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Autore: The Custodian ofthe Doors    27/03/2015    1 recensioni
I miti umani raccontavano molte storie. Alcune di esse narravano lo stesso identico evento in modi differenti.
Su di loro, alcuni miti, dicevano che erano stati concepiti toccando un fiore, battendo solennemente il palmo a terra o nel modo più banale, con quello che la gente definiva "loro padre".
Non lo sentiva tale, non lo avrebbe mai sentito tale. Forse come suo superiore, non come suo parente. Dopotutto, lui non sentiva più nessuno come suo parente.
Era forte, potente, possente, spietato, combattivo, crudele -non era forse la stessa cosa di spietato?- feroce, implacabile e vincente. Un cuore di pietra, un ottimo stratega, se volva-quasi mai-, una bestia indomita,-sempre-.
Era temuto e rispettato da tutti, deriso e sbeffeggiato da molti dei suoi colleghi, dei suoi così detti "parenti".
"Invidiosi", si ripeteva "vorrebbero tutti essere come me ma non ne hanno la forza."
Lui si, lui aveva la forza per fare - o essere- tutto ciò che voleva.
Ma a quale prezzo?
Genere: Generale, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Afrodite, Ares, Efesto
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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I miti umani raccontavano molte storie. Alcune di esse narravano lo stesso identico evento in modi differenti.
Su di loro, alcuni miti, dicevano che erano stati concepiti toccando un fiore, battendo solennemente il palmo a terra o nel modo più banale, con quello che la gente definiva "loro padre".
Non lo sentiva tale, non lo avrebbe mai sentito tale. Forse come suo superiore, non come suo parente. Dopotutto, lui non sentiva più nessuno come suo parente.
Non c'era nessun motivo strappalacrime, per quanto ne sapeva la gente era stato sempre così. Lui, poi, non andava certo in giro a smentire le voci, gli piacevano quelle che giravano su di lui: Era forte, potente, possente, spietato, combattivo, crudele -non era forse la stessa cosa di spietato?- feroce, implacabile e vincente. Un cuore di pietra, un ottimo stratega, se volva-quasi mai-, una bestia indomita,- sempre-. Era temuto e rispettato da tutti, deriso e sbeffeggiato da molti dei suoi colleghi, dei suoi così detti "parenti".
Invidiosi, si ripeteva, vorrebbero tutti essere come me ma non ne hanno la forza.
Lui si, lui aveva la forza per fare - o essere- tutto ciò che voleva. Non aveva morale, non aveva leggi se non quella del più forte, dell'onore, non aveva vincoli né mortali né divini. Non li aveva più.
Forse era per questo che in quel momento gli faceva così male guardare suo figlio.
Quel ragazzo si stava affezionando troppo agli altri. Era appena arrivato al campo, aveva undici anni e il suo più grave errore era stato - è tutt'ora- quello di aver legato molto - troppo- con uno dei suoi fratelli.
Sciocco - si ritrovò a pensare- fidati di lui, metti la tua vita nelle sue mani e in quelle dei tuoi fratelli, ma non tenere nessuno di loro nel tuo cuore.
Che cosa sciocca e stucchevole che aveva detto.
Ma era stato inevitabile, era stato dolorosamente inevitabile associare quei ragazzini, sangue del suo sangue, a loro due. A lui e suo fratello.
Credeva che fosse la persona più importante del mondo, più importante della loro stessa madre, sarebbe morto - se gli fosse stato possibile- per suo fratello, ma per lui non era lo stesso.
Se lo ricordava ancora, malgrado fossero passati tutti quegli anni, quei decenni, quei secoli. Ricordava ancora il legame, il bene,- l'amore- che aveva provato per quella vita che si sviluppava al suo fianco, che sbocciava assieme a lui.
La vita degli Dei è strana, lui conosceva suo fratello prima ancora di venire al mondo; loro due si amavano prima ancora che l'Olimpo sapesse della loro esistenza. Come due menti a contatto in un cosmo astratto che sanno che si rincontreranno nel mondo concreto.
Ed era stato questo loro legame primitivo e premonito che lo aveva portato a soffrire tanto quando la madre cacciò suo fratello.
Lo esiliò lontano dall'Olimpo, nel regno che dominava loro zio, per sempre disse.
Gli Dei crescono in fretta, si basti pensare che Artemide - quelle mocciosa femminista e irritante- aveva aiutato sua madre a far nascere Apollo - quel cretino patentato-. Così non appena il suo corpo abbandonò le sembianze di un infante, non appena tutti ebbero riconosciuto il suo ruolo, il suo rango e la sua potenza, si preparò di tutto punto: scelse la sua toga migliore, indossò la sua armatua più bella, imbracciò la sua arma più potente ed in pompa magna discese nel rengno del suo zio prediletto per riavere indietro suo fratello.
A ripensarci adesso, ad ere ed ere di distanza, si rese conto di essersi messo in ridicolo con se stesso nel formulare quei pensieri, nel voler apparire al meglio davanti al fratello perduto.
Era giunto lì con le migliori intenzioni, - troppo buone per uno come lui -, con un discorso ben preparato nel quale richiamava suo fratello tra le nuvole, nel quale lo informava che gli altri Dei lo avevano riconosciuto come uno di loro, un discorso in cui gli raccontava quanto si fosse allenato per quel momento, per andare a prenderlo e riportarlo al suo leggittimo posto, eppure era tutto andato in frantumi davanti al volto rabbioso e rancoroso del fratello.
Lo aveva trovato davanti ad una tavola piena di carte, piena di progetti tra cui un giorno avrebbe ricordato di aver visto quello di un trono. Gli era andato incontro sorridente e trabboccante di gioia ed era stato colpito in faccia da uno schiaffo fin troppo forte anche per lui.
Lo aveva attaccato, lo aveva insultato, lui, l'Olimpo e la madre, gli aveva detto di andarsene, che non aveva bisogno della su misericordia o di quella degli altri; gli disse di portarsi via quella sua aria da vittorioso, che era giunto fin lì solo per sbattegli in faccia la sua bellezza, la sua forza, la sua mole possente e proporzionata.

"«Non ho bisogno di te, fratello, vattene e non rivolgermi più la parola! Non ho bisogno di nessuno, chiaro! Non ho bisogno di vederti pavoneggiare di fronte a me, nella tua perfezione, a compararti a me, tu splendido come la più letale e perfetta lama di Bronzo Celeste ad un pezzo di metallo grezzo ed infome come son io. Tieniti la tua gloria e il tuo stupido titolo, io avrò da solo la mia vendetta.»"

Era rimasto pietrificato, come se avesse incontrato lo sguardo di Medusa. No: quello avrebbe fatto meno male.
Era questo che pensava di lui suo fratello, il suo gemello?
Era così che lo vedeva? Come un pallone gonfiato che voleva solo sbeffeggiarlo?
Era davvero così che appariva al mondo?
Dove era finita quell'anima affina, quell'essere astratto e congiunto a lui che era stato suo fratello?
Forse fu quello il momento in cui capì veramente come andavano le cose, che non bisognava fidarsi degli altri - non volergli bene-.
La rabbia che gli montò dentro si riversò solo nelle sue vene.
Se ne andò da quel luogo senza mai girarsi, ma l'anima che lui cercava di riportare alla luce non lo seguì.
Se ne andò decidendo che nulla l'avrebbe più scalfito, nessuno sarebbe stato più importante per lui.
Dopo tutto, chi era per poter smentire le parole di suo fratello?
Ma non lo era, - non lo è - più.
Così divenne più spietato.
Così, quando Lui attuò il suo piano di vendetta, decisi di contrastarlo con tutti i mezzi a sua disposizione.
Così, quando Lui chiese il suo prezzo per la liberazione della madre, decise che quel trofeo non sarebbe mai stato davvero suo.
Così decise che mai sarebbe sceso a patti con Lui.
E anche se dal suo trono non poteva vederlo, anche se il famoso gemello lo divideva dal suo, lui lo percepiva comunque e se un senso di nostalgia cercava di germogliare in lui, lo strappava solo rievocando quelle parole di rabbia e dolore che forse solo in quel momento riusciva a comprendere.
Aveva cercato in tutti i modi di capire ciò che ancora oggi non afferrava completamente. Alzò lo sguardo sulla parte opposta della sala, sulle cinque Dee che sedevano tranquille sui loro troni, discutendo di cose imprecise nell'attesa che anche l'ultimo Dio maggire giungesse dal suo regno.
Osservò Era, che annuiva alle parole della sorella seduta al suo fianco. Osservò Atena, che discuteva con Artemide di una certa proposta che una sua ancella aveva fatto ad una sua figlia. E osservò la Dea al centro tra le due " vergini ".
Afrodite risplendeva della sua bellezza e ricambiava il suo sguardo con interesse. La stavano forse annoiando tutti quei discorsi?
Lei sorrise ed annuì, come se avesse capito. No: aveva capito, lei capiva sempre tutto.
Fissò incantato i suoi occhi malliflui ed una scarica di dolore gli attraversò la spina d'orsale.
Non aveva mai voluto dire alla Dea di che colore vedesse quegli stupendi strumenti di seduzione, ma dubitava che lei non sapesse.
Incorniciati da dei lunghi capelli color mogano,due anelli di metallo fuso lo osservavano senza indulgi. Dello stesso colore del bronzo celeste liquido.
Sospirò e si lasciò scivolare leggermente sul trono, mentre uno nero sorgeva al lato opposto a quello di Zeus: Ade era arrivato.
Si passò una mano sugli occhi - era stanco- e si preparò ad ascoltare gli ennesimi sproloqui sulla guerra e sulle tattiche da intraprendere.
A lui non interessavano, non voleva più sentir parlare di guerre.
Che assurdità, eh?
Ne aveva fin sopra i capelli e non sopportava neanche tutte le condizioni a cui era stato obligato, dannati Dei.
Qualcuno parlò di armi e subito una voce bassa, roca e potente prese parola per illustrare le varie opsioni che si avevano.
«... sono sicuro che la scorta di bronzo celeste che abbiamo ancora nelle fucine non basterà per armare tutti, sul fronte greco. Su quello romano siamo messi ancor peggio, l'oro imperiale scarseggia sempre, figuriamoci in tempi di guerra...»
Aveva raggione, non sarebbero bastate le armi. Certo: se quel deficente di Zeus avesse ascoltato anche lui per una volta e non solo quella finta puritana di Atena...
Proprio in quel momento la Dea prese parola e cominciò a descrivere il suo piano d'attacco - come se a lui interessasse davvero-.
Fece vagare lo sguardo per la sala e si soffermò ancora sugli occhi di Afrodite, ora intenta ad ascoltare Atena.
Bronzo celeste.Quella parola gi rimbombava nella testa.
Abbassò lo sguardo sul suo braccio, fissò le vene che si mostravano piene e vibbranti sull'avambraccio muscoloso.
Qualcuno disse di nuovo che non avevano abbastanza materia prima.
Il sangue degli Dei è d'oro.
«Non posso produrre armi senza metallo!» Ruggì Efesto.
Si alzò.
Tutti gli Dei lo fissavano ma lui indifferente andò incotro a suo fratello - a quello che un tempo l'era stato. -
Prese la sua spada e, veloce, si fece un taglio sul braccio.
Il sangue degli Dei è oro.
Ma il sangue del Dio della Guerra no.
«Questa materia prima ti basta o devi rompere ancora le palle?»
Bronzo celeste fuso mischiato ad uno strano liquido denso color rubino colava palccido dalla ferita del Dio, come un vulcano che, paziente, aspetta che le sue colate laviche fluiscano ai suoi piedi.
Nel cadere la prima goccia prese la forma di una punta di freccia per poi rimbalzare a terra con un suono metallico.
«Sei sempre il solito esibizionista.» Lo fulminò Efesto.
«Ma come? Non me lo dicesti tu, tempo fa, che ero come una lama di bronzo celeste?».


Comparve senza preavviso, in quella casa che conosceva così bene, spinto solo dalla curiosità - si ripeteva- e da nient'altro.
«Come stà?» Chiese a tono basso una voce delicata e cristallina.
«Si è ripreso, ma è ancora debole.» sospirò una voce più profonda, ma sempre femminile. «Ma se non fosse stato per Dioniso ora starebbe ancora in quelle condizioni penose.»
«Ma non lo aveva guarito completamente?» insistette l'altra.
«Non si può guarire dai ricordi, Sil, quelli non ti abbandonano mai. O li acceti o impari a domarli.»
Un suono strozzato, come il verso di un animale che soffre. Un ragazzo steso in un letto da campo, tra molti altri ragazzi in condizioni peggiori, si contorceva, sudato ed in preda agli incubi.
La ragazza dalla voce chiara, una ragazza snella, mora, con gli occhi azzuri, una ragazza davvero molto bella, era seduta su una sedia vicino al ragazzo; il braccio sinistro fasciato e qualche graffio sul volto sempre bellissimo.
Seduta ai piedi del letto, invece, c'era quella che a prima vista poteva essere scambiata per un ragazzo; che ad una seconda occhiata poteva essere scambiata per un' amazzone e che in fine il Dio riconobbe come, semplicemente, sua figlia.
Era andato lì per lei dopotutto, no?
Clarisse posò una mano su quella del ragazzo, un figlio di Ermes ricordava, con una delicatezza che non sarebbe potuta appartenere neanche al soffio di vento più leggero. «Tranquillo, Chris, non è niente, è solo un incubo...» gli ripeteva dolcemente, nella speranza che forse la sentisse.
Silena invece osservava l'amica. Poi senza preavviso di alzò e la abbracciò.
Clarisse non si scompose e si lasciò cullare da quel contatto.
«Non pensare a me, Sil. Perché non vai a vedere come stà Charles?» L'altra scosse la testa.
«Perché adesso tu hai più bisogno di me.»
«Sil, per favore...» provò a replicare la ragazza della quinta cabina.
«No. E poi io e lui non stiamo insieme, quindi non avrei nessun motivo, nessun...»
«Se solo avessi il coraggio di andare a dirglierlo. Lui è cotto e te anche. Lo sai che è un bravo ragazzo, provaci almeno.»
Silena rise piano a quelle parole, «E da quando una figlia di Ares spezza una lancia a favore dell'amore e per giunta a favore di un figlio di Efesto?»
Anche l'altra rise sotto i baffi,«Vuoi dire: da quando una ragazza spezza una lancia a favore di un suo cugino?»
«O andamo, i vostri genitori si odiano.»
«E allora? Io non sono mio padre, lui non è suo padre e tu non sei tua madre. Guardala da questo punto di vista: Il fato ha aggiustato le cose con noi tre.»
Il silenzio aspettò assieme alla mora le spiegazioni dell'amica, che le avvolse un braccio intorno ai fianchi e la fece sedere sulle sue gambe.
«Con noi tre, si sistema il dilemma dei nostri genitori. Afrodite sta con Efesto ed è amica di Ares, lo aiuta anche con i suoi problemi sentimentali!» affermò con voce importante, facendo ridacchiare di nuovo la ragazza, «Poi Ares va d'accordo con Efesto e lo aiuta persino tenendo al sicuro Afrodite dagli occhi indiscreti degli altri.» concluse fiera del suo raggionamento.
«Secondo te sarebbe andata così se i vostri genitori non avessero litigato?»
«Ne sono sicura, sarebbero stati dei veri fratelli.»
«Già...chissà perché hanno litigato, poi...»
Di nuovo il silenzio ad aspettare i pensieri delle ragazze, ma questa volta Clarisse non spiegò niente a Silena. Si limitò a poggiare la guancia contro la spalla dell'amica e a stringere un po' di più la mano di Chris, ora finalmente calmo.
«Che brutta cosa che è il rancore...» lo disse sovrappensiero, una frase che a molti sarebbe sembrata del tutto fuori posto in quel momento, ma non per lui.


Abbassò la testa nella sua invisibilità, poi alzò gli occhi al cielo.
Come aveva fatto sua figlia a riassumere tutti i problemi della sua vita in una frase?
Si ritrovò a ridere amaramente, una risata senza voce.
Quanto aveva perso per colpa del suo rancore? Quanto avrebbe perso in futuro? E in quell'immediato presente?
Scosse la testa cercando di ritrovare la sua consueta sicurezza e crudeltà. Era il Dio della Guerra per Diana.
Osservò ancora la figlia, sua figlia, la prima dei suoi figli, quella che sarebbe dovuta essere più simile a lui e si scoprì felice nel sapere che Clarisse non fosse davvero come lui, che la sua fosse tutta una facciata.
Forse aveva fatto bene ad accettare una donna come capo della sua cabina, forse avrebbe fatto scelte sagge e grandi cose un giorno, forse avrebbe fatto la differenza in quella guerra.
La sentì incoraggiare l'amica ad andare da quel figlio di Efesto e si propose lei stessa di trascinarla fin li e farle da spalla.
Forse così il Fato aveva sistemato davvero tutto.
Forse così il cerchio si era davvero chiuso.
Forse, forse...troppe cose incerte per il Dio meno paziente dell'Olimpo.
Si permise un ultimo sguardo a quelle due ragazze, che ora camminavano silenziose per il corridoio di letti, strette l'una all'altra. Erano amiche. O almeno lo sperava tanto per sua figlia.
Ridacchiò improvvisamente divertito: stava raggionando proprio come un genitore mortale.
«Io le trovo carine assieme, sono sicura che il loro legame supererà le avversità.»
Neanche si voltò, l'aveva sentita arrivare.
«Pernsi che se non mi fossi fatto prendere dal rancore, se non avessi cercato in tutti i modi di contrastarlo, adesso potrei ambire ad avere un fratello?»
Afrodite si strinse nelle spalle, «Forse.».
La porta dell'infermeria si chiuse lasciando dietro di se solo i respiri pesanti o affannati dei malati.
«Abbiamo sbagliato? Noi due intendo.»
«Non lo so. Se tornassi indietro, cambieresti quello che c'è stato tra di noi?»
«No, non lo farei mai. Ma pensi che potremmo riscattarci?»
«Con loro tre?» «Si.»
La Dea si poggiò alla sua spalla, lasciandosi avvolgere da quelle braccia che tante volte l'avevano tenuta stretta, l'avevano sorretta, consapevole che quella volta sarebbe toccato a lei sorreggerlo.
Ma non aveva una risposta, non poteva mentirgli.
«Forse.»




   
 
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