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Autore: Relie Diadamat    27/03/2015    1 recensioni
Un libro, quattro vite, destini incrociati.
L'amore che sfida il futuro.
Il passato che si mescola al presente.
Una scelta per cambiare la propria vita. Per sempre.
Arthur lo guardò indignato, arrendendosi nel lasciargli campo libero «Oltre ad essere uno scrittore da strapazzo è anche un idiota.»
«Terribilmente idiota.» precisò il corvino, chinandosi per prendere un pacco sigillato e porlo al giovane «Ma fa parte del mio fascino.»
«Cos’è?» chiese il giovane, indicando con lo sguardo il pacco.
«Il pacco che non ho avuto il coraggio di gettare al rogo.» l’uomo insistette, porgendoglielo ancora una volta, finché il biondo non parve convincersi, rigirandoselo tra le mani con fare indagatore.
«Sei una brava persona, Arthur Mecoalt e meriti le risposte che desideravi.» gli disse solamente, per poi incurvare le labbra in un sorriso nostalgico. Arthur lo guardò allontanarsi, rigirandosi ancora per una volta quel pacco tra le mani, poi decise di entrare.

[Quarta classificata al contest "A time of magic" indetto da hiromi_chan sul forum di EFP.]
[Merlin/Morgana] [Modern!Arthur/Mithian]
Genere: Drammatico, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merlino, Mithian, Morgana, Principe Artù | Coppie: Merlino/Morgana
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Più stagioni, Contesto generale/vago
Capitoli:
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           4.Ma d’improvviso…
 

Libro, pagina 120


Fu terribile, ogni giorno che seguiva la notte.
Il mago credette di bere ogni dì un bicchiere e mezzo d’aceto. Scolarlo fino all’ultima goccia per poi sentir nascere quella voglia irrefrenabile di correre in qualsiasi luogo e buttare fuori tutto. Ma nulla uscì dalla sua bocca, non un mezzo singhiozzo, non una lacrima dai suoi occhi.
Imparò a convivere col dolore concentrando tutta la sua attenzione sulla missione dettatagli dal Fato. Andava tutto a gonfie vele nel bagliore del mattino, ma poi il cielo s’imbruniva ed il sole dava il suo cambio alla luna; fu come cadere.
Di notte, quando ogni rumore sembrava annullarsi nel silenzio, Merlin si perdeva nella totale assenza di suono, riscoprendo, steso sul suo letto, ancora vivo il ricordo della voce di Morgana nella sua mente.
Cercava di riportane alla mente il profumo di cedro, il fresco della sua pelle diafana e alcune volte gli pareva di averla accanto. Lasciava ricadere piano le palpebre a coprirgli gli occhi azzurrognoli, per poi sentirli vibrare febbrilmente.
“Sei solo un bugiardo!”
Quando Merlin riaprì gli occhi, erano tinti d’oro, mentre al suo lato sinistro accovacciata al suo fianco c’era la figura evanescente di Morgana.
“Non esiste il per sempre.” Il volto etereo della nobildonna s’imbronciò, per poi puntarsi sul braccio del servo.
Il mago non parlava, se ne stava lì, fermo nel suo letto con la testa incrinata verso la sua proiezione mentre sbilenco, le sorrideva.
L’immagine bluastra della corvina prese a carezzargli il braccio con l’indice, effettuando movimenti circolari. Era così concentrata sulla sua pelle da sembrare assente.
Merlin la lasciava fare, immaginando di sentire per davvero il suo tocco fresco sulla sue pelle, ma tutto ciò che lo toccò fu aria. Semplice e banalissima aria.
“Ti sei già dimenticato le ultime parole che mi hai detto.” Ghignò provocatoria, facendo assumere alla sua faccia una strana smorfia che ormai il servo aveva imparato a comprendere bene “Cosa aspetti a portarmi via?” conturbò ancora, lasciando scivolare la mano sul torace, per poi scendere sempre più in basso.
Poteva vederla, poteva anche illudersi di poter sentire la sua mano contro il proprio corpo, ma non avrebbe avuto senso prendersi in giro fino a quel punto. Chiuse gli occhi, prima ancora che il palmo aggraziato della nobildonna potesse toccargli il cavallo dei pantaloni.
Piombò in un silenzio surreale, nulla pareva avere più voce o rumore. Né la luna sembrava più splendere in cielo accanto alle sue stelle. Riaprì piano gli occhi, riscoprendosi solo, nella sua stanza buia, illuminata solo dalle luci degli astri.
Se il suo mentore avesse saputo che da quando Morgana era partita, per disperazione aveva imparato quell’incantesimo, molto probabilmente lo avrebbe guardato in malo modo, riservandogli una paternale senza clemenza, ma poi si sarebbe intenerito perché Gaius era una brava persona e lo avrebbe consolato, prendendolo per le spalle. Ma poi non sarebbe stato più libero di recitare quella magia e ciò era impensabile per lui.
Necessitava di vederla, di sentirla parlare, di saperla in parte ancora sua. In fondo cosa c’era di sbagliato, si ripeteva. Chiunque avrebbe serbato nel profondo del cuore la memoria della persona amata, rivedendola nei sogni dove sarebbe stato libero di baciarla e viverla in parte. Non era forse la stessa cosa che faceva anche lui, si giustificava.
Si rigirò sul fianco, cercando una posizione stabile almeno nel suo letto, costringendo il proprio sguardo a fermarsi nella maestosa semioscurità della sua stanza. Doveva ammettere che Arthur aveva proprio ragione: vi era più disordine tra le sue cose che nella mente d’un uomo.
Sorrise di riflesso a quel pensiero, posando lo sguardo sui vari oggetti sparsi un po’ ovunque. Le labbra s’irrigidirono nella loro posizione curva, quando le iridi del mago incontrarono i propri abiti maschili, tenuti stranamente ripiegati con cura. Merlin sapeva perché vi era tanta cura nel trattamento di quegl’indumenti.
Morgana si accorse dell’espressione attonita del servo e s’affrettò a corrugare la fronte «Che c’è? Non sono forse nelle mie vesti migliori?»
«Siete incantevole…» il mago sentì le sue labbra muoversi da sole, mentre il suo sguardo se ne stava assorto sulla figura della nobile.
Rapidi come lampi i ricordi riaffiorarono nella sua mente. Si alzò dal letto dirigendosi verso il suo completo maschile, senza neanche rendersene conto. Le mani sembrarono agire da sole, sollevando il vestiario all’altezza del torace.
«Mia signora… penso sia ora di…» cercò di dissuaderla il corvino, ma la castellana lo interruppe porgendogli la mano «Ti concedo l’onore di un ballo, Merlin.»
Il mago si portò il viso sul tessuto grezzo della sua blusa, ispirando tutto l’odore racchiuso nella stoffa.
La corvina gli era di fronte e avvicinandosi piano a passo di danza fece un inchino, per poi indietreggiare nuovamente. Non vedendolo attivo, la nobildonna roteo gli occhi richiamandolo con tono acido «Potrei trovare di meglio, sai?»
Sapeva ancora di lei. Quell’odore nei suoi abiti era ancora il suo profumo. Si perse nella vaga fantasia nel rivederla con i suoi indumenti addosso, magari con una treccia che le ricadeva di lato, mentre elegante e sensuale come sempre danzava, sovrana di ogni cosa.
Sentì lo stomaco torcersi dolorosamente, mentre un nodo alla gola sembrava impedirgli il respiro. Morgana era partita da molti giorni, mesi forse ed era dunque lecito pensare che ormai fosse diventata la moglie di Sir Valiant.
Il cavaliere insinuava le sue mani tra le curve della consorte e lei non opponeva resistenza. Rude era il suo tocco sui seni della donna, vinto dal desiderio virile di possederla. Ma Morgana lo lasciò fare, permettendogli di spogliarla nel semibuio di una stanza. L’uomo allora osò di più, aggravando la donna del suo peso, cercando terra fertile.
Il corvino batté con forza le ciglia con fare repentino, dissolvendo quell’immagine da dinanzi i suoi occhi. Saperla maritata con un uomo, saperla toccata e… Dio, lo faceva impazzire! E lo uccideva, piano e dolorosamente, lo uccideva.


**

 
Arthur distolse piano lo sguardo dal libro. Quella mattinata in azienda non c’era molto lavoro da fare, così si era portato avanti con la revisione del manoscritto – e quanto pareva aveva fatto bene, certe scene era meglio non spiegarle ad Ygraine – immergendosi nella lettura.
Qualcosa però, gl’impedì di andare avanti.
Ricordò di tempi addietro, del primo mese trascorso senza Ginevra. Fu come impazzire. Una lenta e triste agonia.
Se la immaginava sorridente, tra le braccia di Lancillotto ricordandosi di quando era lui a stringerla in quel modo. La rabbia e la tristezza finirono per inghiottirlo del tutto, mentre nel profondo, una volta rimasto da solo, continuava a chiedersi cosa avesse fatto di tanto sbagliato da meritarsi una come Ginevra.
Un rogo lo consumava, alimentato dal suo stesso rancore. Non si intromise tra i due, li lasciò liberi di viversi la propria vita, augurando ai due una vita allegra e piena di gioie.
Adesso, più si guardava dentro più sentiva tutto fermo, nessun fuoco, nessuna fiamma ad ardergli l’interno.
Erano le dieci del mattino e fuori non c’era molto sole. Dalle finestre penetrava una luce priva di calore; si posava su ogni oggetto della stanza, conferendogli un colori e ombreggiature diversi. Dal vetro satinato della porta, scorgeva la sagoma autoritaria del padre discutere al telefono chissà con chi, chissà per cosa.
Gli sembrò di vedere il mondo statico dinanzi a lui, mentre si dilettava a compiere movimenti apparenti. La contemplazione della staticità gli era sempre parsa buffa: nulla si muove, nulla muta, nulla brucia… Arthur non si era mai sentito così spento in tutta la sua vita.
Con uno scatto fulmineo si alzò dalla sua sedia mo’ di ufficio, prendendo tra le mani il suo cappotto e le chiavi della sua auto – finalmente tornata nelle sue mani – e quelle di casa propria. Afferrò il tutto frettoloso, uscendo a capo alto con un solo pensiero nella mente.
 
Era da tempo che non sentiva rombare il motore della sua Porsche, così rimediò all’istante. Aveva bisogno di velocità, di sentire il vento scuotergli i capelli. Doveva sapere il mondo in movimento e non in eterna pausa, come ormai era la sua vita da tempo.
 
Scese dall’auto come una furia, dirigendosi senza alcuna esitazione verso il garage, sollevando la serranda con impeto, fino a farla rialzare con un frastuono fastidioso. Avanzò a grandi passi al suo interno, dirigendosi verso l’angolo più remoto, dove vi era uno scatolone sigillato con lo scotch. Impugnò le chiavi della sua Porsche, utilizzandone l’estremità come taglierino affondandola nel cartone. Divise a metà la superficie della scatola, dando immediato uno sguardo al suo interno.
Restò a fissarne il contenuto per un tempo a lui indecifrato, sentendo la mente volare via nel tempo. Issò lo scatolone da terra incurante della polvere che lo rivestiva, poi lo adagiò nei sedili posteriori della sua auto.
 
Libreria, ore 10.30
 
Non c’era molto sole, ma la luce mattutina batteva lo stesso sulla vetrata della libreria, rendendo l’ambiente più confortante. Mithian amava quel posto, ma erano in pochi a pensarla come lei; non tutti riuscivano a perdersi tra le pagine di una storia, quasi nessuno sembrava saper viaggiare stando in completa immobilità.
Ad ogni modo, la libreria rimaneva un luogo per persone solitarie, non avvezze a perdersi nella banalità del contemporaneo, anche se a volte la mora riusciva a scambiare piacevolmente qualche parolina con clienti abituali. La Signora Hunit, ad esempio, passava puntualmente nel fine settimana con il suo bel cagnolino Will. Era una bella donna, sempre allegra e solare; a Mithian non dispiaceva chiacchierare un po’ in sua compagnia e magari dispensare qualche coccola all’energico cagnolino.
Lavorare in una libreria consentiva anche d’incontrare coppie assurde, quelle che nessuno sognerebbe mai di vedere.
Mithian era intenta a sistemare gli ultimi arrivi negli scaffali quando il campanello le annunciò l’arrivo di un nuovo cliente. Subito si affrettò all’entrata e fu lì che il suo sguardo incrociò quello di due novelli sposi – almeno così si presentarono – ritti in piedi dinanzi al bancone.
La donna aveva biondi capelli mossi, lunghi fino a metà schiena. L’eleganza del suo stile la contraddistingueva, dandole un’aria regale. L’uomo al suo fianco era moro, aitante, i capelli sbarazzini lasciati al vento ed una barba pungente ad incorniciargli il viso. Lei era posata ed aggraziata, lui un ‘Don Giovanni’ travestito da clown. Fu come ritrovarsi dinanzi agli occhi Mary I felicemente sposata con Dante Alighieri: sconcertante.
Era una coppia molto particolare, una di quelle che il Destino sembrava aver unito per beffa. Mithian si divertì nel vedere gli inutili tentativi di corteggiamento dell’uomo – Gwaine, se la memoria non la ingannava – nei confronti della donna che prontamente lo zittiva, rimanendo beffardamente sorridente indicando alla mora i libri che le interessavano.
Un po’ le ricordarono i suoi genitori. Anche loro erano due universi a parte. Suo padre era un inguaribile romantico, sua madre era una donna crudele.
Dopo quel bacio con Arthur si fermò a pensare al loro rapporto. Non si somigliavano in nulla, ma non erano opposti. Dove il biondo non arrivava c’era lei ad aiutarlo, anche se Arthur per cocciutaggine e orgoglio infantile non gliel’avrebbe mai riconosciuto.
Erano… complementari. Ma ogni coppia lo è, a proprio modo, pensò la mora.
Quella mattina la libreria era semivuota. Talvolta Mithian amava la solitudine, proprio come sua madre. A dire il vero, lei era una donna emblematica: se un giorno desiderava starsene da sola, quello dopo si trascinava nel centro, facendo impazzire il suo povero marito. Litigavano spesso, anche per cose futili. Era una guerra perenne, ogni santo giorno, ogni dannatissima ora, eppure l’amore sapeva tenerli uniti.
«Pensare significa oltrepassare.»
Mithian sobbalzò, portandosi una mano in petto, girandosi verso il suo fianco destro. Un uomo corvino, sulla cinquantina, sorrideva lievemente, mentre i suoi occhi di cristallo si posavano sulla giovane «Ernst Bloch.»
«Papà…» soffiò la mora, togliendosi la mano dal petto «Mi hai spaventata.»
L’azzurro accecante delle sue iridi penetrarono la pelle della mora, mentre la sua bocca prendeva la curva di un sorriso, infondendo nella giovane calore paterno «Non era mia intenzione.» si spostò verso il bancone, poggiando una mano su una pila di libri di genere storico. Le dita affusolate parvero carezzare quell’ammasso di carta, evidenziando un forte amore verso la sapienza «A volte il tempo è pura relatività.»
Mithian restò immobile, prendendo familiarità con la presenza del padre nella stanza, osservando i movimenti. Era sempre stato un uomo profondo, pieno di mistero. Lasciava trapelare saggezza nelle sue parole anche se ad occhio e croce pareva tutt’altro che saggio. Col tempo il colore dei suoi capelli era mutato di poco; la chioma corvina era stata profanata da alcuni fili bianchi nel mezzo.
«Come mai sei venuto qui?» s’interessò la figlia, cercando di trovare uno spazio individuale tra loro, mantenendo un tono familiare, anche se tradito da una vena di tristezza.
«E’ pur sempre stata la mia libreria.» l’uomo lasciò scivolare il palmo destro sul dorso esposto di vari libri, fino a fermarsi al volume di Shakespeare; alzò lo sguardo verso la figlia, scrutandola bene, come era solito fare «Ma so che è in ottime mani.»
Erano in quei momenti che il cuore di Mithian si riscaldava. Era profondamente legata a suo padre, condividendone un legame speciale. Quand’era piccola sognava di vivere per sempre al suo fianco, provando talvolta gelosia nei suoi confronti se dava più attenzioni a sua madre che a lei, ma in una cosa non aveva mai fallito: suo padre sapeva dimostrarle quanto fosse fiero di lei, portandola sempre ad un passo dalla commozione.
Sorrise sincera, imbarazzata dal complimento, poi volse la discussione su un altro fronte per mascherare l’apprezzamento goffo dell’elogio «Com’era l’America?»
«Meno male di tuo nonno.» scherzò su l’uomo, per poi avvicinarsi alla figlia «L’uomo tende a dare una misura ad ogni cosa, ritrovandosi con idee scostanti.» alzò le spalle scrollando via di dosso quell’aria filosofica, cedendo all’ironia «Magari tu l’avresti trovata meravigliosa.»
La mamma l’avrebbe trovata meravigliosa.
Mithian si tenne per sé i suoi pensieri, asserendo col capo «L’America è meravigliosa.»
«Disapprovo ciò che dici…»
«Ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo.» l’anticipò la mora trionfante, provocando un sorriso compiaciuto sul volto dell’uomo. Suo padre l’adorava, ma soprattutto amava il modo in cui riuscissero ad entrare in sintonia.
In momenti come quello, si creava una fitta rete magnetica tra i due, un qualcosa d’inspiegabile. Era come trasportarsi in una dimensione a parte, dove entrambi vedevano le cose con occhi diversi dagli altri. Mithian si sentiva compresa al cento per cento solo da suo padre, ma adesso la cosa la spaventava. La figlia non gli aveva rivelato della sua malattia, temendo di farlo soffrire. Non voleva essere crudele come sua madre, lui non se lo meritava.
Due manate di clacson distolsero la mora dai suoi pensieri, catapultando il suo sguardo oltre la vetrata.
«Che razza di asino bussa in quel modo?» si lamentò l’uomo, infastidito dal suono acuto del clacson.
Mithian sentì il cuore danzarle instancabilmente nel cuore, con fare impazzito. Dalla vetrata vide Arthur nella sua Porsche Panamera che l’aspettava con un braccio poggiato oltre il finestrino abbassato e lo sguardo verso la vetrata della libreria.
Scendere dall’auto e venirle incontro come tutte le persone normali no, eh? Imprecò mentalmente la donna, infastidita dall’imbarazzo di quel momento.
«Scusami un secondo.» si congedò dal padre, issando il palmo spiegato per fargli cenno di aspettarla, dirigendosi poi verso l’uscita.
Il padre suo malgrado rimase in silenzio, riservando le domande per un momento più opportuno. Vide la figlia aprire frettolosa la porta della libreria, avvicinandosi all’auto «Scendere era troppo faticoso?»
«Sali in macchina.» Arthur si era aggiustato sul suo sedile, prendendo a guardare la strada.
«Cosa?» domandò attonita.
Finalmente il biondo sembrò voler collaborare, guardandola in volto. Mithian sentì una strana sensazione invaderle lo stomaco. Il viso di Arthur era diverso… sembrava spento. Capì subito che c’era qualcosa che non andava, non aveva senso in quel momento fare altre domande, lui aveva bisogno di lei, ora.
«Torno subito.» lo rassicurò la mora.
Lo vide rimanere immobile, mentre lei si affrettava a rientrare nella libreria.
«Devo assentarmi. Non è che per caso potresti pensarci tu qui?» Mithian prese in fretta il cappotto ripiegato sulla sua sedia, oltre il bancone, per poi stampare un bacio sulla guancia destra del padre «Grazie.» l’anticipò, fiondandosi verso l’uscita.
«Chi è quel tizio?» la incalzò lui, fermando i suoi passi.
La giovane sorrise, scuotendo il capo con fare superficiale «Arthur.» si limitò a dire.
«Arthur?» domandò ancora, alludendo ad altre informazioni.
«Arthur Mecoalt.» rimarcò, convinta di aver dato tutte le delucidazioni opportune. Per Mithian in fondo era così, bastava il solo nome di quell’uomo per crearle un mondo intero nella sua mente.
 

Arthur fu silenzioso in macchina.
Erano di quei silenzi che i poeti definirebbero soffocanti. Il biondo continuava a tenere lo sguardo sulla strada, senza pronunciare una sola sillaba. Mithian si era ripromessa di non interrompere il suo attimo di rifugio; Arthur era solito rifugiarsi nei suoi silenzi, proprio quando le parole gli sarebbero pesate più di un milione di macigni, ma lei non era mai stata una tipa consenziente.
«Dove stiamo andando?» domandò, cercando il suo sguardo perso verso la strada.
Trascorsero bonariamente altri trenta minuti d’orologio. Mithian se ne stava seduta nel sedile anteriore sinistro, accanto al posto guida occupato dal giovane. I capelli legati in uno chignon spettinato dal vento, sembravano darle più impatto con l’aria violenta che soffiava dai finestrini abbassati della Porsche.
«Riceverai la risposta che meriti.» disse d’un tratto l’altro, facendo cadere la mora in uno stato confusionario, finché tutto non le fu più chiaro.
«L’ami ancora?» trovò il coraggio di chiedergli, sorridendo con un solo angolo della bocca, mantenendo lo sguardo fisso nei suoi occhi bluastri.
L’altro la guardò in silenzio, serrando lievemente la mascella «Non lo so.»
Deglutì nel silenzio scandito dal solo dal motore dell’auto, diretta chissà dove. Rimase zitta, aspettando solo di arrivare a destinazione, sperando che non le facesse troppo male.
 

Libro, pagina 140
 

Camelot parve dilettarsi nel prendersi berla del povero mago.
Il cocente sole non brillò mai così tanto come quel dì, le distese verdastre non furono mai sì piacevoli da mirare. L’allodola non annunciò mai con tal armonia l’arrivo del nuovo sole.
Anche il Mondo, pur stando immobile deride un cuore dolorante, il corvino scostò gli enormi tendoni rossi, permettendo alla luce di ferire il viso assonnato del suo padrone.
Il principe mugugnò qualcosa, rigirandosi sul lato, per poi strofinare la sua guancia contro il candido cuscino regale. Il servo ne sorrise intenerito: alcune cose, ahimè, non cambieranno mai.
Gli sfilò con familiare confidenza il cuscino da sotto il capo, facendo ricadere il viso del regale contro il materasso, mentre quest’ultimo continuava a regalargli generosamente insulti asinini.
Quel giorno, sembrò solo uno dei tanti passati a Camelot in continua attesa di un qualcosa d’indefinito… ma d’improvviso…
Le campane suonarono in tutto il palazzo, mentre cavalieri allarmati si catapultarono nello spiazzale.
Merlin ed il giovane Pendragon si guardarono attoniti, non capendo cosa stesse succedendo. Il servo aiutò il suo padrone a vestirsi alla svelta, accompagnandolo fuori dalle mura del castello.
Il mago rimase qualche passo indietro, sorvegliando la schiena del regale, guardandolo fermarsi accanto a Sir Leon «Che succede?»
«Lady Morgana…» il cavaliere rispose con reverenza al suo signore, tratteggiando con un sorriso lieve una contentezza fedele alla sorte della propria padrona «E’ tornata, Sire.»
Il cuore si paralizzò nel petto del giovane mago, E’ tornata…
«E’ stata aggredita.» concluse diplomatico il cavallerizzo.
Ancora, il silenzio, fu protagonista dell’ansia implacabile nel cuore del corvino.


**

 
Arthur posteggiò l’auto dopo almeno un’ora di guida silenziosa.
Si erano ritrovati a Brighton, sulla spiaggia immensa e deserta; Arthur sorreggeva tra le mani uno scatolone impolverato, mentre Mithian gli stava accanto, sentendo la sabbia sotto la suola delle sue scarpe. L’odore di salsedine le perforava i polmoni, mentre il rumore del mare la cullava dolcemente. Adorava il mare, anche fuori stagione, ma sapeva per certo che il biondo non l’aveva portata lì per quello.
Arthur si chinò a posare sulla rena ricoperta di piccoli ciottoli, lo scatolone impolverato, per poi rialzarsi, senza fiatare.
Il vento feriva i loro visi, ma il giovane pareva non coglierlo, come se nulla lo stesse toccando. Dopo un attimo di esitazione portò le mani all’interno del cartone, estraendone della legna.
 «Cosa stai facendo?» Mithian era confusa e spaesata.
Il biondo iniziò a sistemare la legna sulla sabbia, indietreggiando di qualche passo. Mithian non si era ancora accorta della grandezza effettiva di quel cartone, ma sembrava simile alla ‘borsa di Mary Poppins’.
 «Dobbiamo scavare.» annunciò dittatoriale il giovane, come se fino a quel momento non avessero parlato d’altro.
La mora corrugò la fronte «Sono le undici e quaranta del mattino, a cosa ci serve un falò?» la brezza marina le mosse le poche ciocche ribelli che le pizzicavano il viso, portando con sé l’odore del mare.
«Sarà il nostro rogo
 

Una volta aver scavato a dovere ed aver disposto dei fogli di giornale – usciti sempre da quel fantastico scatolone – nella buca di sabbia ed averci adagiato sopra i rametti di legno, Arthur cercò di darle fuoco con un accendino e parve riuscirci molto tempo dopo, quando il vento gli concesse quella clemenza.
Mithian rimase a guardare in passivo silenzio le fiamme accrescere. Anche da quella distanza il calore si percepiva benissimo. Era come vedere la propria immagine riflessa allo specchio: si era sempre identificata come un rogo, ed era per questa ragione che non voleva avvicinarsi più di tanto a nessuno.
«Passami le cose che trovi lì dentro.» Arthur porse una mano verso la mora, aspettando un qualsiasi oggetto da afferrare, mentre con lo sguardo continuava ad osservare il fuoco danzare.
La giovane si redarguì dai suoi pensieri. Voltò lo sguardo verso lo scatolone; ancora doveva ben capire cosa contenesse e la curiosità stava iniziando ad accrescere. Si chinò per poi frugare con le mani all’interno. La sua mano toccò un qualcosa di cartaceo e liscio e se lo tirò su con lei.
Era una fotografia: Arthur sembrava aver a stento diciott’anni. Aveva i capelli un po’ più lunghi ed il viso più giovanile; indossava una maglia del Manchester ed un jeans scolorito a zampa d’elefante. Al suo fianco, con un sorriso timido c’era una ragazza. La pelle mulatta, gli occhi piccoli e scuri, una cascata di ricci in capo, si avvinghiava al braccio destro di Arthur.
Qualcosa le si mosse nello stomaco e con un coraggio a lei sconosciuto, voltò la fotografia. Sul retro c’era scritto:
Al mio amore Arthur, perché quest’anno ce lo ricorderemo per sempre.
Un senso di vuoto le attanagliò l’interno. Il biondo tendeva ancora la mano, aspettando paziente. Mithian si rigirò tra le mani la foto, guardando ancora una volta quella ragazza in volto, dando una figura concreta al grande amore di Arthur Mecoalt. O almeno a quel che era stato del loro amore.
Gli porse la foto. Il giovane se la rigirò tra le mani e senza nemmeno pensarci su, la gettò nel fuoco. Presto le fiamme divorarono l’intera foto, lasciando spazio solo alla cenere.
«Ancora.» la incentivò Arthur, dispiegando nuovamente il palmo della mano.
La mora si smosse, cercando di reprimere quello strano nodo alla gola che le si era formato; si abbassò di nuovo sulla scatola, estraendone un pupazzo a forma di fragola. Sulla stoffa del peluche c’era scritto: Ricordati che a lei piace solo la fragola. Se mangia altro inizia a fare facce buffe per il sapore. A me non importa, tanto è bella lo stesso, sempre.
Deglutì, cercando di districare quel nodo alla gola, riconoscendo quella grafia come quella di Arthur. Gli porse anche quel pupazzo, senza indugiare oltre. Anche quel ricordo fece la fine della foto, incenerita dalla fiamme.
Il biondo stava distruggendo l’intera storia di una vita condivisa fianco al fianco, all’insegna dell’amore. ‘Al rogo’ finirono anche altre foto, altri ricordi. Su ogni biglietto c’era sempre scritto ‘per sempre’, proprio come nelle fiabe. Ed Arthur lo stava incendiando. Stava dando fuoco a quel per sempre che ad altro non era servito se non a ferirlo.
L’ultima foto doveva essere quella più vicina alla rottura. La mulatta aveva i capelli coperti da un capellino, forse per coprire qualcosa che non c’era più. Sorrideva, stretta nelle braccia possenti del suo uomo, più maturo. Quell’uomo che era cresciuto con lei e con la loro storia d’amore. Sul retro compariva la seguente scritta: Se mai dovessi perdermi non disperare e per favore, non odiarmi. L’amore vero vive del per sempre; in un modo o nell’altro ritroverai ciò che amavi. Sembrerà che tu non mi abbia mai perso. Con amore immenso, tua Ginevra. Finché il fuoco non si spegnerà.
Dare anche quella foto al biondo, sembrò come contribuire alla completa cancellazione di quell’amore. Mithian comprese in quell’istante che Ginevra non era sana. Il fuoco del quale la mulatta scriveva, lei lo conosceva molto bene, ma Arthur sembrava non averlo mai capito. Ad ogni modo, decise che quello non era affar suo e gli porse anche quell’ultimo straccio del loro amore.
Bruciò tra le fiamme, così come Mithian, giorno dopo giorno, sentiva di essere incenerita nel suo interno. Durò una frazione di secondi, poi il suo cuore si separò in milioni di schegge sanguinanti. Arthur aveva singhiozzato. Nella quiete di quella tempesta, il biondo sembrò aver abbassato ogni difesa, crollando.
Mithian si sentì morire. Anche lei avrebbe potuto essere un rogo per Arthur. Per un attimo se lo immaginò ad incenerire tutte le loro foto, piangendo al dolore che gli aveva causato.
Col cuore a pezzi e l’anima in bilico tra l’agonia e la tristezza, lasciò scivolare la propria mano nel palmo freddo dell’uomo. Sentiva che aveva bisogno di lei, in quel momento come mai.
Non lo amerò mai, non lo amerò mai, non lo amerò mai, continuava a ripetersi, mentre un nodo alla gola le opprimeva il respiro; gli occhi pizzicavano e pungevano nella brezza marina diventata improvvisamente vento polare.
Il pianto di Arthur si fece sentire e proprio in quel momento rispose al gesto della mora, stringendo forte la sua mano.
Fu in quell’esatto momento che Mithian capì di aver fallito. Una lacrima le solcò il volto, ferendolo come una lama affilata. Non se ne diede cura di asciugarla, ma accettò in silenzio la sua sconfitta, incastonando al meglio le proprie dita in quelle del biondo.
 Oramai, già sapeva di amarlo.


Libro, pagina 145


Lady Morgana era stata portata d’urgenza nelle proprie stanze, per poi essere visitata dal cerusico di corte. La nobildonna non presentava lividi o ferite sulla pelle biancastra, ma Gaius ci tenne a precisare al sovrano che la figliastra era sotto shock.
A quanto pareva qualcuno aveva assalito la coppia maritata, uccidendo il consorte della nobile. Morgana era palesemente sconvolta, le sue vesti stracciate e ricoperte di sangue seccato.
Il sovrano sembrò dimenticare il rancore verso la fanciulla, sostituito da una profonda pena: Uther Pendragon, per quanto fosse un uomo rude, gelido, aveva un cuore, e quel cuore pareva battere solo per due persone al mondo. Una di queste, era Lady Morgana.
Morgana, fra le lacrime, annunciò anche la scomparsa della sua leale serva, probabilmente prigioniera, se non assassinata, dello stesso assalitore.
Ricordava tutto, eppure non ebbe modo di ricordare il volto del farabutto; causa dello shock, affermò il medico, somministrandole qualche calmante per poi lasciarla riposare.
 

Il cuore di Merlin rimase in bilico tra l’immensa felicità di aver ritrovato la sua amata, e la pena per la sua salute.
Ricordò di molti mesi addietro, quando Morgana non condivideva con lui nient’altro che la residenza nel castello. Era solito regalarle dei fiori.
I fiori sono per le donne, l’unico rimedio a qualsiasi male… o quanto meno, l’unico pegno d’amore che accettano ben volentieri, il corvino ripeteva quella cantilena nella sua mente, ogni tal volta che si accingeva a cogliere dei fiori per la nobile, e poi lasciarli di nascosto nelle sue stanze.
Decise di fare lo stesso, anche in quel mentre. Raccolse un mazzo di fiori violacei che profumavano di buono, stringendosi gli steli in pugno.
Si diresse con uno strano sorriso sulle labbra nelle stanze della nobile, appena dopo qualche ora dal suo risveglio. Alzò la mano per bussare, ma la porta cigolò verso l’interno appena le sue nocche picchiettarono lievemente la superficie lignea. Udì delle voci provenire dall’interno.
Riconobbe quella maschile dell’erede al trono, e poi quella, ancora un po’ scossa, della nobile. Avanzò, seppur incerto sul da farsi; l’idea di poter rivedere il viso della donna amata dopo tutto quel tempo, era così forte da non permettergli di restare immobile.
Le mani gli tremolavano leggermente, mentre avanzando cautamente, sentiva sempre le voci più vicine. Si sporse verso il centro della stanza dove, i due fratellastri si tenevano stretti in un abbraccio.
«Merlin…» soffiò la donna, oltre le spalle del principe, dove il suo mento riposava.
Il corvino sentì il cuore salirgli nella trachea, mentre il giovane Pendragon si era voltato a guardarlo, con aria interrogativa.
«Ehm… sua maestà ha dato l’ordine di portare questi a Lady Morgana.» improvvisò, mostrando impacciato i fiori al suo padrone. L’altro parve convincersi, tanto che si voltò nuovamente verso la sorellastra per congedarsi, per poi lasciare la stanza.
Il valletto reale però non lo seguì; rimase ritto in piedi nella stanza della nobile, con la gioia di rivederla in volto dopo tanto tempo. Non sembrava cambiata. I capelli, anche se più spettinati del solito erano sempre corvini e lunghi quanto ricordava. Gli occhi, seppur velati dallo smarrimento, brillavano del loro verde naturale, quello simile ad uno smeraldo.
Il corvino perse la cognizione nel tempo e non seppe dirsi in quanto tempo si sentì addosso il calore del corpo della nobile, che sorridente premeva forte le sue labbra contro quelle del mago.
«Sono riuscita a tornare da te.» gli disse, staccando piano le labbra carnose da quelle screpolate e rosee del servo «Niente potrà più dividerci.» continuò, mentre i suoi occhi presero a brillare in modo assurdo. Si morse il labbro inferiore, per poi rigettarsi tra le labbra dell’amato.
Merlin dapprima rispose ai suoi baci con tenerezza, poi un dubbio lo arrestò. Le parole della corvina continuarono a vagare nella sua mente, facendo nascere nel servo un brutto presentimento. Il sorriso sparì lieve tra le sue labbra, mentre cercava di ritrarsi dalla sfilza di baci affettuosi della nobildonna «Cosa vuoi dire?»
L’altra non accennò a fermarsi, osando anche oltre, carezzandogli il torace con fare seducente «Smettila di parlare.» gli sussurrò, avvicinando le sue labbra umide all’orecchio destro del servo.
La tentazione di lasciarsi andare fu forte, ma una strana sensazione continuava a farsi viva in lui, impedendogli di abbandonarsi alla passione «Morgana… ti prego.» la respinse dolcemente, insistendo.
«Ma qual è il tuo problema?!» sbottò infastidita, staccandosi autonomamente con fare brusco «Non era questo quello che volevi?!» lo pressò lei, assumendo un’espressione contrariata «Volevi avermi tua ed io ho provveduto!»
Il sangue nelle vene del mago si gelò di colpo, riscoprendo la gola improvvisamente secca, le mani senza alcuna sensibilità «Morgana…» tentò di richiamare il servo, sentendo quello strano presentimento sempre più vivo.
«Cosa avrei dovuto fare?!» la castellana gli urlò contro, irata in volto con la sensazione di non essere compresa «Non ho avuto altra scelta! Odiavo come mi toccava, il modo in cui mi baciava…»
«No, non è vero.» la interruppe. Non voleva sentire ciò che già aveva intuito da sé, in quel momento tutto ciò che desiderava era zittirla, ma non ci riuscì.
«L’ho fatto per te!» gli rinfacciò, sentendo gli occhi inumidirsi «Per noi.» ricalcò più pacata, avvicinandosi piano al servo.
Il corvino scosse il capo, rifiutandosi di credere a quello che le sue orecchie stavano udendo «No, non è così.»
«Sì che è così!» inveì lei con fare autoritario «Ma probabilmente non mi ami come dicevi.»
Merlin perse ogni contatto col mondo reale, vedendo tutto intorno adombrarsi. Non riusciva più ad udire nessun suono, la mente gli si era paralizzata.
Avrebbe preferito morire che sentire quelle parole.
«Va’ via.» ringhiò la nobile, dandogli le spalle con sufficienza.
Il corvino rimase impalato, sentendo i piedi inchiodati al suolo. Avrebbe voluto urlare, piangere, baciarla, dirle che era tutto un brutto sogno, ma non fece nulla di tutto ciò. Non sentiva più nulla e più nulla riusciva a fare.
«Vattene!» urlò ancora, stringendo i pugni, delusa dalla reazione del suo amato. Pensava l’avrebbe capita. Si era macchiata di sangue per lui, si era inoltrata nella buia foresta e camminato per molto, senza cibo con sé, né acqua a sufficienza. Si era sfamata con i resti di carcasse ed aveva bevuto dai ruscelli più limpidi, ma a Merlin pareva non importargliene.
Il valletto reale uscì di scatto dalla stanza dopo l’ennesimo urlo della corvina.
Non m’ama, come tanto decantava, la nobildonna mirò la sua immagine allo specchio. Delle lacrime avevano prese a solcarle il viso; corrugò il volto con fare guerrigliero: mai nessuno l’aveva mai fatta sentire tanto stupida come in quel momento.
 
Merlin camminava, senza neanche rendersene conto. Tutto il mondo sembrava essersi dissolto nel nulla; i suoni si erano affievoliti, la luce del sole eclissata.
Morgana, la sua Morgana era sparita; perché quella donna, di lei non aveva nulla.
 

Brighton viaggio verso Londra, ore 13.20
 

Brighton era stupenda nella sua semplicità. Dai finestrini della Porsche, Mithian vedeva il mondo scorre, pullulante di vita. La linea dei bus era sempre attiva, proprio alla loro sinistra. Si vedevano spesso e volentieri ragazzi correre sulle loro biciclette.
Era come osservare un quadro in movimento.
«Si sta facendo tardi!» si lamentò ad un tratto Arthur, rompendo il silenzio tra loro «Non ce la faremo ad arrivare a Londra per le 14!»
Mithian arricciò le labbra, notando l’inconsueta fila di macchine che si estendeva dallo loro auto, fino a non vederne né l’origine né la fine «Sono in momenti come questi che anche una Porsche si abbassa alle volontà del traffico.» ironizzò la mora, scostandosi delle ciocche ribelli dal viso.
Arthur sospirò, prendendo tra le mani il suo cellulare, approfittando dell’ormai immobilità del traffico. S’irritò anche solo all’idea di dover chiedere un favore simile all’ultima persona consona a quell’occupazione, ma non aveva altra scelta. Si avvicinò il telefono all’orecchio, sentendolo squillare.
«Pronto?»
«Papà.»
Mithian osservò i muscoli tesi del biondo, mentre rumorosamente inspirava. A quanto pareva, Arthur non era solito chiedere alcun tipo di favori al padre.
«Ygraine uscirà da scuola fra un’ora, ma io non potrò esserci.» aveva iniziato, convincendosi che fosse, se non la cosa giusta da fare, la sua unica via di fuga «Ti sarei molto grato se te ne occupassi tu.» disse infine dopo una breve pausa, tenendo a denti stretti l’orgoglio represso.
La mora osservò la scena in silenzio, aspettando di capirne qualcosa da una possibile reazione del biondo, tenendo ella stessa le dita incrociate per quest’ultimo.
«Ti ringrazio.» un sorriso grato si disegnò sul volto del biondo, facendo intendere anche a Mithian che fosse tutto apposto.
 

Libro, pagina 170


La situazione era degenerata.
A quanto pareva anche Lady Morgana possedeva poteri magici, ma la tragedia non si esauriva lì; Morgause, sua sorella di sangue, l’aveva soggiogata con un incantesimo, rendendola schiava della vendetta e del potere. Morgana iniziò a desiderare la morte del suo padrigno e del principe di Camelot, potendo così salire al trono e regnare secondo le sue leggi.
Il regno dei Pendragon non dava diritto di vita a streghe e stregoni e Morgana volle ribellarsi per prima a quella stupida caccia contro la magia. Seguendo un piano segnato dall’odio e dal rancore.
Il Grande Drago aveva avvisato il giovane mago della catastrofe imminente, convincendolo di una cosa: Morgana andava fermata.
Merlin però, non ne ebbe mai il coraggio. Più la guardava più continuava a domandarsi dove tutto l’amore della sua anima fosse finito.
Non sembrava più lei. I suoi occhi non brillavano più della stessa luce sognante, ma erano iniettati d’odio e di vendetta.
Sembrava non ci fosse modo per eliminare l’incantesimo, se non eliminare il problema alla sua origine. Ma il mago, ne avrebbe mai trovato il coraggio?
 


La vendetta di Morgana non si fece attendere.
Nella notte buia e tetra, le stanze regali presero fuoco, disturbando la quiete del castello. Merlin già non dormiva, una sensazione di angoscia gli attanagliava le viscere dello stomaco e quando ebbe la conferma di un assalto al re, accrebbe ancora di più.
Quando arrivò sul posto, delle guardie stavano soccorrendo il re, svenuto per aver respirato troppo fumo. Merlin si guardò attorno ansioso; non vi era traccia di Morgana, probabilmente scappata dal rumore delle guardie… o fermata da qualcuno.
Il cuore del servo perse un battito, percorrendo mentalmente la lista delle persone indigeste di Morgana.
Arthur!, il mago corse, più forte che poté in ogni stanza del castello, temendo il peggio per il suo padrone.


Londra, ore 14.52


Arthur aveva deciso che fosse più opportuno riprendersi prima la bambina dalle amorevoli cure del padre e poi riaccompagnare Mithian a casa.
Passarono il centro della città, dirigendosi nelle zone periferiche, quelle dove le grandi ville iniziavano a figurarsi dinanzi agli occhi dei due giovani.
Il biondo svoltò lungo un vialetto che dava ad una villa in perfetto stile inglese, con tanto di giardino. Era grande da impressionare per chi come Mithian, era sempre stata abituata ad una vita passata in un appartamento al Seymour Street.
Arthur parcheggiò accanto al garage, prevedendo che sarebbe stata una breve visita. Mithian si slacciò la cintura di sicurezza e scese dall’auto, imitata dal giovane. L’aria era più pungente rispetto alla mattina, mentre il sole si era già dileguato dietro nuvoloni grigiastri. L’erba potata del giardino era di un verde scuro, mentre le pareti della villa davano un senso di freddo oltre la maestosità.
Arthur le fece strada fino all’abitazione, ma l’attenzione della giovane fu catturata da risa infantili. Si fermò di colpo, voltandosi intorno, capendo che probabilmente provenivano alla villa.
Almeno non l’ha ancora strangolata, si consolò il biondo, capendo che la bambina fosse ancora viva e non persa chissà dove, da sola e al freddo.
«Mecoalt…» lo richiamò la mora, che intanto si era fermata accanto ad una delle grandi finestre della villa «Guarda un po’ qua.» gl’indicò con lo sguardo di guardare verso l’interno.
Il biondo fece come gli fu detto. L’affiancò a grandi passi, per poi volgere lo sguardo verso la finestra, finché i suoi occhi non si sbarrarono visibilmente.
Dietro al vetro trasparente, seduti sul tappetto persiano a gambe incrociate, suo padre ed Ygraine se ne stavano beati, mangiando cucchiaiate di gelato al cioccolato dalla vaschetta disposta tra loro. Arthur non credeva ai suoi occhi: suo padre, Uther Mecoalt, si era lasciato andare con una bambina dai capelli dorati, assecondando le sue infantili richieste. Per un momento fu come tornare indietro nel tempo. Il biondo non aveva mai visto suo padre così sereno da quando sua madre era ancora con loro.
Sorrise di riflesso a quella vista, pensando a quanto quella bambina somigliasse per davvero alla cara Ygraine.
«Andiamo.» Arthur colse la mora di sorpresa, prendendola per mano.
Si accorse solo in quel momento che forse, tutto ciò che aveva, non era poi così male come credeva.


Seymour Street, ore 19.30


Stava aspettando fuori dal portone da un tempo a lui indecifrato, rigirandosi tra le mani quel fascicolo clinico. Lasciò che il fumo della sua Winston gli colmasse tutto lo spazio possibile nella bocca, per poi rilasciarlo lentamente, dal naso.
Vide una Porsche fermarsi poco dopo l’appartamento, per poi vederne uscire la figura elegante della figlia. Mithian sembrava raggiante e salutava, scuotendo il palmo della sua mano, chiunque fosse dall’altro lato del finestrino, per poi incamminarsi verso casa.
Il volto della mora cambiò drasticamente una volta che si accorse della presenza del padre. S’immobilizzò all’istante, vedendo tra le mani dell’uomo quelle maledette carte. Sbiancò, senza avere il coraggio di proferire parola, dandosi della stupida per non averle nascoste meglio.
«Dobbiamo parlare.» gli occhi azzurri la inchiodarono sul posto, ferendola profondamente. Mithian non voleva affrontare quel discorso, era troppo doloroso, per entrambi.
«No.» si rifiutò lei, cercando di oltrepassarlo per aprire il portone.
«Mithian, ne voglio parlare con te.» insistette, serrandole la strada.
 
Arthur non era ancora ripartito; Ygraine aveva insistito per sedersi nel sedile anteriore dell’auto, accanto al posto guida e lui non aveva replicato, lasciandola fare. Prima di mettere in moto però, il suo sguardo si fermò sullo specchietto retrovisore.
Colse la figura di Mithian cercare di oltrepassare quella pressante di un uomo, corvino, abbastanza alto. Vide il polso della mora essere afferrato da quell’individuo e il sangue gli arrivò al cervello, mandandolo in tilt. Chiuse i pugni con foga tale, da rendere le nocche pallide.
Scese impetuoso dall’auto, sotto lo sguardo attonito di Ygraine alla quale aveva soffiato tra i denti un “Torno subito, non ti muovere.”
 
«No, io non voglio!» Mithian cercò in vano di trattenere le lacrime, convincendosi di essere una completa cretina. Non voleva che il padre soffrisse ancora a causa sua e per una sua dimenticanza, lo avrebbe fatto.
 «Ascolt-» la frase del padre fu lasciata a mezz’aria a causa di un pugno sferratogli sulla guancia, con forza brutale.
Mithian sgranò gli occhi, mentre Arthur urlava rabbioso contro l’uomo «Lasciala in pace, brutto pez-»
«Arthur ma sei impazzito?» gli remò contro la donna, catapultandosi verso il padre ad impedire qualsiasi reazione tra i due «Papà, mi dispiace tanto.» si scusò stupidamente, per qualcosa che non aveva commesso.
Arthur sbiancò nel sentire quella parola, sentendosi improvvisamente piccolo come una formica.
«Tranquilla. Solo che non sapevo che gli asini sapessero picchiare così bene.» punzecchiò l’uomo, portandosi la mano sulla guancia ferita.
Il biondo trattenne la stizza dovuta all’insulto, sapendo di essere dalla parte del torto «Mi dispiace.» disse a tenti stretti, per poi incrociare lo sguardo mortificato e incredulo di Mithian.
Indietreggiò, facendo per andarsene, ma la mora lo raggiunse appena prima che fosse accanto alla sua Porsche «Arthur…» lo chiamò.
Il biondo si voltò, irritato nel sentirsi in fallo e mortificato per la pessima figura, ma la giovane anticipò qualsiasi sua azione «Ci ho pensato molto e… ho pensato che sia meglio non vedersi più. Penso che tra di noi non potrebbe mai funzionare.»
 
   
 
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