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Autore: Marti Lestrange    24/03/2015    5 recensioni
[STORIA SOSPESA]
Long Bellarke {Bellamy Blake/Clarke Griffin}; modern!AU.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bellamy Blake, Clarke Griffin
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta
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"Vi giuro, signori, che l'esser troppo consapevoli è una malattia, un'autentica, assoluta malattia."
 
 
fireproof
capitolo tre
demons
 
 
{Clarke}
Dapprima non lo noto. È soltanto una presenza ai margini del mio campo visivo, una presenza che all'inizio tendo ad ignorare. Poi gli lancio un'occhiata. Sta in piedi "dietro" la scrivania, le mani su alcuni fogli, e osserva la scena. Bellamy Blake.
 
Forse captando il mio sguardo, si gira verso di me. Stringo forte le garze al petto. Cosa ci fa qui Bellamy Blake? Guardo mia madre, che sta salutando i Morgan, che si avviano rumorosi verso l'uscita. Si volta e incontra i miei occhi sbarrati, la mia aria interrogativa e sorpresa, quasi scocciata. 
 
«Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?»
 
Se prima ho accuratamente evitato di guardalo negli occhi, ora accade. Ed è forse la prima volta nella mia vita che guardo Bellamy Blake dritto negli occhi, ma sono pronta. Non riesce a cogliermi impreparata, anche se vorrebbe. 
 
Se c'è una cosa della quale sono certa, è la mia consapevolezza. "So" chi è Blake. È un bullo, un arrogante, un prepotente. Se la prende con i più deboli, servendosi di loro come gli pare, e poi li getta via, come qualcosa di inutile. Si circonda di tirapiedi, finti amici, persone che lo adulano e che lo fanno sentire importante, il loro "capo". Crede di essere "qualcosa", ma in realtà è niente.
 
Raddrizzo le spalle e assumo un cipiglio severo. Imperscrutabile. Non è mai riuscito ad intimidirmi. 
 
«Conoscenza non è il termine che userei» intervengo prima che lui possa anche solo formulare un abbozzo di risposta. Mia madre si gira e mi guarda. «Frequentiamo la stessa scuola, questo è quanto.»
 
So di apparire insopportabile, e forse lo sono anche un po'. Diciamo che non mi importa. 
 
«Non avrei saputo definirlo meglio» dice Bellamy, forse ritrovando la parola. 
 
La sua voce roca riempie la stanza e sentirla qui, all'ambulatorio, a casa mia, è strano e irreale. I miei occhi lo sondano e ancora non mi sembra vero che lui sia qui, seduto alla scrivania - la "mia" scrivania - e che debba passare con noi tutti i pomeriggi, cinque giorni a settimana, per i prossimi due mesi. 
 
Mi giro nuovamente a guardarlo, le garze ancora strette al petto, così strette che quasi mi manca il respiro. Non so che cosa sia, ciò che mi disturba. Forse è quell'aria così sicura che ostenta, le braccia poggiate sul piano in legno - con naturalezza, quasi con sprezzo, solo per darmi fastidio. Oppure sono i suoi occhi che mi fissano insistenti e quasi mi bucano la pelle, scuri e pieni di cose che non conosco. O è semplicemente l'aura che lo circonda, qualcosa di malsano, un sentore di tragedia, qualcosa che si espande e invade l'aria e che ti si attacca addosso senza lasciarti via di scampo. Mi manca l'aria e tutto ciò che vorrei è che lui si alzasse e se ne andasse, che ci lasciasse in pace, che ci dicesse che ha cambiato idea, che la prova finale andrà a farla da un'altra parte, che c'è stato un errore, qualsiasi cosa, purché se ne vada. Non lo voglio qui. 
 
Guardo mia madre, in piedi poco lontano, a metà strada fra me e Bellamy. Le mani sui fianchi, non sa evidentemente cosa dire o cosa fare, perché temporeggia, spostando il peso da un piede all'altro, indecisa. Io mi avvicino e la prendo per un gomito.
 
«Posso parlarti un momento?» ringhio. Lei mi guarda e annuisce. Poi si rivolge a Bellamy. «Tu continua pure con il tuo lavoro.»
 
Senza degnarlo di uno sguardo, mia madre e io ci chiudiamo dentro il suo ufficio. Lei si va a sedere alla sua scrivania, sospirando, e io rimango in piedi. Lascio cadere le garze sulla poltrona di fronte e comincio a misurare la stanza a grandi passi. Avanti e indientro. Avanti e indietro. Attendo che sia lei a dire qualcosa. Qualsiasi cosa. In fondo, mi aspetto quanto meno una spiegazione. E invece no. Se ne sta zitta, le mani intrecciate. 
 
«Perché non mi hai detto niente?» esplodo alla fine. Mia madre alza il viso sul mio, lo sguardo limpido. «Perché non mi hai detto che Bellamy Blake sarebbe venuto a lavorare qui per due mesi? Due mesi, mamma, non due giorni. E si tratta di Blake, per Dio!»
 
«Clarke!» esclama lei severa. Io mi porto un dito alle labbra, nervosa. Comincio a mordicchiarmi un'unghia, una cattiva abitudine che riemerge quando sono nervosa. «Vediamo di moderare il linguaggio, innanzitutto.»
 
Dopo un attimo di silenzio, nel quale continuo a soppesare la stanza in lungo e in largo, mia madre si alza e si dirige alla finestra. Quando fa così vuol dire che è pensierosa e che cerca di dosare le parole, di solito per non ferire le persone. Sospira.
 
«Bellamy ha una storia difficile alle spalle. Anzi, ce l'ha ancora. La scorsa settimana, Marcus Kane è venuto qui e mi ha chiesto un favore.»
 
Io ascolto con attenzione, adesso immobile, appoggiata contro la parete di fronte alla finestra.
 
«Stava cercando una sistemazione per Bellamy, per la sua prova finale. Ha detto che nessuno, ad Anacostia, nessuno di quelli che ha chiamato, ha accettato di averlo come stagista per due mesi. Sai cosa vuol dire, Clarke? Vuol dire che Bellamy rischiava di rimanere alla Correction un altro anno ancora. Sai che ha ripetuto già alcune volte, per una cosa o per l'altra, e in fondo non è poi così tremendo come lo dipingono.»
 
«Come fai ad esserne sicura?» chiedo. La sua sicurezza mi fa infuriare e in essa riconosco anche la mia consapevolezza, quella di essere qualcosa. "Io" sono qualcosa. E Bellamy non è niente.
 
«Conosco Bellamy da quando era un bambino, Clarke» spiega lei girandosi a guardarmi, la voce all'improvviso più calda. «So che non è come appare, è solo che deve capirlo anche lui. Tutto qui.»
 
«Quindi è solo a causa del tuo spirito caritatevole che hai accettato la richiesta di Kane.»
 
«Non l'ho fatto per carità. Non vederla in questo modo. L'ho fatto perché tutti meritiamo una seconda possibilità. Anche Bellamy.»
 
Annuisco, ancora non convinta. 
 
«So che non siete amici. Lo so bene. E so anche che questa convivenza forzata potrebbe diventare piuttosto critica. Avete due caratteri forti e non sarà facile, ma potreste stupirmi e cercare di andare d'accordo e chissà, magari diventerete anche amici, con il tempo.»
 
Mi metto a ridere, passandomi una mano fra i capelli. «Non credo succederà. Troppo visionario.»
Mia madre sospira un'altra volta. Sembra che non abbia fatto altro, da che abbiamo cominciato a parlare. 
 
«In ogni caso, starà qui per due mesi, che ti piaccia o no, quindi vedi di non essere troppo ostile» continua dirigendosi alla scrivania e assumendo un tono professionale, un tono da "Abby è contrariata e seria". «Per adesso l'ho messo a riordinare i fascicoli, ma quando avrà finito comincerà ad affiancarti nei tuoi compiti e mi aspetto che tu sia quanto più professionale possibile, siamo intesi? Questa sarà una prova anche per te.»
 
Annuisco nuovamente e sciolgo le braccia che avevo così strettamente incrociato poco prima. Mi fanno male e ho i muscoli indolenziti. Il mio corpo ha cominciato a tendersi da quando ho visto Blake seduto a quella dannata scrivania. 
 
«Fai entrare un altro paziente, quando esci» conclude lei sedendosi e rovistando fra alcune carte.
Io la guardo ancora per qualche istante e poi esco dalla stanza. Odio quando mia madre mi tratta come se fossi una stupida. Il mio muro inizia a creparsi, minacciando seriamente di crollare. È tutto ciò che mi circonda, il mio riparo contro il mondo, tutto un insieme di consapevolezze - su me stessa, sulla mia forza, sul mio carattere - e parti di me stessa perse negli anni che ora fatico a tenere insieme, solo per sopravvivere - sentimenti pietrificati, cose troppo a lungo trattenute, amori dimenticati. È qualcosa che mi protegge, soprattutto dalle persone. Non voglio farmi male. Non di nuovo.
 
Una volta lasciato l'ufficio di mia madre, mi ritrovo nella sala d'attesa. Bellamy è chino alla scrivania, alcuni fascicoli impilati alla sua sinistra e una tazza di caffè dall'altra parte. Poggia la testa sul palmo della mano e cerca di dare un senso al caos di anni di cartelle cliniche mai seriamente riordinate. Questo è un lavoro che avrei dovuto fare io da parecchio tempo, ma che ho sempre rimandato. L'inizio della mia "esperienza" alla Correction ha ritardato ogni cosa. All'inizio non volevo neanche mettere piede all'ambulatorio. Era qualcosa che semplicemente negavo, secondo un processo controproducente e nocivo che mi portava a trascorrere i pomeriggi nella mia stanza, la testa sprofondata nei cuscini, ascoltando i Pink Floyd - il gruppo preferito di mio padre - a tutto volume, cercando ostinatamente di disturbare il vicinato - e mia madre. Facevo i compiti di notte, solo per tenere la luce della scrivania accesa e fare la trasgressiva. Ho anche cominciato a fumare, soprattutto sigarette, e qualche spinello procuratemi dal mio amico Jasper. Il sabato sera uscivo e stavo fuori fino a tardi. Qualche volta sono anche tornata ubriaca. Faceva tutto parte del pacchetto "procuriamo delusioni su delusioni ad Abigail Griffin, così la prossima volta che farò una cazzata non apparirà come una sorpresa". Non so cosa mi abbia fatto tornare sulla retta via. Forse vedere mia madre distrutta tutte le sante sere, quando si addormentava sul divano o quando rientrava il mattino alle prime luci dell'alba, stanchissima dopo il turno di notte all'ospedale, in città. O forse il fatto che l'ambulatorio fosse diventato un vero caos e che una persona da sola non ce l'avrebbe mai fatta. Ho smesso di bere e fare tardi, anche se non di fumare - solo sigarette, però - e sono tornata ad aiutare mia madre. 
 
Mi avvicino alla signora Collins, seduta su una rigida poltroncina.
«Buongiorno, Clarke» mi saluta sorridente.
«Signora Collins, come sta, oggi?»
 
Sento addosso lo sguardo di Bellamy - che continua a bucarmi la pelle - mentre aiuto la vecchia signora ad alzarsi e l'accompagno verso lo studio. La signora Collins viene tutte le settimane, per via del suo perenne mal di schiena. Una volta lasciatala con mia madre, torno da Bellamy e mi avvicino agli schedari. Ne apro uno e tiro fuori alcuni fascicoli, che poi lascio cadere sulla scrivania con un tonfo.
 
«Cosa fai?» mi chiede lui ed è la prima volta in cui Bellamy Blake mi fa una domanda veramente interessata. Mi segue con gli occhi e io alzo i miei a guardarlo, seria. Le mani sui fianchi, lo osservo attentamente.
 
«Piccola premessa» inizio. «Ho accettato il fatto che tu debba stare qui con noi due mesi. Mia madre mi ha spiegato tutto del tuo misero caso. Nessuno ti voleva e così eccoci qui, a fare beneficienza. Va bene, okay, in fondo è mia madre a decidere. Questo non vuol dire che dobbiamo per forza parlare di cose che non siano lavorative o strettamente legate all'ambulatorio e alle tue mansioni. Mentre facciamo qualcosa insieme - perché a quanto pare dovremmo, anche se a malincuore - non è necessario sfoderare chiacchiere di circostanza che tanto sappiamo bene non interessano a nessuno dei due, men che meno a me. Non mi interessa parlare con te, Blake, tanto meno esserti "amica". Una volta terminati questi due mesi, se Dio vuole il più presto possibile, potremo tornare ad ignorarci come abbiamo sempre fatto. Siamo intesi?»
 
Prima che Bellamy possa aprire bocca, torno all'attacco. «Dimenticavo. Visto che, a quanto pare, mia madre ha deciso che presto mi affiancherai nel mio lavoro di assistente, farai esattamente ciò che ti dico, senza controbattare o replicare o dire cose stupide e futili, d'accordo? Vedi di non starmi fra i piedi, Blake.»
 
Così dicendo, prendo una sedia e mi siedo di fronte a lui. Afferro la sua tazza e bevo un lungo sorso di caffé, ormai freddo. Apro un fascicolo e comincio a cercare di trovare un ordine in quel caos. Sento che Bellamy ancora mi guarda. «Prima finiamo, meglio è» concludo a mo' di spiegazione senza neanche alzare lo sguardo dai fogli. Sento che lui torna a lavorare sui suoi e tra noi scende il silenzio.
 
 
* * *
 
 
{Bellamy}
Alzo lo sguardo dai fogli. Clarke Griffin è ancora seduta di fronte a me, si sorregge la testa con una mano e si morde le labbra. I suoi occhi scorrono fra le parole fitte dei fascicoli e sono stanchi. 
 
Fuori, la luce del tramonto tinge di arancione le foglie degli alberi e penetra all'interno, accendendo i capelli di Clarke di mille fiamme dorate. Non posso fare a meno di vedere in lei una certa dose di bellezza, una di quelle bellezze stropicciate e fresche e totalmente inconsapevoli. 
 
Deve sentire il mio sguardo su di sé, perché alza il suo su di me, interrogativo. Io sfodero il mio solito ghigno, dietro il quale mi rintano da quando sono nato.
 
«Che c'è?» mi chiede lei. Poi deve accorgersi dell'orario, perché lancia un'occhiata fuori dalla finestra alle mie spalle e subito dopo all'orologio appeso sopra la porta dello studio.
 
«È tardissimo» esclama alzandosi in piedi. «Il tuo turno termina alle sei e sono già le sette. È meglio che tu vada, non vorrei ci denunciassi per sfruttamento» aggiunge poi con sarcasmo.
 
«Non preoccuparti, non lo farò» dico solo. Mi ritrovo a parlare dopo parecchie ore e sento la gola farmi male. Sono abituato a stare da solo, ma è strano avere una persona accanto e non parlarci affatto. Riordino i fogli e li impilo sugli altri.
 
«Qui continuiamo domani. Ancora un paio d'ore e dovremmo finire» spiega Clarke. Ha messo di nuovo le mani sui fianchi in posizione da battaglia e mi osserva mentre raccolgo le mie cose e mi appresto ad andarmene. Posso captarne il palpabile sollievo.
 
Indosso nuovamente la camicia di jeans che mi ero tolto qualche ora prima e mi carico su una spalla lo zaino con i libri di scuola. Incosciamente, rallento i miei movimenti. Rimando il momento. Sento ancora le sue parole ostili riecheggiarmi nella testa e mi sforzo per trovare qualcosa da dirle che non sia "non ho bisogno della vostra dannata beneficienza" o "vai al diavolo, Clarke Griffin". Ecco, mandarla al diavolo mi farebbe sentire bene. Davvero bene. 
 
Mi mordo la lingua e torno a guardarla. Lei ricambia, e per la prima volta capto dell'incertezza, qualcosa che la fa vacillare, ma solo per un piccolo istante, un secondo infinitesimale. Poi torna la solita Clarke, il cipiglio serio e lo sguardo fermo, l'aria ostile e distaccata.
 
«Ci vediamo domani» dice solo, facendosi da parte per farmi passare.
Le passo accanto e sento profumo di pulito e di sole, unito a qualcos'altro che non riesco ad identificare. 
 
«A domani, principessa» concludo lanciandole un ultimo sguardo. Vedo i suoi occhi sbarrarsi, farsi grandi, sorpresi. E capisco che ricorda. È da una vita che non uso quel soprannome, "principessa", fin dai suoi primi giorni alla Correction, quando, con Murphy e Atom, non le davo pace. Poi le cose sono cambiate. E quel soprannome è caduto nel dimenticatoio. Fino ad ora.
 
La verità è che mi è sempre piaciuto provocare Clarke Griffin, la "principessa" della Correction. E mi piace ancora. 
 
 
*
 
 
La strada verso casa è piuttosto breve e in quel momento mi accorgo di quanto sia vicina a casa Griffin. Un paio di isolati ed eccole qui, le casette a schiera di Anacostia, tutte uguali, un susseguirsi di porte e finestre e muri scrostati e giardini incolti. Sono così da sempre e nessuno sembra tenere alla manutenzione. 
 
Apro la porta e sento nell'aria un vago sentore di alcol. Gin. Ne trovo una bottiglia sul tavolino nell'ingresso, quello dove poggiamo le chiavi e il telefono e le bollette da pagare. La raccolgo e mi trascino in salotto. So già cosa troverò.
 
Mia madre è stesa sul divano, una bottiglia ancora mezza piena stretta tra le dita, la mano abbandonata oltre il bordo. Ha gli occhi chiusi e dorme. Indossa ancora l'uniforme del personale dell'Anacostia Market, che è tutta spiegazzata. Le sfilo la bottiglia dalle mani e la svuoto nel lavandino della cucina, che è un caos di piatti sporchi e panni ancora da stendere che spuntano dalla lavatrice e odore di toast al formaggio. Storgo il naso.
 
Una volta tornato in salotto, la osservo ancora per un momento. È tutta lì, la mia infanzia ormai dimenticata. È racchiusa in quel metro e sessantotto rannicchiato sul divano, i capelli sfatti, l'incarnato pallido, le palpebre tremolanti nel sonno. È lì davanti a me, mi si spiega davanti agli occhi e io tento ancora di afferrarla. Non tanto per riaverla indietro, no, non più, ma soltanto per riviverla, per riassaporare quei lontani pomeriggi in cui il sole splendeva ancora e io sorridevo. Capisco che non ci sono più e che addirittura non ci sono stati mai. Sono solo il frutto della mia immaginazione, qualcosa che non esiste, una chimera. Le stendo una coperta addosso e salgo stancamente le scale, diretto in camera mia. 
 
Trovo mia sorella Octavia rannicchiata ai piedi del mio letto, tremante. 
«O!» esclamo lasciando cadere a terra lo zaino e inginocchiandomi accanto a lei.
Ha gli occhi rossi e il trucco sbavato e mi guarda, aggrappandosi alle mie braccia.
«Che è successo?» le chiedo, preoccupato.
Respira forte, cercando di trovare le parole sul fondo della gola.
«Quando sono arrivata stava bevendo» mi spiega singhiozzando. «Le ho detto di smetterla, che fra poco avremmo cenato, che sarebbe stata male. Ha cominciato a gridarmi dietro, di stare zitta, di finire di controllarla, che non è una bambina. Mi ha insultata e poi sono scappata di sopra.»
 
L'abbraccio, la stringo nelle mie braccia e lei si rannicchia contro di me, cercando di regolarizzare il respiro. Le carezzo i capelli profumati di lavanda. Rimaniamo così, stretti l'uno all'altra. Octavia è tutto ciò che ho. È tutta la mia famiglia.
 
«Come è andata oggi? Da Clarke?» mi chiede dopo un po'. Sembra essersi calmata.
Il pomeriggio appena trascorso mi piomba addosso con prepotenza. Per un attimo l'avevo dimenticato. Mi stringo nelle spalle.
«È andata» rispondo solo.
«Non è come sembra, sai?»
Io cerco i suoi occhi; cerco una spiegazione.
«Clarke» risponde. «Non è come sembra. Dalle una possibilità.»
«Sembra che lei non voglia darne una a me, però.»
 
Le racconto tutto, persino le parole dure della sua amica.
«Clarke è piuttosto sicura di sé e questo spaventa le persone. Ha fin troppa sicurezza, una consapevolezza di chi è e cosa vuole che è fin troppo chiara. La porta ad essere dura e a non fidarsi facilmente degli altri. Protegge se stessa, tutto qui.»
«La conosci bene» constato dopo la sua spiegazione.
È il turno di mia sorella di stringersi nelle spalle.
«Osservo le persone. Nessuno può dire di conoscere "bene" Clarke Griffin, ma diciamo che la capisco.»
Annuisco, riflettendo sulle parole di Octavia.
 
Il sole tramonta, sparendo dal cielo, e noi continuiamo a rimanercene lì, seduti a terra, in silenzio, abbracciati. Octavia sonnecchia sulla mia spalla, sfinita ma tranquilla. Io indugio con la mente, viaggio fra i pensieri, ed è tutto un caos.
 
Rifletto sul pomeriggio appena passato, sull'accoglienza di Abigail Griffin e sull'ostilità della figlia. Le parole di Clarke mi investono nuovamente in pieno, dritte nel petto, dove fa più male. So che non dovrebbe importarmene niente delle sue minacce, della sua arroganza e finta sicurezza laddove nasconde solo dubbi, ma è così, sento tutto, e un po' mi ferisce. Io non sono altro che una ferita nel passato di Clarke Griffin, qualcosa che le ha fatto male; sono le parole che io e gli altri le rivolgevamo nei corridoi, in mezzo a tutta la scuola, parole che si infrangevano contro la sua corazza, contro la sua consapevolezza: lei era "qualcosa". Era qualcosa e noi eravamo niente. Siamo niente. Ora lo so. Ora lo capisco. Le parole uccidono. E ti si imprimono a fuoco sulla pelle, anche se non vuoi, anche se tenti di fartele scivolare addosso. 
 
E ho visto le mie stesse parole impresse sulla pelle di Clarke, sul suo collo bianco, sull'incavo del braccio, sulle guance. Le vedo ancora come se fossero state appena pronunciate. E me ne vergogno. Vorrei tornare indietro e cancellarle, ripulirle, cambiarle. O semplicemente ritirarle. Ma capisco che è troppo tardi. Capisco che siamo chi decidiamo di essere. Nessuno ci dice cosa fare, o dire, o essere. Determiniamo ciò che siamo. E ne paghiamo il prezzo. Clarke ha deciso di essere dura, fredda come ghiaccio, forte contro tutte le parole di tutti i Bellamy Blake del mondo. E io? Io ho deciso di essere ciò che sono per mia sorella, per proteggerla, per difenderla, renderla felice; per mia madre, che non sa più chi è e lotta contro le ombre; per i miei amici, che sono l'unica parvenza di famiglia che io abbia mai avuto; per me. Sì, anche per me.
 
E il pensiero torna di nuovo a Clarke, inevitabile. Un giorno riuscirò a trovare le parole per chiederle scusa, per farle capire che sì, ricordo tutto quando vorrei dimenticarmene, ma solo perché non posso sopportare il peso che quei ricordi costituiscono. Un giorno lei mi guarderà negli occhi senza durezza alcuna e riuscirà a vedermi per come sono davvero. E capisco che non è il "suo" perdono che cerco, che anelo, che desidero con tutte le mie forze. È quello che quel perdono costituisce che mi tormenta: la possibilità di essere migliore, di guardare i miei stessi occhi riflessi nello specchio senza vedervi un velo che li oscura, di andare avanti con la mia vita e finalmente affrontare i miei demoni. 
 
Torno a guardare fuori. La notte si sta allungando sul selciato e nel cielo brillano poche stelle. Octavia accanto a me dorme e anche io piano piano cedo al sonno, cullato dal suo stesso respiro.
 

 
NOTE
  • Il primo pezzo del capitolo, fino alla battuta di Abby («Bellamy starà con noi per due mesi, per la sua prova finale. Bellamy, conosci mia figlia Clarke, vero?») compresa, è ripreso passo passo dalla fine del capitolo due.
  • I Pink Floyd che sono il gruppo preferito di Jake Griffin è un piccolo omaggio a mio padre: sono anche il suo gruppo preferito.
  • La citazione a inizio capitolo appartiene a Fëdor Dostoevkij.

Be', eccomi qui. Devo dire che questi aggiornamenti stanno avvenendo più in fretta del previsto - e dei miei standard geologici XD
Sono contentissima dell'accoglienza che avete riservato a "fireproof", questa cosa mi fa saltellare per tutta la casa. E sono doppiamente contenta perché a quanto pare questo Alternate Universe vi sta piacendo molto, nonostante sappiamo bene quanto sia difficile rendere i personaggi IC quando ci spostiamo in un mondo totalmente diverso da quello originale. Mi avete rassicurato molto, nelle vostre recensioni. Tra l'altro, ringrazio as usual le ragazze che hanno recensito, siete dei tesori ^^ lilyhachi, thegirlonfire__, Helena Kanbara, Emma Bennet, MelBlake e MysteriousLabyrinth. Ringrazio ovviamente tutti coloro che hanno aggiunto fireproof alle seguite e/o alle preferite: siete tantissimi e vi adoro tutti. Grazie <3
Detto ciò, vi do appuntamento al prossimo capitolo. Sono parecchio ispirata, al momento, per cui non dovrebbe tardare molto.

Un abbraccio, Marti.  

ps 1 dimenticavo il mio gruppo FB, per chiunque voglia aggiornamenti e spoiler sulla storia:
https://www.facebook.com/groups/159506810913907/

ps 2 vorrei solo precisare una cosa sul "mio" Bellamy: è un Bellamy diverso da quello che abbiamo conosciuto all'inizio della serie tv. Non è più il Bellamy di "we do whatever the hell we want" (mi sembra di ricordare XD), è un Bellamy più maturo, diciamo che si avvicina molto al Bellamy che è adesso e che tutte noi amiamo, pur mantenendo qualcosa della sua versione precedente. Ci tenevo a specificarlo perché MysteriousLabyrinth, nella sua ultima recensione, mi ha scritto che non è pienamente convinta della "redenzione" di Bellamy, e quindi ho fatto che spiegarlo a tutte voi, giusto per chiarire quesa cosa ^^ Spero si sia capito il mio pensiero XD  Alla prossima :D
 
   
 
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