaggio inizia e mentre si lascia alle spalle Vanheim e le sue raffinatezze, Lukas non può fare a meno di chiedersi cosa lo aspetterà una volta arrivato ad Asgard. Sempre ammesso che la vettura non si fermi strada facendo, magari  in mezzo al bosco, e spuntino fuori i coltelli.



«Mi serve vivo
Legno scuro.
«Deve testimoniare al processo!»
Un po’ di polvere negli interstizi.
«Se me l’ammazzi, che gli riporto indietro? Un cadavere?!»
Qualche goccia di sangue scuro. Caldo. Denso. Il sapore metallico nella bocca. Il suo sangue.
Hyoga sbatté le palpebre un paio di volte, ma la sensazione di avere la nebbia nella testa non passò. Si mise in ginocchio. Ikki c’era andato pesante. Il suo pugno lo aveva colpito in piena faccia e l’aveva steso. Era caduto come un sacco di farina, o una camicia che il vento ha strappato dal filo prima di abbandonare sul prato.
Me la sono cercata, si disse il Cigno, voltandosi a fronteggiare l’ira della Fenice. Credendosi in grado di fronteggiare il rancore di Ikki, ma il colore cupissimo che aveva invaso lo sguardo della Fenice lo stupì. Se durante la sua rocambolesca entrata in scena sul ring della Galaxian War Ikki era un concentrato di livido rancore in cerca di vendetta e appagamento, lo spettacolo che gli stava riservando adesso il fratello maggiore era qualcosa che andava oltre. Era una promessa, quella che colorava lo sguardo furente di Ikki, una promessa per cui Hyoga no, non era pronto.
Hyoga aprì la bocca, poi la richiuse. Seppe che sarebbe stato tutto inutile, seppe che Ikki no, non avrebbe ascoltato una singola parola e seppe che, in fondo, se lo meritava quel trattamento.
«Alzati.»
«No.»
Coralie si era frapposta fra lui e la Fenice, le mani sui fianchi.
«Spostati…»
«Mi stai minacciando?»
«Non ce l’ho con te…»
«E vorrei anche vedere!»
«… ma con lui.»
«Questo lo capisco», disse lei.
«Tu capisci? C’è mio fratello su quel letto!» Indicò l’ammasso di coperte sotto cui Shun dormiva, il viso cereo di chi è scampato all’assideramento per miracolo.

«Siete stati fortunati. Ancora poco e…»
La voce del dottor Alëša era rimasta sospesa a mezz’aria. Una coperta sulla testa, una tazza di brodo caldo tra le mani e una mezzora prima, Hyoga aveva sentito il cuore fermarsi improvvisamente.
Il medico non se l’era sentita di sbilanciarsi. Shun aveva passato un bruttissimo quarto d’ora, ed era ancora presto per tirare il fiato. E poi erano arrivati Ikki e gli altri. E sì, Hyoga sentiva di meritare in pieno i pugni di Ikki. L’avrebbe lasciato sfogare. Non avrebbe reagito, né li avrebbe schivati. Si sarebbe lasciato pestare come un sacco di sabbia. Così, forse, mi tornerà anche la memoria, pensò, per addolcirsi la pillola.

Coralie fece un gesto vago, come a dire che non era la salute di Andromeda quella di cui preoccuparsi, adesso.
«Credimi. Capisco come ti senti. Lo capisco davvero. Ma non posso permetterti di torcergli anche un solo capello. Mi serve sano. Mi serve vivo
Il piede sinistro di Ikki scivolò in avanti. Hyoga si alzò.
«Andiamo a discuterne fuori…», disse il Cigno.
«È la prima cosa sensata che sento, qui dentro», ribatté la Fenice.
«Aspettate… Parliamone con calma…»
«Sono calmissimo», replicò Ikki, scoccando un’occhiata a Nachi che mise fine alle rimostranze del Lupo. Il quale alzò le mani e si diresse dall’altra parte della stanza.
«No che non lo sei!», ribatté Ichi. «Non lo sei per via di Shun.»
Ikki strinse la mascella.
«Voglio sapere cos’è successo a mio fratello. Voglio sapere cosa hai fatto a mio fratello. E voglio sentirlo dalla tua voce, Hyoga. Penso che tu me lo deva. Non credi?»
Hyoga annuì.
«Siete sordi o cosa?!» Coralie pestò un piede a terra, sollevando uno sbuffo di polvere. «Attento, Fenice. Questa è un’insubordinazione bella e buona!»
Ikki le scoccò uno sguardo, come se la vedesse per la prima volta.
«Non so da dove tu salti fuori, ragazza, ma lascia che ti spieghi una cosa. Io», disse rivolgendo un pollice verso il proprio petto, «prendo ordini solo da Athena.».
E a volte nemmeno da lei, disse lo sguardo di Nachi. Alle spalle di Ikki, il Lupo scosse la testa, facendole segno di lasciarli perdere.
Coralie sbuffò. «Vi do dieci minuti», disse.
«Sì, mamma», la sfotté Ikki sfilandole accanto. Hyoga gli si accodò. La porta si richiuse con un suono secco, lasciandoli assieme a Shun, addormentato sotto una distesa di coperte.
«Ma… non li fermate?!», domandò Ichi incredulo. «Lo ammazzerà, ne siete consapevoli?»
«Dieci minuti», disse Coralie incrociando le braccia in un clang dorato. «Non può ammazzarmelo, in dieci minuti, giusto?»
«Io non ne sarei così sicuro…», borbottò Nachi, fissando il panorama di neve e ghiaccio oltre la finestra.
Coralie si strinse nelle spalle.
«Senti… ma si può sapere che cos’è questa storia del processo?», le domandò Ichi. Lei lo fissò, poi si sedette sul letto, ai piedi di Shun.
«Qualcuno ha fatto un casino immenso e Hyoga c’è andato di mezzo», rispose lei. «Che ne direste di spiegarmi come mai non vi siete stupiti nel trovarvi di fronte me, piuttosto?»


Il viaggio sembra non finire mai. La coperta sulle ginocchia è di un tepore fin troppo rassicurante, fin troppo pericoloso. I due uomini non parlano. Ullr osserva il paesaggio innevato sfilare oltre il finestrino. Accanto all’autista, Lung tiene le braccia conserte e le palpebre abbassate. Sembra dormire, ma Lukas ha deciso di non fidarsi. Di non abbassare la guardia. Già una volta s’è scoperto a ciondolare la testa, vincendo a fatica il sonno. Non lo hanno attaccato, ma non intende dare loro un’altra occasione. Se solo il paesaggio fosse meno monotono…
La vettura si ferma, senza preavviso. Lung solleva le palpebre con lentezza. Si volta verso di loro, scambia uno sguardo d’intesa con Ullr, poi scende con un gesto fluido. Circumnaviga il fuoristrada e apre lo sportello posteriore. E gli dice –
gli sibila: «Fuori.».
Lukas stringe la mascella. Ci siamo. Vogliono farlo sparire prima che arrivi a palazzo, ammazzandolo come un cane per poi seppellire il suo cadavere sotto la neve. Se l’aspettava. Per questo ha nascosto un pugnale sotto la pelliccia. Se dovrà crepare, venderà cara la pelle.
Scende, affondando nella neve fino a metà polpaccio.

Questo non era previsto.
Lung ride, sguaiatamente, come un marinaio che entra in un postribolo dopo sei mesi al largo. Lukas è in posizione di svantaggio, e lo sa bene. Lui non conosce quella zona. Loro sì. Come le loro tasche. Ullr scende dalla vettura e li raggiunge. Lukas si rialza. Raggiunge il pugnale alla cintura, una mano sotto la pelliccia.
I tre uomini si fissano. Lukas è appena consapevole della presenza dell’autista, il quale è sceso dalla vettura e si è unito ai due, una mano sul pezzo che porta infilato nella fondina ascellare. Interverrà solo nel malaugurato caso in cui la faccenda si complichi. Si fumerà una sigaretta, per ammazzare il tempo, mentre loro ammazzano lui. Farà finta di guardare altrove, le orecchie ben chiuse a qualsiasi suono proverrà dal loro scambio di opinioni. Meglio stringere le dita attorno all’elsa e stare pronti a sguainare la lama.
Ma quando Lukas sgancia la sicura del suo pugnale, accade qualcosa di imprevisto. Ullr e Lung e l’autista gli si inginocchiano davanti, il capo chino e l’espressione deferente.
«I tuoi umili servi ti salutano, o Figlio del Fuoco. Bentornato a casa, Signore.»
Lukas riprende a respirare, ma le dita non abbandonano l’elsa del pugnale.

E se fosse tutto un trucco?, si chiede.
«Voi… voi
sapete?», domanda. Guardingo.
È Ullr a rispondere. «Sì, mio Signore. Vostra madre era la sacerdotessa del culto del Fuoco. Siamo rimasti in pochi, Signore. In pochissimi. Ma vi abbiamo atteso. Abbiamo atteso il vostro ritorno con fiducia. Ora, assieme a voi, potremo finalmente compiere il Destino degli Dei.»
La neve cade a terra, rompendo il silenzio irreale del bosco. Un paio di gazze fendono l’aria immobile col loro verso, frullando le ali verso il grigio del cielo. Lukas non nasconde un sorriso.
Suo padre è stato di parola.

 
«E questo è tutto.»
Mu incrociò le braccia e chiuse gli occhi. Il tè verde emanava un profumo fresco ed appena acre, un sottile filo di fumo che si sollevava in alto in una calma irreale.
Nessuno osava rompere quel silenzio fragile e prezioso come un cristallo di ghiaccio, una bolla di pace in cui riflettere. In cui pensare. Shaina fremeva. Voleva commentare il rapporto di Mu, voleva dire qualcosa, lo si percepiva dal moto nervoso del suo mignolo sinistro. Fremeva, l’unghia laccata di viola scuro che sfiorava veloce il cotone fresco di bucato della tovaglia candida. Eppure tacque. Pensando, rimuginando, cercando di mettere assieme le tessere del mosaico. Un mosaico che si tingeva del caldo riflesso del sole al tramonto, un bel cielo astratto declinato in un bouquet di toni che andavano dal violetto appena accennato all’orizzonte, al rosso del fondo, al caldo oro delle nuvole. Occorreva trovare – percepire, intuire – quale fosse il disegno e poi, da lì, tentare di ricostruire l’immagine per intero. E loro non avevano che tessere spaiate, incoerenti, a contrasto.
Apostolos aveva sottratto alcuni resoconti. Resoconti delle missioni che il Sacerdote aveva affidato ai suoi Santi. La domanda che attraversava la mente di Shaina era: perché? C’era un collegamento, tra quelle missioni, una sorta di filo rosso che univa in maniera sotterranea tutto quanto quello che era accaduto in quegli anni?
Possibile, anzi, molto probabile; Kanon non aveva dimostrato loro che tutto, dall’assassinio del Sommo Sion fino al risveglio di Nettuno, era stato meticolosamente programmato, passo dopo passo?
Oh, sì, malgrado Shaina avesse sempre sospettato che Kanon si fosse trovato nel posto giusto al momento giusto. Che tutto fosse stato un capriccio divino e che il gemello di Saga vi si fosse trovato in mezzo per caso, come qualcuno di passaggio che viene coinvolto in una rissa. E che riesce a galleggiare in quel mare di calci e pugni e sputi, cercando di restarne al margine, incassandone il meno possibile.

Ma quale legame poteva esserci tra Santi così diversi tra loro? Ed era questa la domanda che occupava il cogitare di Shaka, seduto tra Ofiuco e Ariete, le braccia incrociate e gli occhi chiusi. Il delicato giallo zafferano del suo dhoti kurta metteva in risalto il biondo zecchino dei suoi capelli, lunghi e lisci oltre le spalle, che il vento della sera incipiente accarezzava appena, sfiorandoli in punta di dita.
Shaka era convinto che fosse quello il quesito cui si dovesse rispondere, prima di ogni altro per dividere le tessere del mosaico. Occorreva trovare un legame tra i Santi coinvolti, non tra le missioni. Perché, se fosse stata solo una questione di missioni interlacciate, Apostolos avrebbe sottratto i resoconti specifici, non tutti. Poteva essere un tentativo di depistaggio, il prendere tutti i diari delle missioni? Shaka non lo credeva.
Apostolos aveva avuto tutto il tempo per vagliare quei resoconti, per isolare quelli che gli occorrevano – quelli che gli avevano richiesto – e sottrarli, senza che nessuno se ne accorgesse. Un lavoro che doveva avergli richiesto tempo. Ed era questo a non quadrare, perché una missione d’infiltrazione deve risolversi in fretta. Il prima possibile. Perché portarli via tutti, allora? Perché chi aveva richiesto quei resoconti voleva conoscere ad un più ampio spettro quei Santi e la loro vita, le loro missioni, il loro servizio. No, se un depistaggio c’era era stato commesso nell’accomunare alcuni Santi a quelli realmente al centro dell’interesse di Apostolos e dei suoi committenti. Per questo dovevano capire quale legame intercorresse tra gli autori dei vari diari, quale fosse il filo rosso che li collegava, in modo da escludere i Santi che non avevano nulla a che fare con loro e i cui diari Apostolos aveva sottratto.

Ma per consegnarli a chi?, si chiedeva Mu dell’Ariete. Chi mai poteva avere interesse a conoscere quei Santi e le loro missioni? Era un nemico interno alle schiere di Athena, l’ennesima serpe in seno pronta ad uscire dalla cesta per mordere l’incauto che l’avesse scoperchiata, o il nemico proveniva dall’esercito di un’altra divinità? Che fosse quella la strategia che Ade aveva ideato per questo secolo? Il suo maestro, il Sommo Sion – e che il suo spirito possa conoscere la pace e ricongiungersi al Tutto – gli aveva raccontato cos’era successo durante la precedente Guerra Sacra. Come aveva agito Ade, quello che avevano pianificato gli dei gemelli, come Pandora si fosse alacremente spesa per realizzare quella distorta utopia che incurvava le labbra del fratello di Athena quand’era apparso nel cielo sopra al Santuario. Per questa ragione Mu faticava a vedere una così sottile strategia nel modo di agire di Ade. Ade amava armarsi, prepararsi e scendere in campo aperto. Per dimostrare alla Fanciulla come si dovrebbe combattere, per mostrarle che lo Sconosciuto, no, non guarda in faccia le sue vittime, ma le coglie. Come fiori da appuntarsi alla giacca. Come corolle da intrecciare in una ghirlanda, o nelle corone degli sposi. E lo Sconosciuto ama cogliere i suoi fiori uno per uno, scegliendo chi tenere e chi, invece, lasciare tra l’erba.

«Perché non gli piace la sfumatura di quei petali, forse. O per uno scherzo del Destino, vallo a sapere.»
Il Sommo Sion ci scherzava su, ma i suoi occhi ed il suo tono si facevano molto, molto seri quando rammentava gli avvenimenti del passato. Quando riviveva lo stillicidio che aveva falciato via i suoi compagni, uno dopo l’altro, lasciando soltanto lui e Doko della Bilancia come traghettatori del Santuario verso il futuro.
«Torneranno tutti, Mu. I miei compagni, dico.» Il Sommo Sion gli aveva scompigliato i capelli con un gesto paterno, ma i suoi occhi erano rivolti a scrutare il cielo per osservarne la forma delle nuvole. «Torneranno, perché l’hanno giurato, ma io non riuscirò a combattere con loro. Sono troppo vecchio, oramai. E loro non mi riconosceranno, ché sono andati avanti e io sono rimasto lo stesso. E allora dovrai farlo tu, per me. Dovrai prendere tu il posto che fu mio, accanto a loro. Capisci, Mu?»
E se Mu, all’epoca, non era riuscito a seguire per intero il ragionamento del Sommo Sion – e a dire il vero gli era sembrato che il vecchio sacerdote volesse a scaricargli sulle spalle un barile di piombo – adesso sì, adesso capiva. C’è sempre un disegno, nel gioco degli dei, un’immagine fissa che si ripete, cambiando alcuni particolari, di volta in volta. Come fosse un gioco di società, o un gioco da tavolo, con la plancia sempre uguale a se stessa e i soldatini del medesimo colore. Una specie di Risiko, dove al posto della Jacuzia e dell’Europa Meridionale, delle armate rossa, blu e nera vi fossero loro. La Terra ed i Santi e gli Spectre.
Mu sospirò, alzando il viso verso l’alto. Il cielo era mutato. Era scesa la sera.


«Per quanto tempo ancora devo tenere quest’affare sulla testa?»
Alza lo sguardo alla sveglia. La gallinella sta beccando il terreno al ritmo dei secondi, tac tac tac, mentre i pulcini, fissi nel disegno sullo sfondo, sembrano osservarla come fosse impazzita.
«Mezz’ora.»
«Era mezz’ora anche cinque minuti fa», protesta l’altra, la carta argentata avvolta attorno ai capelli e un broncio ad incurvarle le labbra.
«No, erano trentacinque minuti», ribatte. «Una mezzoretta.»
L’altra sbuffa. «Odio aspettare.»

«Haste makes waste. Waste makes sorry. So, do not be in a hurry», ribatte.
«Tradotto?»
«La fretta è una cattiva consigliera», replica, mentre la lima di cartone scorre sull’unghia, disegnando una mandorla il più possibile perfetta. Crescono storte. Verso l’esterno. Sarebbe più facile limarle dando loro una forma quadrata, ma quando gliel’ha proposto si è sentita rispondere che le unghie quadrate non vanno di moda in quello spicchio di mondo, e lei si è adattata. Ci vorrà un po’ di lavoro, è vero; ma i lavori di precisione sono quelli che svuotano la mente del superfluo. A volte ci si incarta perché si ripetono sempre gli stessi passaggi logici. E diventa pesante, a lungo andare, questa routine. Ecco perché è meglio passare ad altro. Glielo ha insegnato Lui. Quando il cervello va in tilt, è il caso di fare qualche altra cosa. Un differente tipo di esercizio, completamente diverso, cosicché la mente segua altri binari ed il subconscio sbrogli la matassa. E le dia una forma nuova. I gomitoli rotolano meglio sul pavimento, giusto?
«Sarà», ribatte l’altra, con un tempismo che le fa credere, per un attimo soltanto, che abbia delle capacità telepatiche.
O forse sono solo io ad essere suscettibile?, si chiede. «Ma mi annoio a non fare niente.»
«Ti ho portato da leggere, mi pare», le dice indicando con il pollice una fila di libri accatastati sul tavolo.
«Non posso. Non adesso. Ho bisogno del dizionario.»
«Ma non sei madrelingua, galletta?»
«Sì. Ma tra lo scritto ed il parlato ce ne corre. Mi tocca affidarmi al greco, ma mi serve comunque il dizionario vicino. E a stare ferma qui mi sembra di impazzire!»
«E che vorresti fare, sentiamo? Correre laggiù e distribuire calci e pugni come una trottola impazzita?»
«Potrebbe essere un’idea…»
«Un’idea cretina!», le ribatte, passando ad occuparsi dell’anulare. «E tieni morbido questo dito! Sto faticando come una dannata!»
Un mugugno, un qualcosa di non molto chiaro e il dito si rilassa.
«Non capisco perché stiamo perdendo tempo in questo modo», si sente dire.
«Perché dobbiamo far sbollire la rabbia, prima di fare qualsiasi cosa», le risponde.
«Ma la rabbia…»
«…è una bomba ad orologeria. Così com’è, almeno. Ti serve calma e logica per fare quello che ci siamo ripromesse di fare. E io non intendo portarmi appresso qualcuno pronto ad esplodere da un momento all’altro.»
Nella stanza torna il silenzio, interrotto dal ticchettio del collo della gallinella che va su e giù, su e giù, su e giù…
La lima scorre sull’unghia. Avrebbe bisogno di una bella sfoltita alle cuticole, ma la sua mano trema troppo. Potrebbe tagliarla, e se la tagliasse…
No, non va bene. Deve guadagnarsi la sua fiducia, ed in questo momento lei è come un animale ferito. Un cane sottratto ai combattimenti clandestini. E una bestia incattivita non la ferisci, mai, nemmeno per errore. O diventa diffidente. Devi invece fartela amica, guadagnarti la sua fiducia e allora, ma solo allora, lei sarà disposta a seguirti, a difenderti, a buttarsi nel fuoco per te. E pazienza se questo richiederà del tempo. Di quello, ne hanno a sufficienza, ché Athena, adesso, è impegnata a rimettere assieme i cocci del suo piccolo mondo di cristallo e colonne bianchissime. Senza sapere – senza sospettare – che qualcun altro sta per calarle addosso, come un falco che ha avvistato la preda e si lancia in picchiata. No, adesso Athena è impegnata, anche se ancora non lo sa, e in troppi galli a cantare non si fa mai giorno. Meglio aspettare. Meglio accumulare quel tempo prezioso come se fossero fascine di legna per l’inverno. E più tempo avrà, più sarà divertente elaborare una strategia per sgretolare tutto quel marmo sotto le dita. Come fosse una pietra pomice o un pezzetto di gesso caduto dalla lavagna. È questa la parte migliore del gioco dello stratega. Il tempo. Gustarselo, secondo dopo secondo, come un vino da assaporare con lentezza. E nessuna persona sana di mente berrebbe un vino rosso senza averlo prima fatto decantare un po’.
«Ma è proprio necessario?»
Alza gli occhi, in cerca di una risposta. Perché no, non  ha capito a cosa alluda l’altra.
«Scusami?»
«I capelli, dico.»
«Non è un po’ tardi per ripensarci?»
«Io non volevo! Tu mi hai costretta!»
«Bugia», le dice, riprendendosi ad occuparsi dell’anulare. «Lo so io e lo sai tu. Nessuno può costringerti a fare qualcosa che non vuoi. A patto di non usare la forza bruta, ma non mi pare che io ti abbia legata ed imbavagliata e.»
L’altra guarda le ciotole ed il pennello ed il vasetto di yogurt abbandonati nell’acquaio.
«Non verranno più via, vero?», le chiede, guardandosi la punta delle dita della mano sinistra. «Le macchie, dico.»
«Basterà un po’ di dentifricio e qualche goccia di limone.»
«Mmhhh…», mugugna sospettosa. «Che poi è pure brutto, l’henné!»
«Non è brutto. Non ti piace. Sono due cose diverse.»
«No che non lo sono!»
«Sì che lo sono!» Le piazza gli occhi dritti nei suoi, incatenandole lo sguardo color verde edera in quello di smeraldo che spicca sul suo viso, a contrasto con la sua carnagione scura. «Una cosa che non ti piace non è sbagliata a priori. Semplicemente, non ti piace. Non la capisci. Ecco tutto.»
«La fai facile…»
«Perché
è facile. Bisogna soltanto avere un briciolo di umiltà ed ammettere che quella cosa non la capiamo. Tu comprendi la teoria delle stringhe? No, vero? Ma questo non significa che sia sbagliata perché tu, nella tua abissale arroganza, non ammetti di non capirne nulla di astrofisica.»
L’altra tace, scoccandole un’occhiata di fuoco. Lei sorride, e riprende il suo lavoro di limatura.
«Ma che facciamo se escono troppo scuri?»

Ma non sputi mai? «Scuri? Ne dubito. Al massimo il colore viene fuori troppo ricco, ma ci abbiamo messo yogurt a sufficienza per darti solo un leggero riflesso. Niente di troppo intenso. Qualcosa che ti faccia apparire diversa, ma non troppo. Devi sempre lasciare il dubbio.»
«Se lo dici tu…»
«Sì, lo dico io», taglia corto. «E adesso lasciami finire. Intanto, perché non scegli che colore vuoi?»
«Già fatto», dice, ed allunga una mano verso una boccetta nera. «Questo.»
«Come siamo
à la page…»
«Sono in lutto, idiota.»
Sorride, le labbra strette in una smorfia simile ad un brutto taglio, ad una ferita slabbrata.
«Non si adatta con i dettagli della tua corazza…»
«Dettagli, appunto.»
Tace. Si guardano, mentre il tempo scorre e fuori il cielo piove con rabbia e violenza, ingrossando il mare. L’odore della salsedine è come un mantello che non le abbandona. Non puoi scacciarla via, lei c’è. Come una musica ossessiva, o un brutto ricordo.
«Ok, visto che non riesci a stare zitta, che ne dici di ripassare il piano?»
L’altra sussulta.
«Beh? Che c’è?»
«È che…»
«Che?»
Prende fiato, il labbro inferiore che trema. «Che l’ultima volta che qualcuno ha usato quest’espressione, poi c’è scappato il morto. Tre morti…» China la testa e le spalle si muovono, seguendo l’onda dei singhiozzi sommessi e trattenuti in gola.

Così la smetterai di cianciare, una buona volta.
Lei riprende a limarle le unghie. Il ticchettio della sveglia riempie il loro silenzio, mentre fuori, indisturbata, cade la pioggia.



Il mal di testa proprio non voleva saperne di lasciarla in pace.
Masami si massaggiava le tempie, esausta. Ancora un paio d’orette e sarebbero atterrati ad Atene. Sbrigate tutte le formalità, avrebbe afferrato il suo bagaglio e sarebbe sbarcata il più velocemente possibile. Tetsuya avrebbe provato a braccarla, magari in albergo, ma lei si sarebbe chiusa in camera ed avrebbe usato la scusa più vecchia del mondo.
«Ho mal di testa, amore», gli avrebbe detto, omettendo quel nomignolo che non avevano mai usato e che, visto come si erano evoluti i rapporti tra di loro, era oramai fuori luogo. Con Tetsuya avrebbe funzionato. Peccato che il cantante rock inscatolato dentro una latta per sardine taglia extralarge – Milo, aveva detto di chiamarsi – da quell’orecchio non ci sentisse. O non ci volesse sentire.
«Conosco un ottimo rimedio per il mal di testa», continuava a sussurrarle all’orecchio. Il suo alito caldo, che poche ore prima le aveva regalato un brivido intenso lungo il collo – prima che quella guastafeste della signorina Kido si svegliasse e la chiamasse in cabina per un bicchiere di acqua tonica con una fettina di limone – adesso le risultava pesante, appiccicoso, disgustoso. Voleva toglierselo di dosso, nemmeno fosse un paio di collant sudati. Voleva sbatterlo sul pavimento dell’aereo, e possibilmente incassargli quella testa spettinata tra gli strati di metallo, lì dove non l’avrebbe più tirata fuori tanto facilmente.
«No. E poi la signorina è sveglia», gli ripeté, allontanando la mano di lui dal suo fianco.
«Faremo piano, vedrai…», le disse, insistendo. Masami strinse le labbra.
«Ti. Ho. Detto. Di. No», e scandì parola per parola con un tono di voce simile ad un ringhio basso. «Vuoi tornartene di là in cabina, ragazzo?»
«Ragazzo? Ma se siamo quasi coetanei…»
Le regalò un sorriso abbagliante, da pubblicità, e se lui avesse tentato quella carta in un altro momento, Masami l’avrebbe baciato con trasporto. Al diavolo tutto. Coetanei. E forse era vero e forse no, ma quella parola – coetanei – l’aveva fatta sentire fresca e pulita, e non una donna costretta ad accettare il marito che i suoi genitori le avevano trovato – le avevano rimediato – per non affrontare il futuro da sola, per salire in corsa su quel treno e non restarsene a guardarlo allontanarsi sui binari, i piedi ben piantati sulla banchina.
Ma quello era un momento no, forse il più brutto e cupo e duro della breve vita di Masami. Più di quando ricevette la telefonata che l’avvisava che l’automobile su cui viaggiava Hiroshi, il suo ragazzo al liceo, era caduta in un crepaccio, poco fuori città. Perché Asanuma, che era al volante, era ubriaco fradicio ed era andato lungo in curva, sfondando il guard-rail.
Lui tornò alla carica, accarezzandole la schiena con un dito. E Masami decise di averne abbastanza. Gli afferrò il dito e piegò all’indietro con tutta la forza di cui era capace. L’osso si spezzò. Il ragazzo lanciò un grido e ritirò la mano, guardando prima il suo dito e poi il viso di Masami, per domandarle se, per caso, fosse impazzita. Ma quando lo sguardo di mare di lui incrociò quello di Masami, il suo bel viso abbronzato perse colore.
«Ma che diamine…», riuscì a dire, prima che un’onda d’energia purissima e incontrollata lo sbalzasse via, oltre il separé, spedendolo disteso sulla moquette beige.
L’aereo sobbalzò.
Fino a pochi istanti prima, Aiolia osservava il panorama dal finestrino del jet privato della Fondazione Grado e quelle nuvole che sembravano essere così soffici e bianche da ricordargli l’ovatta. Seiya guardava anche lui fuori dal finestrino le nuvole facendo un baccano tremendo, cercando di trascinare con sé il Dragone. Per far sorridere Saori – per far sorridere Athena.
Come potessero gli altri dormire così profondamente, nonostante tutto quel baccano, restava un mistero. E come Seiya fosse stato più volte salvato dall'armatura del Sagittario restava un vero e proprio enigma.
Aiolia aveva sentito dire che le anime dei Saint sono solite reincarnarsi in altri Saint; se fosse stato vero, Seiya sarebbe potuto essere una reincarnazione di suo fratello Aioros? Probabilmente l'unico a poter sciogliere quel quesito era Shaka, colui che parlava con il Buddha da quando era nato. E anche se probabilmente Shaka gli avrebbe che risposto che il passato è il passato e che ha valore soltanto in relazione a quel dato momento storico, Aiolia si era riproposto di parlargliene appena ne avesse avuta l'occasione.
Ma poi Milo era atterrato ai suoi piedi, come se qualcuno di molto grosso e molto esasperato l’avesse centrato con un diretto sotto la mascella.
Aiolia si alzò e si avvicinò al compagno. Era svenuto.
«Che succede?», domandò allarmata Athena.
«Resti seduta, per favore», le consigliò Nadia, parandosi di fronte a lei come uno scudo.
Quello che sembrava inizialmente un semplice vuoto d'aria si trasformò in qualcosa di più serio. L'aereo, come manovrato da una forza invisibile, iniziò a perdere quota sempre più velocemente. Si accesero le luci rosse ed i segnali di emergenza. Scesero le mascherine per l’ossigeno.
Gli altoparlanti vibrarono.

«Qui è il comandante che parla. Stiamo affrontando una forte turbolenza. Prego i signori passeggeri di rimanere seduti e con le cinture allacciate, grazie.»

All'improvviso un cosmo smisurato riempì l’intero velivolo, partendo dalla coda. Masami apparve da dietro il separé. Sorrise. E disse: «Ho detto di no».
«È lei la fonte di quest’emanazione cosmica portentosa», disse Saori fissando il bel viso dell’hostess, ora deformato da un sentimento duro e denso, come una macchia di petrolio che galleggia sul mare. Odio, livore, rancore, frustrazione. E qualcos’altro che aveva il colore del divertimento crudele, lo stesso che spinge i bambini a catturare le farfalle per poi staccare loro le ali, una ad una.
«Chi sei?», le chiese Aiolia, alzandosi.
«Chi sono?»
Masami sbatté le palpebre. Perplessa. «Masami. Masami Nonomiya», avrebbe voluto rispondere, ma qualcosa, dentro di lei, spense l’interruttore, e la coscienza di Masami si accasciò sul fondo della sua anima e scivolò via. Nel buio, denso, cupo e nero come una chiazza di inchiostro.
«Tu, misera nullità, osi chiedermi chi sono io?», disse la voce di Masami. Una voce stridula e acuta, come unghie che graffiano l’ardesia delle lavagne. E poi rise, buttando la testa all’indietro, il cappellino dell’uniforme appeso ai suoi capelli grazie alla sola testardaggine delle forcine. Intanto l’aereo scendeva a velocità sempre più elevata.
«Dobbiamo fare qualcosa!» Pegaso esplose come una bomba. «Se continua così finiremo molto, molto male!»
Questo lo so, pensò Aiolia.
«Seiya, Shiryu. Voi pensate a Milo. Mia Signora», disse il Leone avvicinandosi al sedile su cui si trovava Saori. «Venga con me.»
Le porse il braccio, ma Saori scosse la testa.
«È pericoloso», insistette il Leone, il cosmo in subbuglio, pronto a caricarsela in spalla a forza e a saltare giù dall’aereo appena possibile, appena questo avesse raggiunto un’altezza ragionevole.
Saori slacciò la sua cintura e si alzò. Fece un gesto con la mano, ché il Leone si tranquillizzasse ed attendesse.
«Dobbiamo pensare anche ai civili, Aiolia», disse Athena, sfilando tra i sedili di pregiatissima pelle di vitello color avana. Sorrise. «Adesso basta», disse alla creatura che aveva davanti, la stessa che aveva preso possesso del corpo di Masami e che aveva steso al tappeto Milo come fosse fatto di carta velina. «Ci sono persone che non potrebbero salvarsi, qui, se l’aereo precipitasse in mare. Discutiamone con calma. A terra.»
«No», rispose l’essere che era dentro Masami. Con lo stesso tono di voce di un bambino capriccioso che ha tirato fuori l’argenteria e si diverte a rovesciare l’intero servizio di posate sul pavimento, ancora e ancora e ancora. Cucchiaini da dolce e coltelli da pesce inclusi.
«Tu non impari mai, vero, Athena?»
La voce di Masami proruppe in un’altra risata agghiacciante, che si propagò all'interno del mezzo e fece gelare il sangue nelle vene dei presenti. Poi ci fu un lampo e tutto scomparve in quel mare di luce abbacinante. E poi fu lo schianto e la paura e le urla e le bestemmie e l’acqua. Fredda, immensa, avviluppante, ovunque. Il jet s'inabissò nelle acque placide del Mediterraneo meridionale. In superficie, un cappellino galleggiò sopra una chiazza di nafta, s’impregnò d’acqua e colò a picco anche lui, tra lo stridio dei gabbiani in caccia.
 




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:
Stavolta ho davvero pochissime cose da dire, se non che avevo dimenticato quanto la musica di Joe Hisaishi sapesse essere una vera e propria boccata d'ossigeno, quando si scrive. Sarà il caso di ricominciare con le care, vecchie abitudini di una volta. Alla prossima!!
   
 
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